«È mia convinzione che la visione che la turba non sia altro che un ricordo rimosso che sta cercando di riaffiorare. Un evento che la sua coscienza ha volutamente dimenticato per proteggersi dal dolore ma che ora è pronta ad affrontare».
Mi puntello su un gomito e mi volto verso lo psicoterapeuta seduto, come da prassi, alle mie spalle.
Il dott. Mongiat mi guarda da sopra gli occhiali, forse infastidito dalla violazione dell’etichetta, poi prosegue.
«Penso che il prossimo passo debba essere quello di ricostruire il ricordo mancante, consentirgli di emergere del tutto. Per questo, se lei è d’accordo, ricorrerei all’ipnosi».
Faccio di sì col capo e mi accascio di nuovo sul lettino. 
Un ricordo rimosso… Ma che ricordo?
«Come s’indossa?»
«Metti la visiera davanti agli occhi, ok? Devi guardare solo dentro, non la stanza intorno. Poi, sistema l’archetto dietro la testa».
«Ok»
Matteo mi passa il visore di VR collegato alla console.
«È già pronta?» chiedo indicando la macchina da gioco.
«Sì. È lo stage di cui ti parlavo, quello nell’ospedale psichiatrico. Aspetta, Cleo, ti aiuto».
Per un attimo, sento le sue mani fra i capelli, mi piace la sensazione, poi l’archetto aderisce alla nuca.
«Pronta?»
«Pronta». Il menù sparisce e mi ritrovo in un ambiente sinistro.
Una lunga fila di letti. Devo essere sdraiata o seduta su uno di essi. Una luce psichedelica avvolge tutto. Le finestre sono fuxia, le ombre viola-bluastre. Sembra di guardare il negativo di una Ektachrome. 
«Inquietante» dico.
«E non è niente, ora arriva l’infermiera pazza col coltello».
Una sensazione di deja vu: il letto, la sensazione di isolamento e paura… chiudo gli occhi per un istante colta da un senso di vertigine.
«Senti, ma questo coso può dare i capogiri?»
Nessuna risposta da Marco. Nelle orecchie risuona un "techete-techete" continuo, come se qualcosa di coccio tintinnasse su una superficie dura.
D’un tratto, dalla testiera del letto emerge una zazzera color carota e, subito sotto, due occhi vitrei. Una bambola può sorridere? Perché questa cambia continuamente espressione. Il risultato è grottesco. Con un balzo, è sul letto, davanti a me. Inclina il capo e mi fissa. 
La bocca si muove.
«Sono debole, ma se lui viene in me mi salverà»
Poi apre la bocca e vomita sangue. Perde sangue anche dagli occhi e dalle orecchie; il suo vestitino ne è tutto inzuppato.
«Cleo, che ti succede?»
Il mondo riprende i contorni della stanza di Marco.
«Ti sei messa a gridare...»
Lo abbraccio e mi sciolgo in un pianto liberatorio mentre le parole della bambola risuonano come un’eco dal passato.
Nel videogame non ci sono bamboline che sanguinano. Io non ho più voluto rigiocare lo stage, ma Marco, che ha finito la storia tre volte, giura che lì c’è un’infermiera sadica armata di machete. 
Cos'è successo allora? Un’allucinazione visiva? Un conflitto tra la VR e il mio incoscio? 
Da allora, vedo cose. Visioni che prendono il posto della realtà. E ne ho paura.
È per questo che da due mesi vado dal dott. Mongiat. 
2.
«Puoi andare, Marta. Servo io».
La cameriera fa un cenno col capo e sparisce. Mio padre afferra il bricco e, con estrema lentezza, versa l'acqua calda sul filtro in fondo alla tazza.
«Cos'hai Cleo? Si vede a occhio nudo che non stai bene. Anche la mamma è preoccupata: dice che le sembri spaventata, nervosa... E poi, ti fai sentire sempre meno. Non parliamo poi di quanto poco spesso ci vieni a trovare, ormai».
Papà mi porge la tazza; quando l'afferro si sofferma a guardare la mia mano che trema.
«Allora? Non ci meritiamo un pochino di fiducia?»
Mi mordo il labbro. Gli occhi mi si riempiono di lacrime. Non sono forte come credevo: sono solo una ragazzina spaventata che desidera il conforto del suo papà. 
Svuoto il sacco, racconto ogni cosa; della maledetta Realtà Virtuale, delle visioni che da allora mi terrorizzano, dello psicoterapeuta e della terapia ipnotica che inizieremo a breve.
Papà inspira pensieroso.
«Perché non ci hai detto niente? Ti avremmo aiutata, lo sai» mi guarda costernato. «Chi è questo dott. Mongiat, non credo di conoscerlo; se ti serviva un aiuto psicologico ti avrei indirizzata verso un collega. Ricciardi è un professionista eccellente: vuoi che lo chiami?» 
Rifiuto la sua offerta.
«Come vuoi», dice. «Senti un po', che ne diresti, solo per questo momento...» il suo sorriso è rassicurante «di stare qui da noi? Solo finché non sarai più serena. Non dovrai nemmeno lasciare l'appartamento vicino alla facoltà: ci penserà papà a pagare l'affitto».
Mi guarda insinuante. «Affare fatto?»
Annuisco e mi butto tra le sue braccia. Affare fatto.
3.
Le mani mi tremano mentre compongo il numero. Alla terza cifra, l'iPhone quasi mi cade di mano.
«Allora, hai trovato questa foto nella soffitta dei tuoi...»
«Sì. C'è una specie di "settore Cleo" nel quale i miei hanno conservato i libri di scuola, gli album del liceo, persino vecchi giocattoli... E in mezzo, ho trovato la foto».
«Mmm... Devo ingelosirmi?»
Matteo ridacchia nella capsula dello smartphone.
«Ingelosirti? Non ricordo nemmeno più chi sia quel ragazzo!»
Bugia. La verità è che sono turbata. Perchè quando ho toccato quella foto...
Calore e umidità. Sudore tra i miei seni, il suo alito sul collo, la sensazione di sensibilità trasmessa dai miei capezzoli eretti e dalla pelle del mio ventre ad ogni sfioramento. E poi, l'impudicizia delle mie cosce divaricate e, più in basso, la mia femminilità bagnata che lui indaga con la punta delle dita.
– Ti amo, Giorgio – gli ho sussurrato quando è entrato in me e sono certa che era la verità. 
Squilla. Quasi, non riesco a stare ferma per la tensione. Cosa dovrei dirgli?
«Sì, pronto?»
«Ciao, Giorgio... come va?»
«Bene, grazie, ma tu chi saresti?» la voce nel telefono risuona di curiosità.
«Sono Cleo, da quanto tempo che non ci si sente» dico timorosa. «A dire il vero non ero nemmeno sicura che questo numero fosse ancora attivo...»
«Cosa vuoi, Cleo?»
«Io...» dico e non so che altro aggiungere. Neanche lui parla. Il silenzio ci avvolge per un istante che sembra un'eternità.
«Se è per il bambino, non posso che ripetere quello che ti ho già detto sei anni fa: non posso farmene carico...» 
Un bambino? Ho avuto un bambino? 
«... Non ho ancora finito l'università e anche se ho iniziato la collaborazione con uno studio, devo ancora vederlo un centesimo! 
Ma poi, non capisco... tuo padre era stato chiaro: dovevo sparire, e la tua famiglia si sarebbe occupata di tutto.
Che diavolo è successo, Cloe? Hai litigato con loro e vuoi richiamarmi ai miei doveri?
Non ho soldi, mi spiace. Sono un pessimo padre e un uomo anche peggiore: va bene così?
Cristo, io ti avevo detto di abortire, ma tu non hai voluto sentire ragioni. Sei sempre stata così sentimentale».
Dominando il tremore che mi scuote, interrompo la chiamata. E piango.
4.
Trovo i miei genitori nel salone. Sprofondati nel divano, parlano di carte da parati e di altre cazzate simili.
«Ho avuto un bambino?»
Niente convenevoli. Sono furia che investe ogni cosa sul suo cammino. Esigo informazioni che solo gli altri possono darmi; questo il mio cruccio e la mia condanna. 
«Allora? Volete rispondermi? Ho avuto un bambino, vero? Che fine ha fatto?»
Loro si guardano sgomenti.
«Era una bambina» precisa mio padre. «È morta poco dopo il parto».
Porto le mani alla bocca senza nemmeno rendermene conto.
«È successo all'ultimo anno del liceo. La leggerezza di due adolescenti finita male» dice papà scuotendo il capo.
«Quanto dolore ti ha provocato.. Pensavamo di averti perduta per sempre. Avevi persino smesso di parlare. Un trauma che ha richiesto mesi per essere assorbito e che ti ha lasciato questa forma di amnesia. Ricciardi mi disse che era il modo con cui la tua psiche si difendeva da quel vissuto angosciante».
Mi accascio sul divano. 
«Sono stanca, papà».
«Lo so, hai bisogno di riposo».
«No, sono stanca di un passato che è come un lenzuolo strappato. Voglio sapere tutto. Chiederò a Mongiat di iniziare subito l'ipnosi».
5.
Rientro a casa con lo stomaco in subbuglio. Mongiat è morto. Un incidente, dicono. 
La villa è silenziosa. I miei sono usciti. Proprio quando ho più bisogno di loro.
Papà, dove sei? Provo a chiamarlo al cellulare, ma la voce automatica dice che il numero è irraggiungibile. Maledizione.
Mi muovo come in trance. Flussi invisibili di elettricità mi attraversano il corpo. Sento che sto per perdere il controllo. Devo sedermi.
Nel mio inconsapevole vagabondare ho raggiunto lo studio di mio padre. Quante volte da bambina, mi ha visitata lì. La nostalgia mi assale: vorrei essere protetta e rassicurata, ora, come faceva in passato quando mi auscultava le spalle o scrutava la mia gola infiammata.
Lo studio è chiuso, ma la chiave è lì, nel solito cassetto. Sempre prevedibile, lui. 
Apro. 
L’ambiente è come lo ricordavo: la sua scrivania, proprio davanti alla libreria, il lettino per i pazienti, alcune sedie e un divano a parete. 
Mi accascio sul sofà con le gambe che mi tremano. Le raccolgo in grembo, abbracciandole, e rimango rannicchiata, in posizione fetale, per un tempo imprecisato.
Ancora non tornano. Per usare il cellulare mi sollevo. Qualcosa mi sfiora la fronte, entrando nel mio campo visivo. 
Una tenda. No, un camice. Bianco. Pende dall’attaccapanni accanto al divano. 
Faccio per scostarlo, ma al contatto… 
Il mondo si spegne. E mi sembra di precipitare. Precipito dentro me stessa, risucchiata in profondità incommensurabili mentre il sangue mi si gela nelle vene.
Sono distesa su lenzuola umide. Le gambe aperte, il ventre dolorante.
Una neonata piange. È lì, al centro di un cerchio tracciato sul pavimento con vernice rossa.
Attorno, figure di spalle, i cui contorni tremolano al tremolare della flebile luce di alcuni lumini. 
Dove sono? Che ci fa una bambina per terra? La vista mi fa brutti scherzi.
Una di quelle figure si volta.
E qualcosa dentro di me si spezza. Senza rumore. Senza nome.
La bambina si agita. Le braccia tese verso di me. 
Mia figlia… La mia bambina. Ma io non riesco a muovermi.
«È debole, ma se il nostro Signore viene in lei, sarà salva».
La voce, profonda, è quella del mostro che ha esposto sul nudo pavimento una neonata indifesa, dell’uomo che per tutti questi anni ha distrutto la mia vita.
E io urlo, come se volessi strapparmi l’anima.
6. 
«La cena è stata di tuo gradimento?» 
«Sì, era tutto ottimo mamma».
«Sono d'accordo con te: per essere pietanze riscaldate, non c'è male!»
«Marta ha il giorno libero, oggi, vero?»
Mia mamma annuisce. «Già! Quella donna: abbiamo provato a convincerla a lavorare anche il sabato, ma non c'è stato verso. Non importa quanto siamo disposti a pagarla!» 
«Peccato, mi sarebbe piaciuto salutarla».
«Non devi partire per forza domani. L'Università ci sarà ancora anche se deciderai di tornarci tra qualche giorno».
«Lo so», dico, «ma voglio lasciarmi questa parentesi così stressante alle spalle il prima possibile e, credo, che l'unico modo per farlo sia tornare alla vita di tutti i giorni».
«Ben detto!» chiosa mia madre.
«Ma prima, voglio brindare. Mamma dov'è la bottiglia di champagne che ho comprato, in frigo?»
«Ah, già; la vado a prendere» si offre lei.
«Rimani seduta, ci penso io!»
Mentre mi avvio per la cucina mi volto a guardarli. Sono seduti uno accanto all'altra, si tengono per mano. Rivolgo loro un sorriso complice. 
Senza farmene accorgere prendo il telefono di mamma.
In cucina non ci metto molto a trovare la bottiglia. La poggio sul tavolo e rivolgo altrove la mia attenzione.
In un cassetto basso trovo quello che cerco: una chiave da 25 mm, di quelle comunemente usate per le bombole del gas. 
Apro lo scomparto della cucina, inclino la bombola per potere lavorare meglio. Devo fare presto. Poche rotazioni e il dado del regolatore di pressione si allenta. Lo tiro via e vengo investita da una zaffata di gas.
Ok. È il momento di tornare di là. Ho già le mani sulla bottiglia, fredda di frigo, quando mi ricordo della seconda bombola, quella di riserva.
Apro anche il rubinetto di quella, lascio il cellulare di lei bene in vista sul tavolo, infine torno nel salone.
«Ah, eccoti!» dice mia madre «Non venivi più».
«Ho perso tempo a cercare uno stappa bottiglie… salvo ricordarmi che non serve per lo champagne».
Ridono della mia sbadataggine. Rido anch'io. Ma dovremmo piangere. Tutti.
Riempio i calici e beviamo. Diamo la stura a vuoti discorsi sulla felicità, alimentiamo chiacchiere sulla fiducia nel futuro, brindiamo ai successi che verranno. 
Guardo l'orologio: è ora.
Saluto e mi accomiato. Ancora abbracci, ancora baci sulla soglia di casa. Quanto vi voglio bene, quanto me ne volete voi.
La macchina è proprio fuori dal cancello della villa. Mentre percorro il vialetto della proprietà i miei tacchi bassi risuonano sul selciato "techete-techete". Una morsa invisibile mi stringe la gola.
La porta d'ingresso è già chiusa.
Tiro fuori il cellulare dalla borsetta e compongo il numero di mia madre.
Uno squillo.
Un altro.
Una luce si accende in cucina, poi il fragore dell'esplosione. 
Una vampa cremisi prorompe dalla finestra della cucina mentre schegge di vetro vengono proiettate sul prato inglese. La casa sparisce in un'apocalisse di fuoco, inghiottita in un globo di fiamme che consuma ogni cosa.
Dalla tasca interna della giacca tiro fuori la foto. L’ho trovata nella cassaforte dello studio di papà.
Tre persone in camice bianco. 
Sul petto, cuciti a mano, i simboli della setta.
Al centro, mio padre. Ai lati, mia madre e Ricciardi.
Sorridono.
Mi soffermo a fissare l’incendio ancora per un momento, poi mi volto. Il lavoro non è finito.