Il silenzio di ferro
Roma, 17 febbraio 2025.
La giornata era stata lunga, fuori cominciava a imbrunire e, quando il neon dell’ufficio cominciò a sfarfallare, Grimaldi decise che era tempo di andare anche per lui, si stiracchiò, raccolse la giacca gualcita dal divanetto e uscì senza voltarsi.
Un’eco ovattata di voci di bambini filtrava dalle grate d’areazione, galleggiò qualche secondo nei locali sotterranei del garage. La giacca sulla spalla, le chiavi dell’auto nel palmo, camminava spedito verso la sua Fiat grigia, il cuore perse un battito, esitò: la portiera lato guida era aperta. Il cervello cercava spiegazioni, ma il corpo sapeva già: qualcosa non andava.
Si avvicinò inquieto, “non posso averla lasciata aperta!” Diede un’occhiata all’interno dell’auto, sul sedile c’era una busta Kraft e un faldone consumato. “I clienti anonimi mi piacciono. Sono quelli che alla fine pagano sempre di più.” Salì in auto, spostò i due oggetti, e senza domandarsi nulla si diresse verso casa.
Il detective Marco Grimaldi, cinquantacinque anni, ex investigatore della polizia di stato, congedato volontariamente con onore, lanciò la busta e il faldone sul tavolo della cucina. Prese un bicchiere d’acqua dal rubinetto e, sorseggiando, diede un’occhiata all’etichetta illeggibile sul faldone.
Con la mano libera sparse il contenuto della busta sul tavolo. Per lo più c’erano fotografie e ritagli di giornale. Articoli sul delitto delle cave, avvenuto nel 2007. “Accidenti! A chi può venire in mente di riesumare questo caso?”
Si ricordò delle indagini condotte nell’ombra insieme a suo padre, all’epoca poliziotto come lui. Erano state ricerche silenziose, lontane dai registri ufficiali, nate dal sospetto che alcuni investigatori fossero coinvolti in una rete clandestina di manipolazione delle prove scientifiche, volta a proteggere figure politiche e imprenditori. C’era sempre stato qualcosa che non tornava. Tutto sembrava troppo perfetto e, nonostante una perizia balistica palesemente incongruente che, scagionava il sospettato e il movente non fosse mai stato confermato, Riva, l’operaio delle cave di travertino, era stato condannato all’ergastolo per l’omicidio dell’ingegnere Tommaso Vitali.
Grimaldi selezionò il materiale sul tavolo, tra i vecchi ritagli trovò un biglietto, una frase scritta a mano: l’essenziale è invisibile agli occhi, il foglietto era fissato con una graffetta su un ritaglio di giornale: una freccia tratteggiata a penna, indicava un nome stampato sull’articolo: Tenente Colonnello Nicola Geranio, Cosa significava?
Era stato Geranio a condurre le indagine del caso e a inchiodare il sospettato.
Lui e suo padre ritenevano che le prove fossero insufficienti per condannare Giuseppe Riva. Padre e figlio si erano focalizzati su una bambina di dieci anni, scomparsa lo stesso giorno dell’omicidio. Non fu mai ritrovata ma durante le ricerche Il suo DNA era stato isolato sul luogo del delitto.
Secondo i Grimaldi la piccola aveva visto l’assassino ed era stata fatta sparire, magari in uno di quei laghetti senza fondo nella campagna vicino alle cave.
Aprì il faldone. I raccoglitori di plastica portavano etichette scritte a mano, contenevano fotografie che raccontavano un paesaggio ferito dove la corruzione dilagava: distese di blocchi accatastati, gru e nastri trasportatori arrugginiti. In alcune immagini, laghetti solfurei, circondati da scarti di pietra e macchinari corrosi, sembravano vomitare ciò che non riuscivano più a contenere. Nell’ultimo raccoglitore, nomi e indizi di inchieste remote: leggi ignorate, favori incrociati, volti noti. E poi, dentro una busta trasparente, la fotografia di una bambina dagli occhi grandi e il sorriso incerto: Carla Benetti. Sul retro, una data e un indirizzo: Via dei Cavatori 12.
Roma18 febbraio
Il traffico sulla Tiburtina, era una lenta colata di nervi. Il navigatore guidò Grimaldi fino a Villalba, una cittadina incastonata tra le ombre della campagna romana. Le strade si stringevano tra case basse edificate negli anni sessanta, senza la cognizione di un piano regolatore. Proseguì fino alla periferia sterrata, a ridosso di alte recinzioni intorno alle cave. Niente segnaletica, incroci come cicatrici. Perfino il navigatore l’aveva abbandonato.
Marco parcheggiò davanti a una casa bassa al civico 12, immersa nel verde di un piccolo terreno. Il recinto correva lungo il perimetro della vecchia cava Bossi dismessa da anni. Quello era Il luogo del delitto.
Scese dall’auto, guardò oltre il cancello, lo spinse, superò il vialetto sconnesso e si fermò davanti alla porta d’ingresso. La casa appariva ferma nel tempo. Bussò, due colpi secchi. Nessuna risposta. Appoggiò la mano sulla maniglia. La porta era socchiusa.
Stava per varcare la soglia quando una voce roca lo fermò. Aurelio Bertani, settantenne, fisico asciutto, occhi inquieti. Sollevò lo sguardo sotto la visiera del berretto consunto.
«Grimaldi?»
«Sono io, e lei chi è? »
L’uomo abbassò lo sguardo, si presentò.
«So dove tengono nascosta Carla Benetti. Lei deve aiutarla. Io non posso fare più niente per lei. Una prigione, anche se ha le pareti dorate, è sempre una prigione. E Carla è stanca, potrebbe morire per essere libera. Non mi crede vero?» Spinse la porta e indicò l’interno.
«C’è qualcosa che deve vedere, nella camera da letto, io l’aspetto qui».
La stanza era quasi vuota. Sul pavimento impolverato i vetri di una cornice rotta, sopra un mobile una fotografia. Carla Indossava un vestito chiaro, lo sguardo allegro ma incongruente con l’età che non corrispondeva, mancava sul viso l’aria infantile della foto del faldone: quella non era una bambina di dieci anni. Col pensiero che s’involava a cercare mille possibilità, girò la foto tra le dita.
Sul retro una scritta a penna:
Carla, Tivoli – 2010
«È viva!»
Un rumore secco, la porta si chiuse, la chiave girò nella toppa
«Bertani! Che sta facendo? Bertani, apra!» Bastò un calcio sulle persiane che quelle si sbriciolarono, il detective balzò fuori e in dieci secondi rientrò dalla porta principale.
Il settantenne era riverso a terra, Il corpo piegato, la schiena insanguinata ferita da un colpo netto, un coltello abbandonato sul pavimento. Grimaldi si chinò: il volto di Bertani era segnato dal terrore. Un accenno di saliva, sangue… e qualcos’altro.
Tra le labbra. Un foglietto.
Il detective esitò. Sapeva che non avrebbe dovuto toccare nulla. Ma fece scivolare via il foglio dalla bocca con una pinzetta improvvisata. Era un messaggio scritto a mano. Carta porosa, inchiostro blu, grafia decisa.
Non dimenticare il mio segreto.
Un avvertimento? Il detective si guardò attorno. Niente impronte. Nessun rumore. Ma lo avvertiva, qualcuno era ancora lì, Un rumore di passi che si allontanavano sul vialetto, Grimaldi corse verso l’uscita, seguì il calpestio fino in strada.
Chiunque fosse stato sapeva come sparire dalla circolazione tra la vegetazione.
Oltre al foglietto nella bocca lui non aveva toccato nulla, poteva andarsene e lasciare che qualcuno trovasse la vittima e denunciasse il fatto, nel frattempo lui in due o tre giorni avrebbe risolto il caso.
Tornò in strada, controllò che non ci fosse nessuno in giro, salì in macchina e partì.
Doveva fare subito una telefonata. Doveva parlare con Riva il prima possibile. Solo guardandolo negli occhi avrebbe potuto capire se era lui il mandante dell’omicidio di Bertani.
«Pronto? »
«Pa’, sono Marco, »
«Ciao, come stai? »
«Pa’ Ti ricordi del tenente colonnello Geranio? Della nostra indagine?
«Il generale Geranio, oggi. Certo, mi ricordo, che gli è successo?
«Nulla che io sappia, voglio sapere della moglie, Manuela Bertani, era molto amica della mamma, vi ricordate se lei avesse un fratello?»
«Si, Manuela ha un fratello, vive a Tivoli. Come puoi immaginare ora non ne sappiamo nulla, e neanche di Geranio e di sua moglie. Io non gli ho mai perdonato quella storia. Riva era innocente e lui lo sapeva benissimo perché io…»
«Papà. Forse ho trovato qualcosa di grosso sul caso delle cave, Una traccia della bambina, credo sia viva. Bertani ci stava dentro fino al collo e credo pure il nostro generale Geranio. Non posso dirti di più ora.»
20 febbraio
Penitenziario di Rebibbia
Grimaldi varcò il cancello principale stringendo tra le dita il foglio stropicciato della sua richiesta, aveva insistito personalmente, spiegato chi era, cosa cercava, e perché non poteva aspettare.
Nessuna divisa, ma lo sguardo di chi l’ha indossata molto a lungo. Il documento era stato accettato in extremis. Il comandante di turno, riconoscendo il nome aveva mormorato: “Facciamo uno strappo. Per stavolta.”
Nel corridoio dei colloqui, dalle salette, arrivavano voci basse, frammenti di vite che si incrociavano tra le sbarre. Alle 11:32, un agente lo chiamò per nome. È il suo turno, ispettore. Anzi, scusi…signor Grimaldi.
La porta blindata si aprì con un sibilo metallico, e lui entrò.
Seduto, immobile, lo aspettava Riva. Gli occhi ancora vivi, ma piegato dal tempo.
Marco Grimaldi sedette di fronte all’uomo che per più di diciott’anni era rimasto incastrato nelle trame della giustizia. L’uomo appariva stanco, consumato, lo sguardo perso in un punto che non esisteva. Senza dire una parola, Grimaldi posò sul tavolo una fotografia. «Si chiama Carla Benetti, ti ricordi di lei?»
Riva non parlò. Solo un lieve tremore al labbro. Poi sollevò lentamente la mano e passò l’indice sulla foto, sul volto della bambina. Le sue dita ruvide, si fermarono sul viso di Carla. «Conosci Aurelio Bertani?» Chiese Grimaldi, misurando ogni silenzio.»
L’interrogativo rimase sospeso a lungo. Il detenuto chiuse gli occhi, come se cercasse una chiave dentro se stesso.
«La bambina scomparsa, lei ha visto, sa che io sono innocente e non so chi sia Aurelio Bertani.»
Grimaldi si raddrizzò. Non poteva essere lui il mandante.
«Forse è ancora viva. L’unico che poteva aiutarci a trovarla era Bertani, ed è stato assassinato» Riva guardò smarrito il detective. Grimaldi prese Il foglio trovato nella bocca del cadavere. Lo appoggiò vicino alla foto di Carla.
Non dimenticare il mio segreto.
«Cosa può significare questo? Era nella bocca del morto.»
Il silenzio cambiò la temperatura nella stanza, una vertigine di gelo li coprì. Riva lo fissò.
«Chi ha scritto questo è ancora in gioco. Ma non so cosa può significare, io non ho visto l’assassino, ho visto la ragazzina, stavo pulendo il terreno e lei era là, non staccava le mani dalla grata della finestra, era scioccata, immobile, le ho preso i polsi e lei è fuggita. Io sono tornato a casa e credevo che lei avesse fatto la stessa cosa, il resto lo sanno tutti, non ho altro da dire.» Il detective si alzò, fece un cenno alla guardia. Il cancello si aprì. Il colloquio era finito ma il caso si stava intrigando.
La pioggia tamburellava sui vetri del soggiorno. Marco Grimaldi si sedette al suo PC. Aprì una finestra di ricerca e digitò varie parole chiave seguite dal nome della vittima. Con una serie di espedienti digitali, e un paio di contatti fidati, Grimaldi scoprì un dettaglio: Ogni tre mesi, Bertani volava a Londra. Sempre lo stesso itinerario. Sempre lo stesso hotel. Grimaldi si fermò. Rifletté. Poi, con un gesto deciso, prese il telefono. Digitò il numero dell’hotel.
«Buonasera. Vorrei prenotare una stanza… a nome di Aurelio Bertani.»
Silenzio. Poi la voce dall’altra parte: «Certamente, signor Bertani. La aspettiamo.»
22 febbraio – Londra, Grand Concerto Hotel
Il taxi si ferma. Grimaldi paga senza parlare e si guarda attorno. Il cielo è lattiginoso, l’aria tagliente. Sente gli occhi di qualcuno che lo scrutano alle sue spalle, ma non si volta. Entra nella hall dell’hotel, si ferma accanto al bar. Ordina un Dry Ginger Ale, senza ghiaccio, poi chiede alla reception notizie su Bertani.
«Sono il signor Grimaldi, lo sto aspettando, quando arriva potete avvertirlo che sono qui? » Alla risposta positiva del receptionist, si sposta nell’area bar. La bevanda resta intonsa sul tavolino basso tra due poltrone in pelle.
Rimugina su come indagare sugli spostamenti di Bertani. Avrebbe finto di aspettarlo per ore, alla fine qualcuno dei camerieri avrebbe scucito qualche parola, a fine turno gli avrebbe offerto da bere e poi…
La donna arriva come un presagio. Alta, sottile, portamento elegante. Tacchi vertiginosi, un tubino aderente e uno scialle di cachemire blu avvolto attorno alle spalle. Si siede davanti a lui senza rumore, la luce della vetrata la illumina appena. Gli occhi. Il profilo. La tensione sulla bocca. È lei. Non ha bisogno di chiedere chi sia
«Buonasera, Carla.»
Lei lo guarda, gli occhi lucidi ma fermi. «Signora Langford, ora. Ben arrivato a Londra, signor Grimaldi… o dovrei dire detective? Ha fatto buon viaggio?» Lui prende le due fotografie dalla cartella e le poggia sul tavolo. «Sono qui per questo.» Carla sussulta. Le labbra tremano. «La prego… so cosa è successo ad Aurelio. Gli volevo bene, è stato come un padre per me, ma non doveva farlo, non doveva coinvolgerla. Gli avevo assicurato che io… non ho bisogno di aiuto.»
«Vuole bere qualcosa?» Chiede lui. «Non sembra stare troppo bene.» «Sì… Un tè nero con miele.»
Aspettano l’ordinazione in silenzio, la ragazza cerca di distogliere lo sguardo che ricade inevitabile sulle foto sistemate sul tavolo. Grimaldi sorseggia lentamente, la osserva, aspetta che dica qualcosa. Il cameriere arriva. Carla, nonostante il riscaldamento, si copre le spalle con il suo scialle e nel movimento urta il vassoio. Il tè sobbalza. Qualche goccia cade sul tavolo, Carla scatta, afferra le foto per salvarle. Il cameriere si scusa, Grimaldi lo rassicura. Carla si scusa anche lei, porge le foto al detective e lui le mette nella tasca della giacca. La donna beve solo un sorso, «Devo andare.» Fa per alzars,i ha il volto pallido. «Aspetti, Riva dice che solo lei conosce il vero colpevole.» La rassicura, le prende la mano. Due uomini seduti poco distanti scattano in piedi, li osservano. Lei sfila la mano dal palmo di lui.
«Sei in pericolo? Posso farti rientrare in Italia sotto protezione.»
«No. Fermati. O sarai tu a mettere in pericolo te stesso e me» Il tono è tagliente «Riva era dietro di me. Io ero lì… Ho visto, mi hanno vista. Poi lui è arrivato da dietro, mi ha staccato le mani dalla grata e io sono fuggita. Solo io ho visto. Nessun altro. E io non farò mai quel nome, non lo dirò mai. A nessuno.»
Nel chiacchiericcio della hall, il loro silenzio risuona come un allarme.
«Non hai nulla da fare qui. Ti auguro un buon ritorno in Italia.»
Grimaldi non replica, è quasi certo ci sia un microfono addosso alla ragazza. Lei si gira e attraversa la hall verso l’uscita. I due uomini in abito scuro la seguono a breve distanza. Davanti all’uscita, Carla si copre il capo con lo scialle; piove piano. Uno dei due uomini apre un ombrello nero e lei si lascia proteggere sotto un lampo improvviso. Dopo pochi secondi un lungo tuono scuote le vetrate, si alza anche lui, per ora non ha più nulla da fare a Londra.
Notte – Hilton London Docklands Riverside, nei pressi dell'aeroporto.
La stanza è piccola, essenziale. Ordina la cena in camera. Non riesce a crederci, “La ragazza sembra coinvolta in quel crimine, ma è assurdo” Deve riflettere. Mentre aspetta la cena si lava le mani, sistema la giacca su una gruccia, ”le foto, meglio rimetterle nella cartella”. Tra i due scatti scorge un biglietto piegato. Una carta sottile, trasparente. Un nome scritto a caratteri stampati e sotto in corsivo con calligrafia incerta: Aiutami.
Il nome squarcia la notte come un tuono in un silenzio di ferro. Un nome che non si può dire. Ma lei lo ha scritto e lui lo ha letto, ormai tutto è cambiato. Non riesce neanche a sussurrarlo. Il cuore accelera. La gola si stringe. Apre la finestra.
L’aria è fredda. Piove. Una risata isterica gli sfugge, poi tace.
Poggia le mani sul davanzale, il Tamigi riflette e confonde le luci di Canary Wharf. Linee, riflessi che si incrociano come simboli antichi nascosti fra gli inganni. Il biglietto vibra tra le dita. Così leggero. Così facile da lasciar volare nel vento. Sotto una pioggia di spine fitte, il segreto se ne va nel vortice d’acqua e di rabbia.
Non ho soltanto dato una potatina, l'ho proprio sradicato e ripiantato e quindi si sono perse alcune cose importanti: il vero ruolo di Bertani, la nuova identità di Carla, i depistaggi di Geranio, gli interessi e le implicazioni politiche della Cave di travertino...ma, c'è di buono che sarà bello leggere quello che ho buttato via, in un eventuale prequel o sequel.