Fuggire [revisione]

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«Cascasse il mondo!»
«Cascasse il mondo? Ma sei serio?»
«Te lo ripeto, ca-sca-sse-il-mo-ndo» e sbatte i pugni sul tavolo di noce.
«Non dirlo mai più» sibila Eleonora. «La tua partenza è fuori discussione», e taglia l’aria con le mani.
«E chi lo dice? Tu?»
«Non io, ma l’evidenza dei fatti.»
«Le “necessità altrui” non sono evidenza dei fatti.»
«Ah, no?»
«No.» E va a spalancare la finestra «Qui si soffoca.» Dalle Alpi innevate giunge una ventata di gelo, e dai ceppi che ardono nel camino si sprigiona una scia di scintille.
«Chiudi o si beccherà una polmonite.»
«Non sarebbe male, una morte naturale è quello che ci serve.»
«Abbassa la voce, potrebbe sentirti. Ma come fai ad essere così cinico?»
«Anni e anni di addestramento, che adesso posso mettere in pratica. La mia è un’arte coltivata tra lacrime e rinunce. Mia cara.»
«Ma come parli? E poi… lacrime e rinunce? Non ti ho mai visto versare una lacrima e per quanto riguarda le rinunce… beh, lasciamo perdere.»
«Quando il cuore piange nessuno lo vede.»
«Oh, che affermazione romantica. Da damina dell’ottocento, direi.»
«Piuttosto da gentiluomo delle langhe», e conclude rimarcando «direi.» Fa per andarsene, ma torna indietro: «Fossi stato un altro sarei andato via già da tempo.»
«Smettila. Sei abbastanza adulto per comprendere che hai delle responsabilità. Non scherzare su queste cose.»
«E chi scherza? Per quanto riguarda le mie rinunce sappi che non le conosci; non ti è mai importato di chiedermi cosa volessi.»
«Vuoi lasciarmi sola ad affrontare tutto questo?» Allarga le braccia ad includere tutto quello che hanno intorno. C’è il disordine tipico che arriva con le lunghe malattie: flaconi di soluzione fisiologica, bende, alcol, scatole di medicine impilate come mattoncini della Lego.
Dalla stanza attigua viene un lamento soffocato. Entrambi guardano verso quella direzione.
«La mamma sta morendo e tu vuoi andartene proprio adesso?»
«La mamma mi ha ucciso molto tempo fa. Adesso che non ha più la forza per afferrarmi il braccio e trattenermi posso andare.» Davanti agli occhi scorrono gli anni passati a piangere nella legnaia, tutte le volte che lo zio aveva abusato di lui.
Ogni volta che ci pensa sente il fiato di quel mostro di nuovo addosso.
La prima volta che era accaduto, dalla fessura tra le assi, aveva visto l’ombra della madre ritrarsi e fuggire.
La donna aveva canticchiato tutta la sera mescolando il brodo nel paiolo, apparecchiando, versando mestoli di minestra nei piatti. Lui, ragazzino, aveva cercato il suo sguardo, ma da quel giorno non lo aveva incontrato mai più. 
Poco più che adolescente, tutte le volte che aveva minacciato di andarsene lei lo aveva bloccato sulla porta di casa, senza dire nulla.
Perché?
Giacomo non lo aveva capito.
Provava troppo dolore per accorgersi della vergogna di sua madre, troppa rabbia per perdonare l’assenza della sua protezione.
Quella brutta cosa, tra zio e nipote, si era ripetuta quattro, cinque, forse sette volte. Poi mai più.
Anche questo, per Giacomo, era un mistero. Non erano state le sue lacrime silenziose a fermarlo, ne era certo; per questo la paura che tutto potesse ricominciare non lo aveva mai abbandonato.
Il preludio di ogni “incursione”, tranne che per la prima volta, era sempre stato: «Guarda cosa ti ho portato?» ed Eleonora correva ad afferrare dalle mani dello zio il regalo: una bambola, una cucina in plastica… la distrazione.
La madre di Giacomo aveva riservato al proprio fratello lunghi silenzi, è vero, ma per il ragazzino si era trattato più di sottomissione che biasimo. E così era cresciuto cercando di capire, continuando a subire le “attenzioni” dello zio benefattore. Li aveva accolti e sfamati dopo la morte del padre. E una donna sola con due bambini, senza mezzi…
Ma no, Giacomo aveva continuato a non capire.
Il modo di agire degli adulti gli era rimasto inintelligibile. E la voglia di giocare a calcio si era spenta come altri sogni, che non erano più tornati nemmeno dopo che l’orco aveva perso interesse per il giocattolo umano.
Con il tempo, i desideri infantili di Giacomo erano diventati capricci.

Si abbottona il giaccone pesante.
La sorella lo fissa incredula: «Ricordo come si lamentava il tuo maestro. Facevi a pugni con tutti. Sei sempre stato un ragazzo difficile», lo accusa.
Giacomo annuisce e sorride. Ha le spalle larghe, il rimprovero non gli pesa più di tanto. Dovrei raccontarti tutto ciò che è successo? Odieresti la mamma anche tu. Perderesti anche il ricordo dell’affetto che lo zio ha riservato almeno a te. Perderesti tutto quello che hai e che sei. Non posso farti questo, non voglio. Non hai nessuna colpa se non quella di non sapere, e va bene così. Lo pensa, ne è convinto
Lei ha giocato con i regali dello zio: i loro mondi non si sono mai incontrati.  Disseppellire un dolore può spargere solo altra cancrena. Conclude il suo pensiero, sospira e volta le spalle a Eleonora.
Raccatta i guanti dal tavolo e si avvia, senza sapere che se gli abusi erano finiti era stato grazie a sua madre. Aveva trovato il coraggio e la forza per puntare un coltello contro il petto del fratello.  
Tutto si era cristallizzato: niente denunce, niente più reato: un compromesso inutile per Giacomo che, anche a saperlo, non avrebbe apprezzato.
Dopo anni l’uomo era morto dei suoi stessi vizi, ma non era mai andato veramente via da quella casa. Si era trasformato in ombra sui muri, umidità che colava dal tetto, spifferi che penetravano dai vecchi infissi. Era sempre lì e mai se ne sarebbe andato.

La valigia è all’ingresso, il biglietto sulla consolle si riflette sullo specchio che sovrasta il piccolo mobile. Si specchia anche Giacomo, si passa la mano tra i capelli, sorride al biglietto che vede allo specchio: non parte da solo, sta fuggendo insieme alla libertà.

Re: Fuggire

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Ho provato ad applicare i suggerimenti ricevuti con i commenti. 
È questa l'utilità del confronto, giusto? 
Riflettere e capire come possiamo migliorare un testo perché il lettore possa cogliere a pieno le singole personalità messe in campo. Ampliare il testo per rendere più chiara e completa la trama. 

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