Parlando di cose che non funzionano, vi annoio con una mia esperienza (sarà lunga, quindi se volete saltate

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Da anni la sanità in Italia non versa in buone condizioni con i continui tagli e le risorse sempre più scarse; le cose sono destinate a non migliorare, visto il modo di fare vigente (uno dei problemi attuali è che ci sono meno medici, il che fa pensare, dato che fino a qualche anno fa c’erano fin troppi laureati in medicina). Per quanto riguarda la provincia di Bologna, una delle cose che aveva fatto più discutere era l’idea di chiudere o ridurre l’operato degli ospedali di provincia e concentrare tutto all’Ospedale Maggiore di Bologna; un’idea sbagliata fin dall’inizio e si dimostrerà il perché, dalla logistica al deterioramento del servizio. Solitamente non mi piace parlare di cose che mi riguardano, ma in questo caso è necessario farlo per fare un esempio di quello di cui sto parlando.
Ho dovuto accompagnare una parente (mia madre) a fare controllo (obbligatorio) il giorno dopo l’intervento di cataratta all’ospedale Maggiore causa mancanza imprevista di dottori nell’ospedale dove aveva effettuato l’operazione all’occhio; già questo ha comportato il dover percorrere una distanza più lunga, che oltre al chilometraggio maggiore ha portato un maggiore stress, dovuto al maggior numero di semafori photored e autovelox, oltre a code dovute a incidenti e lavori stradali (cose che non succedono di rado su asse attrezzato e tangenziale) nonché ai classici automobilisti che per guadagnare anche solo un paio di metri (credendo così di fare prima) zigzagano da una corsia all’altra (senza mettere per giunta la freccia) col rischio di causare (altri) incidenti). Niente di sorprendente, dato che questa è diventata un’abitudine, e perciò si è partiti un’ora e mezza prima per arrivare in orario (questo per fare un percorso che, rispettando i limiti di velocità (tenendo una velocità di crociera di cinquanta chilometri orari), richiederebbe venticinque minuti).
Arrivati all’ospedale Maggiore, ci si è trovati davanti al primo problema: trovare parcheggio (e non si parla di parcheggio libero, dato che sono tutti a pagamento). Venticinque minuti a girare per trovare un buco dove mettere l’auto (qualcuno potrebbe obiettare che si potevano usare i mezzi pubblici, ma non si considera che le corse che dai comuni di provincia a Bologna non sono molte, senza contare i cambi di autobus necessari da fare, perché le corriere che assistono l’area in cui si abita non passano dal Maggiore, e il trovare posti a sedere, necessari se si ha un persona anziana con qualche problema a camminare), riuscendolo a trovare a più di mezzo chilometro di distanza (diciamo pure che era più vicino al chilometro). E qui c’è il primo problema nell’aver voluto ampliare il già grande ospedale Maggiore: all’ampiamento degli edifici medici (che hanno portato maggiore affluenza di persone) non è stato seguito l’ampiamento dei parcheggi, che sono rimasti gli stessi di tanti anni fa. Ma se tanti anni fa si riusciva a trovare da posteggiare, ora diventa difficile trovarlo un posteggio; e se fare una percorerrenza di più di mezzo chilometro per chi non ha problemi è cosa da niente, non lo è per chi ha delle difficoltà nel camminare che, oltre a doverci mettere più tempo di una persone in condizioni fisiche nella media, deve farlo convivendo poi col dolore di questo sforzo. Se si vuole ingrandire una struttura ospedialiera, si deve anche pensare al modo in cui può essere raggiunta e dare servizi adeguati, in questo caso parcheggi più grandi (sì, perché se si fa una struttura che riceve più pazienti, si deve pensare che servirà anche più spazio per coloro che li accompagnano e devono posteggiare).
I problemi non finiscono qui e si deve avere a che fare con la poca chiarezza della segnaletica: arrivati dove un tempo c’era l’ingresso principale (l’unico), ci si trova davanti a due ingressi: uno con scritto ingresso pedonale, l’altro con ingresso disabili. Seguendo la logica, si prende l’nigresso pedonale, ma dopo qualche metro si capisce che non è quello giusto, dato che ci si trova nel pronto soccorso. Chieste indicazioni a un’infermiera per il reparto oculistico (che risponde in maniera molto seccata e scocciata), viene detto di uscire e prendere l’ingresso subito a fianco, quello con le scale mobili; scale mobili che non ci sono e andando per esclusione (non difficile, dato che ci sono solo due ingressi in quello che una volta era solo uno), si prende l’ingresso per disabili, che si rivela essere quello giusto, dove si prende l’ascensore per raggiungere il reparto interessato. Giunti lì, si capisce che l’infermiera scocciata e seccata incontrata poco prima non è l’unica, anzi: si scusi il termine, ma il livello dello scoglionamento è esteso a tutto il personale incontrato.
Mentre ci si sta avviando all’ambulatorio indicato nel promemoria dell’appuntamento, si viene fermati dall’addetta all’accettazione, che in modo sgarbato se ne esce con un bel “Cosa vuole? Cosa ci fa qui?”. Spiegando il motivo (alle volte si rimpiange di non avere la prontezza di certe persone nel dare certe risposte), si riceve come risposta un “Impossibile”; al che si mostra il foglio dell’appuntamento e non credendo a quello che vi è scritto sopra, richiede di vedere la cartella clinica; fatto perdere un paio di minuti inutilmente, dice di andare nell’ambuatorio indicato nell’appuntamento (ma guarda un po’) e di chiedere all’addetta che esce da esso.
Se si pensa che l’odissea sia finita qui, ci si sbaglia: arrivati davanti all’ambulatorio, e seguendo quanto detto dall’addetto all’accettazione, si fa per chiedere all’addetta che esce dall’ambulatorio. Non si è finito di dire “Mi scusi” che si riceve uno sgarbato “Non ho tempo, siamo impegnati, aspetti la mia collega”.
Ci si mette in attesa ed esce quella che risulterà essere l’infermiera che deve raccogliere le cartelle cliniche (risulterà che dovevano avere la lista degli appuntamenti ma non la seguivano, chiamando come piaceva a loro); il tempo passa e si fanno diversi tentativi per cercare di spiegare che si ha l’appuntamento (era per le nove e cinquantacinque), ma l’addetta non sta a sentire, dicendo che c’è stata un’urgenza, che lei non ce la fa, è stressata, la si assilla, si sente soffocare e scappa sempre via. Trascorre mezz’ora, trequarti d’ora, un’ora, un’ora un quarto, un’ora e mezzo e l’infermiera rifiuta sempre di prendere la cartella clinica necessaria per la visita ogni volta che si fa per parlare, scegliendo quelle da prendere senza un ordine; scoperto che erano state fatte passare tutte le persone con l’appuntamento dopo quello che riguarda la persona che accompagnavo, con la pazienza che ormai era scivolata via quasi del tutto, decido che essere gentili va bene ma essere fatti passare per coglioni no, per l’ennesima mi ripresento dall’infermiera quando esce che, senza farmi finire di parlare, m’interrompe e se ne esce con un bel “Ma lei chi l’ha mandata qua? Che cosa vuole?”. A quel punto la pazienza finisce del tutto e spiego duramente come stanno le cose, stavolta impedendole d’interrompermi o di tirar fuori le solite scuse: che ho l’appuntamento per la visita post operatoria per cataratta, che sono due ore che ci ha ignorato e che ha fatto passare davanti tutti gli appuntamenti dopo quello di mia madre. Davanti a tutte le altre persone in attesa (molti di loro trattati sempre in modo sgarbato da altri addetti dell’ospedale) che hanno sentito il mio discorso, l’infermiera si trova costretta a darmi ragione e a far poi entrare qualche minuto dopo per la visita. Una visita superficiale e frettolosa perché la dotteressa che sovrintendeva l’ambulatorio voleva recuperare il tempo perso con l’urgenza avuta e voleva staccare perché stressata: due minuti (letteralmente, non un modo di dire) per dare una rapida occhiata all’occhio (e mentre lo fa, ha una bellissima uscita rivolgendosi a mia madre: “Signora, riesce a capirmi? Capisce quello che dico?”, trattandola come una straniera, un handicappata o una mentecatta; devo ammettere che ho dovuto stringere i denti per non aprire bocca e rispondere malamente, perché il suo atteggiamento era molto offensivo, più che scortese: ho fatto fatica a non farmi uscire un “mia madre capisce molto più di lei e soprattutto parla l’italiano meglio di lei”), dire di fare quello che era stato detto dai colleghi dell’operazione e dare un frettoloso arrivederci, spedendoci all’accettazione per prendere l’appuntamento per il secondo controllo.
Di nuovo si ha a che fare con la scocciata addetta dell’accettazione che di malavoglia dà l’appuntamento e lì ci si accorge che i dati nell’intestazione non sono corretti, ma si viene liquidati con un “non è affar mio, non è cosa che riguarda quello che facciamo qui, vada al cup”; quindi si scende, si va al cup, si riperde altro tempo in fila ma qui fortunatamente si trova un’addetta (una ragazza giovane), molto cordiale, disponibile e preparata che in pochissimo risolve la questione. Per una visita che avrebbe richiesto (tempo d’attesa compreso) un quarto d’ora, si sono perse più di due ore (senza contare il tempo del tragitto di andata e ritorno: una mattinata persa completamente).
Questo è capitato a me, ma è ciò che capita spesso a tante altre persone: chi decide, chi pensa di accentrare tutto in grandi strutture eliminando quelle più piccole per questioni di praticità (ma spesso per questioni di soldi), dovrebbe pensare in primis alla qualità del servizio che si dà. E se si dà un servizio pessimo come quello avuto, allora non va bene, ma proprio per niente; a chi ha certe idee, progetti, gli si dovrebbe far fare le stesse esperienze negative avute da altri: forse ragionerebbe in maniera differente e agirebbe di conseguenza in maniera differente (da ricordare che avere strutture più grandi non è sinonimo di miglioramento, anzi, spesso si ha un peggioramento).