Traccia di mezzanotte
Una volta per uno non fa male a nessuno
Una volta per uno non fa male a nessuno
Le parole non dette
(Non cambia il clima
il far della tua pianta:
stacchi di foglie
secche sul terreno,
o marce e ignare
di trepide carezze.)
Giacinto aveva tredici anni e il cuore esacerbato.
(Non ci sono afidi a intaccare le foglie degli alberi, dei fiori dei giardini che tu curi con gesti premurosi e con concimi e diserbanti di qualità. Tu coltivi i fiori degli altri, ma non i tuoi… Le cinghiate sono il concime per il tuo Giacinto, eh papà? E com’è che gli afidi me li sento addosso io?)
Sino ad allora, però, si era limitato a scherzi di dubbio gusto, come le prese in giro delle vicine di casa dell’estate, due sorelle di dodici e dieci anni, Laura e Lidia, liguri in vacanza dalla nonna nel paese piemontese.
Lui abitava lì dalla nascita. Laura e Lidia avevano notato che era sempre solo, senza amici, mentre loro frequentavano sua sorella Margherita e si erano fatte anche altri amici: doveva essere il classico bulletto, a scuola.
(Le radici del mio astio son piantate in un terreno franato, di riporto? Cosa vuol dire, che posso uscirne con una scrollata? Che balengo quel prof!)
Durante le giornate passate nel parco del conte, dove lo zio delle bambine lavorava come mezzadro nel podere e il padre di Giacinto e Margherita come giardiniere, erano tante le occasioni di divertirsi. Ci si arrampicava sugli alberi, si giocava ai quattro cantoni con piante secolari, si saltava sul carro del fieno e si prendeva confidenza con gli animali della fattoria. Si sparlava con leggerezza, ci si bisticciava e poi si dimenticava tutto.
Un giorno, le due sorelle erano venute in possesso di un micetto abbandonato.
Che bello per loro prendersene cura, autorizzate dalla nonna! Era un batuffolo di pelo rossiccio e lo nutrivano col latte in un biberon reperito nella credenza di casa.
“Che bel gattino…” Le parole giuste ma il tono e la mimica sbagliate erano una caratteristica di Giacinto.
(Raccoglierò le tue forze con spirito di ferro e le mie per riuscirci. Nessuno mi fermerà. Calpesterò le tue debolezze e spezzerò le unghie tue e del tuo gatto.)
Laura sentì in cuore la sua minaccia; si strinse al petto la creatura e si allontanò senza parlare.
Non trascorse una settimana che il gattino scomparve. L’ultima volta che l’avevano visto era nei pressi di casa loro. L’aveva chiamato sino a diventare rauca, Laura, ma non era più tornato a casa.
Di più: Giancarlo, incontrando Laura o Lidia, sogghignava.
(Belle micette, potessi farvi a fette…)
Poi, un brutto giorno, Pinco si fece male.
Pinco aveva una zampina rotta; era stato trovato riverso lungo una stradina che costeggiava un alveo poco profondo dove scendeva a valle un ruscelletto.
“Chissà cosa sarà successo” ci si domandava. Ma Laura capì subito chi l’aveva fatto, perché questi voleva si sapesse: le bastò cercare con gli occhi il figlio del giardiniere: le bastarono i graffi, da lui poi giustificati coi rovi nel bosco.
Non avevano prove per accusarlo, per cui il ragazzo, che negava la sua responsabilità agli adulti che lo interrogavano, si permetteva ammiccamenti derisori a tu per tu con le bambine, impunito.
La nonna andò a parlare con la mamma di Giacinto. Questa era una donna ancora giovane, ma senza cura per se stessa. Scarmigliata, coi capelli neri unti e ciuffi ispidi sugli occhi, con addosso lo stesso grembiule di sempre, le aveva urlato secca in risposta:
“Mi ha detto che non è stato lui e io gli credo! L’è un brav fiöl!”
La stradina in discesa era in pietrisco, terra franata e sassi; costeggiava un ruscelletto che le piogge gonfiavano, a volte sino a invadere lo spazio della carreggiata. In tal caso, non era prudente avventurarsi per scendere al borgo sottostante. Conveniva fare la strada comunale, anche se il percorso si allungava di parecchio.
Quel giorno, dopo due di pioggia, c’era il sole caldo che aveva compattato parzialmente il terreno, che da fradicio era diventato semi-melmoso, ma Laura ci stava passando lo stesso quando, davanti a sé, vide Giacinto. Lui si voltò e ghignò, indicandole il punto dove avevano trovato Pinco: più chiaro di così!
Lei era robusta come ragazza e gli si avventò contro, ma lui era più grande e più forte.
(Cosa fai, ombra di donna? Meglio toglierti la gonna…)
Le afferrò i polsi con rudezza e, in contemporanea, col piede destro la fece cadere, la gonna slargata nell’acqua.
(Sì, posso farti del male senza un segno; posso annientarti, basta che m’impegno.)
Intanto, il mondo circostante tremò. I due avvertirono lo scuotimento del suolo, sentirono il proprio sbatacchiamento. Comunque lui non smise il suo intento e riuscì a farla cadere nell’acqua con facilità. Laura riuscì a uscirne e gli si avventò contro, quasi cieca per le circostanze, ma, col suo abbrivio per le scosse, riuscì a travolgerlo.
(Papàaa!?...)
Giacinto cadde all’indietro, battendo la testa su una pietra. Laura svenne.
Dopo dieci minuti, il sisma cessò.
La ragazza riprese i sensi, invasa da un ciclone emotivo: Giacinto era morto?
L’aveva ucciso lei o il sisma? O ambedue?
Si sentì di colpo addosso una calma glaciale. Per quella percentuale di colpa sua c’era un rimedio, una soluzione equivalente che avrebbe sistemato tutto. Sentendo dei passi, si appiattì sul suolo, fingendosi priva di sensi, com’era realmente poco prima.
Il passante lanciò un grido e si inginocchiò per prima cosa da Laura, tastandole il polso. Lei si mosse piano e poi aprì gli occhi. “Lui mi ha salvata”.
Ma il melodramma, per fortuna, resse poco. Anche Giacinto aprì gli occhi, ed aveva appena sentito le sue parole. Che gli avevano tolto il coltello dalla parte del manico.
(Stavolta m’hai fregato tu, balenga… Non posso dir che il falso tu sostenga…)
Anche dopo, a mente fredda, Laura si sentì dare questa stessa, inalterata versione dei fatti:
“ Stavamo scendendo al borgo. Io evitavo di parlargli, per via che non mi è mai stato simpatico. È arrivato il terremoto e siamo caduti: io in acqua e non riuscivo a tirarmene fuori: la terra tremava, avevo una paura terribile di morire. Lui mi ha salvata. Mentre mi tirava fuori, un‘altra scossa forte gli ha fatto sbattere la testa su una pietra e anch’io, che stavo andandogli vicino, sono di nuovo caduta e ho sbattuto.”
E alla madre di lui, ricoverato per una leggera commozione cerebrale:
“Aveva ragione su suo figlio... Brav fiol!” Si azzardò a pronunciare, con la voce che si mostrava rotta dall’emozione; sì, quella dell’assillante espressione di un calcolo che per caso era risultato esatto.