Leggendo gli interventi della discussione poco sopra, mi è venuta in mente una sorta di idea pseudo-filosofica che ruota attorno a un pensiero semplice ma scomodo: non tutti i conflitti sono risolvibili sul piano argomentativo.
Non perché manchino dati, esempi o buon senso, qui ce ne sono parecchi, ma perché spesso non stiamo discutendo di idee, bensì di identità.
Molti passaggi di questa discussione mostrano esattamente questo slittamento.
Da un lato io dico: “Vogliamo essere liberi di vivere e pensare come abbiamo sempre fatto”
Dall’altro
M.T. wrote: Essere liberi di vivere e pensare non significa poter fare tutto quello che si vuole. Perché se passa che la libertà è essere liberi di esperimere ciò che si è veramente, allora è caos: tutto può essere legettimato, qualsiasi cosa, anche la più truce. A questo principio di libertà si possono appellare i serial killer, che esprimono il proprio io massacrando le persone; si possono appellare i pedofili che esprimono ciò che sono abusando di bambini; si possono appellare gli erotomani che molestano le donne perché danno sfogo al loro essere più intimo. Questo si capisce quanto è sbagliato e non può essere tollerato (come non può essere tollerato che migliaia di individui scendano in piazza a inneggiare a un regime e un dittatore che ha causato sessanta milioni di morti).
Entrambe le posizioni, prese isolatamente, sono ragionevoli. Il problema nasce quando il termine woke diventa una “pentola semantica” (come ha scritto ElleryQ)
ElleryQ wrote:
Sono concorde con te, infatti, in un post precedente, l'avevo definito "pentola", giocando ironicamente con la parola "wok". Sono d'accordo anche quando dici che è solo questione di buon senso, di cultura e contestualizzazione. Le epoche storiche cambiano e cambiano anche i concetti di morale e rispetto.
dentro cui finisce di tutto: discriminazione reale, buon senso, eccessi mediatici, frustrazioni personali, slogan politici, casi limite.
A quel punto non si discute più di cosa sia giusto o sbagliato fare in concreto, ma di chi siamo:
1°: tradizionalisti vs progressisti;
2°: “gente normale” vs “élite”;
3°: buon senso vs ideologia.
Il video che ho postato del professor Viglione ( insegna presso l'Università Europea di Roma, dove è docente a contratto di Filosofia della Storia, Storia d'Italia dal XVI al XIX secolo e Pensiero e istituzioni nella civiltà cristiana, oltre ad essere ricercatore presso l'Istituto di Storia dell'Europa Mediterranea del CNR.)
Non è mai comparso nei talk show e se in quelli possono parlare altri professori esaltati pro e contro quello che vogliono, con accenti esagitati ed estremisti, può parlare pacatamente anche lui nei suoi video youtube e nei suoi libri di storia, che non incita a nessuna rivolta. Ma alla conoscenza del passato. Fatto grave e imperdonabile di questi tempi, in cui il passato viene rinnegato, ignorato, non deve essere insegnato, conosciuto. Ridicolizzato.
Il video, dicevo, che molti hanno letto come di parte, aggiungendo anche goliardiche colubrinate come questa di cui, sinceramente, a mio parere, si poteva fare anche a meno se non altro per una questione di buon gusto:
ElleryQ wrote: Tornando al video, a questo punto, voglio pensare che il signor Viglione, così convinto della buona fede dei bambini (ma bisogna anche capire come vengono educati i bambini) e dell'utilizzo di termini e gestualità, che un tempo erano adoperati con spontaneità e goliardia, non si sentirà offeso se qualcuno deciderà, goliardicamente, di giocare con la desinenza del suo cognome. È solo uno scherzo innocente!
Non è mai bello giocare così.
Il video descrive proprio questo meccanismo: quando un argomento viene percepito come una minaccia all’identità, i fatti smettono di funzionare. Non perché siano falsi, ma perché non vengono più elaborati: vengono filtrati per difendere un’immagine di sé e del proprio contesto.
Il punto interessante, però, è che questa dinamica non riguarda solo i “cretini” da ambo le parti.
dyskolos wrote: Di certo la madre dei cretini è sempre incinta e c'è sicuramente qualche woke cretino. Ma ci sono anche no-woke cretini. Io non considero i movimenti in base ai cretini che ne fanno parte; il signore del video invece lo fa con regolarità.
Puniamo le esagerazioni e andiamo!
Il video insiste molto su questo: il meccanismo di difesa identitaria attraversa tutti i livelli culturali.
Un sovranista, per di più cristiano, può farlo anche con slogan semplici; un intellettuale può farlo con gergo sofisticato. Cambia la forma, non la struttura.
In questo senso, trovo centrali due osservazioni emerse in questa discussione: quella di dyskolos sulla contestualizzazione culturale (il termine woke importato senza traduzione “transculturale”):
dyskolos wrote: Anche la stessa parola "woke" va contestualizzata. È una parola americana e sappiamo che gli Americani hanno modi molto diversi dai nostri nel rapportarsi con la politica per motivi storici. Voler forzare "woke" (e anche altre parole americane) nella politica italiana è un'operazione senza senso e infatti non so come tradurla. Forse dovremmo usare la parola "sinistra" (woke = sinistra, genericamente), ma anche su questo ho dei dubbi.
quella di M.T. sulla libertà come concetto non assoluto, che senza limiti diventa arbitrio.
M.T. wrote: Essere liberi di vivere e pensare non significa poter fare tutto quello che si vuole. Perché se passa che la libertà è essere liberi di esperimere ciò che si è veramente, allora è caos: tutto può essere legettimato, qualsiasi cosa, anche la più truce. A questo principio di libertà si possono appellare i serial killer, che esprimono il proprio io massacrando le persone; si possono appellare i pedofili che esprimono ciò che sono abusando di bambini; si possono appellare gli erotomani che molestano le donne perché danno sfogo al loro essere più intimo. Questo si capisce quanto è sbagliato e non può essere tollerato (come non può essere tollerato che migliaia di individui scendano in piazza a inneggiare a un regime e un dittatore che ha causato sessanta milioni di morti).
Entrambe mostrano che il problema non è scegliere una tifoseria, ma mantenere uno spazio in cui il confronto resti possibile.
Secondo me, la vera intelligenza non sta nel vincere un dibattito, non avrebbe senso, ma nel riconoscere quali dibattiti vale la pena continuare.
Non tutto merita escalation. Non ogni provocazione richiede risposta. Non ogni parola deve diventare un caso mediatico.
Questo non significa disinteressarsi delle ingiustizie reali (lavoro, sfruttamento, morti sul lavoro, temi che M.T. richiama giustamente, ma preservare energia cognitiva per ciò che ha impatto concreto.
Forse, più che chiederci se il woke esista o meno, o se sia il male assoluto o semplice buon senso, la domanda costruttiva potrebbe essere un’altra:
In quali casi stiamo ancora discutendo per capire, e in quali stiamo solo difendendo un’identità?
Perché quando si scivola nel secondo caso, non importa più quanto siano buoni gli argomenti: il dialogo è già finito, anche se continuiamo a scrivere da qui all’eternità.
Cerco infatti di non intervenire troppo in dibatti che per me sono potenzialmente delle trappole, (claro, no?), non per mancanza di argomenti ma perché so riconoscere quando il confronto è inutile e non amo, non più, degenerare.
Esistono battaglie cognitive impossibili da vincere, non per debolezza degli argomenti, ma perché ci sono interlocutori che non cercano la verità, bensì la conferma delle proprie idee, della propria identità.
Il problema non è la consapevolezza che il mio modo di pensare, anche di esporre, è superato, ma il rifiuto h24 che qualcuno cerchi di comprendere e confutare quello che dico. Come se appartenessimo a civiltà diverse.
Continuare a spiegarmi a questo punto non sarebbe più espressione di pensiero (non dico “libero pensiero”, perché sono saturo di questi termini, fra una pubblicità e l’altra). Continuare a cercare di spiegare il mio pensiero sarebbe solo una patetica ingenuità. Lo riconosco, lo ammetto.
Quando un argomento viene riformulato più volte senza alcun progresso, significa, come ho detto anche prima, che si è superata la linea tra dialogo e difesa identitaria.
Si tratta, per come la vedo io, di osservare una distinzione fondamentale:
Chi non capisce fa domande, al limite riformula alcune parti delle proprie posizioni, cerca chiarezza.
Chi non vuole capire solleva obiezioni “circolari”, ignora le evidenze e riformula i fatti. Talvolta al limite, ma anche oltre, della mistificazione.
Allora i fatti, tutti i fatti, diventano irrilevanti e il dialogo si trasforma in un teatro delle vanità, dove ciascuno recita un monologo.
Ignorare significa assenza di informazioni, ma è rimediabile: cerco di informarmi, di consolidare quello che so, che ho sempre seguito, che ho sempre creduto, che non sono disposto a rinnegare. Può essere grave?
Partigianeria è una difesa attiva contro informazioni scomode, una postura morale prima che intellettuale.
Bonhoeffer diceva che la verità era corrispondenza tra parole e cose, fatti incontestabili. Ma contro la mistificazione a vari livelli, qualunque argomento è inefficace quando i fatti sono rifiutati perché detti o appartenenti a un contesto che non ci piace; quando vengono minimizzati, reinterpretati e, come no, chi li esprime ridicolizzato con battute grevi.
In parole povere, adatte a me, abbiate pazienza, devo mettermi nella capoccia che devo filtrare le argomentazioni prima di intervenire, evitare temi ad alta carica identitaria.
Non è il caso, parlo sempre per me, di fare perfomance retoriche, o “vincere discussioni” con l’ultima parola. Riconosco di sapere quando parlare, quando tacere e quando andarsene. Mica devo convincere chi non vuole essere convinto.
Chissà se si potrà continuare a dire che l’acqua calda fa male se ci immergi la mano. Che sia discriminazione?
Qualcuno disse che la capacità di scegliere le proprie battaglie conta più della capacità di vincerle.
Si salveranno solo coloro che resisteranno e disobbediranno a oltranza, il resto perirà.
(Apocalisse di S. Giovanni)