Traccia di mezzogiorno
Via Roma angolo via Garibaldi n. 8 bis. Scorro i cognomi sulla campanelliera. Dovrebbero metterli in ordine alfabetico. Cinquantacinque nomi.
«Sesto piano» risponde una voce asettica senza chiedere neppure: chi è? .
Nell’ingresso, un improbabile cartello recita: lavori in corso, scale non agibili. Servirsi dell’ascensore. Dannazione.
Alcune persone sono in attesa davanti alle porte chiuse: direi trecentodieci chili, stando larga. Contando anche me trecentosettanta in tutto. Respiro a fondo.
La pulsantiera lampeggia, le porte mi inghiottiscono con un cigolio maligno. Una mistura nauseante di bagnoschiuma, sudore e dopobarba mi investe mentre un alito alla menta cerca il mio sguardo.
«Anche lei al sesto?» annuisco.
Lo specchio all’interno raddoppia le immagini. Ora, c’è una folla. Un paio di décolleté tacco dodici ondeggia su gambe dall’equilibrio instabile, un mocassino tirato a lucido ha il tacco consumato verso l’esterno; due snickers: una rosa fluo con stelle sbiadite e una nera con uno strappo sulla tela e i nastri slacciati. Vicine, troppo vicine. Dalle scarpe si capiscono molte cose. La cabina si ferma con un sobbalzo. Mi aggrappo forte al manico della borsa. Non è ancora il mio piano.
«State salendo?» Vampata di caffè.
Nicotina, nei polpastrelli. Unghie smangiucchiate che immagino ancora umide di saliva premono il pulsante. Vorrei vomitare.
Aggiungo ottantacinque chili al calcolo e un paio di stivaletti marroni sformati. Siamo fuori portata massima.
Mi appiattisco nell’angolo e a occhi chiusi attendo che il destino si compia.
I cavi reggono. Resto concentrata sui miei piedi. Ho un velo di polvere sulla punta della scarpa sinistra. Ordine mentale e pulizia.
Devo pulire queste maledette scarpe. Prima che sia troppo tardi. Prima che i piedi rimangano schiacciati dal peso di quelle particelle.
Le porte si aprono. Scendo per ultima. Terza porta a sinistra sul corridoio.
Il pavimento di marmo ha delle venature che non combinano. E poi il marmo non è di prima scelta: qua e là ci si o piccole irregolarità. Piccole crepe, buchi dall’apparenza insignificante, ma pericolosi. Si potrebbe inciampare, essere risucchiati e finire chissà dove.
Meglio essere prudenti ed evitare di camminarci sopra. Devo dirlo al signor Pelli.
Sono davanti alla porta. Legno di abete bianco verniciato color noce chiaro: ricorda un dipinto di Miró. Cerchi ora più scuri, ora più chiari. A volte grandi come una moneta da un euro e a volte piccoli come il neo di Marylin; righe sottili come l’orizzonte, o increspate come onde di lago sotto la pioggia. A occhi chiusi sento quell’ odore di bosco e di resina che nessuna cera industriale riesce mai completamente a togliere.
La maniglia è un capolavoro di lucentezza. L’ottone brilla a dovere e riflette l’immagine intera del volto. Un viso deformato: un naso imponente avvicinandosi un po’; distanziandosi leggermente la figura diventa esile, filiforme con delle enormi dita.
La porta si apre con uno scatto improvviso. Mi fa sempre sobbalzare.
Il signor Pelli è ancora in bagno e ispeziona con dovizia la propria cavità orale. Una piccola foglia di insalata si è incastrata tra gli incisivi. Colpa di una leggero diastema. Insiste con il filo interdentale su e giù fino a quando un rivolo rosso inizia a colare dai lati delle labbra, una cascata che fluisce e inonda la stanza, si attacca alle mie suole. Devo andare, non posso restare. Potrei affogare.
Sento un rumore provenire dalla camera. Centinaia di piccoli piedi marciano sopra le lenzuola stropicciate. Un esercito di acari saltano fuori dal materasso vorrebbero arrampicarsi sulle mie braccia. Prurito, un fastidioso formicolio su tutto il corpo.
Ė allora che comincio a grattarmi con furia per rimuovere quelle bestie immonde che si vogliono cibare della mia pelle. C’ė un lungo capello sul cuscino e scaglie di forfora in abbondanza. Tenete! Saziatevi con queste!
Il signor Pelli appare all’improvviso. È riuscito a rimuovere l’insalata ma ora quella fessura tra i denti è come una finestra sulla fogna. Una folata d’aria fetida mista a un sentore di colonia scadente mi fa perdere l’equilibrio.
Le labbra si muovono a rallentin mentre la lingua colpisce il palato.
«Posso avere un caffè?»
Striscio rasente al muro e raggiungo la cucina. La polvere di caffè invade ogni interstizio e mi penetra nel naso lasciandomi senza respiro. Cerco di contenerla, ma quella di deposita sulla filettatura della moka e lo stridore sferraglia nella testa mentre cerco disperatamente di chiuderla. È una lotta fra me e il mostro di alluminio, fra me e l’angoscia.
Una battaglia quotidiana che devo combattere.
Ma sono la migliore. Nessuno, dico nessuno riesce a pulire una casa bene quanto me.
E il Signor Pelli lo sa.