La Casa a Sette Finestre
Il paese di Selenighe non compariva sulle mappe. Il sole vi arrivava stanco, filtrando tra alberi contorti che parevano preghiere eretiche pietrificate. La nebbia che lo circondava era densa, soffocante, come un respiro malato; non si ritirava mai del tutto.
Anche le giornate di sole erano tristi ─ una luce che sembrava una grazia concessa, come l’aria che si tinge di rosso in attesa di una condanna. Respirare non era una gioia.
Le case si sfaldavano lentamente, sembrava volessero tornare alla terra: i tetti spaccati lasciavano intravedere cieli bassi, color ferro, e l’odore del muschio si mescolava a quello della ruggine.
Nessuno ricordava chi avesse fondato Selenighe, né perché la gente continuasse con ostinazione a viverci. Si diceva che le case fossero sorte attorno a un pozzo isolato, e che nel pozzo fosse caduto il primo bambino. Da allora, il silenzio era diventato legge, e l’acqua ─ quando c’era, portava con sé il gusto del ferro e del peccato.
Ogni tanto il fiume restituiva un giocattolo: un cavallino di legno, una bambola sfigurata dall’acqua, una scarpetta consumata. Chi li vedeva si faceva il segno della croce senza dire nulla, poi si chiudeva in casa, serrando porte e finestre, come se l’acqua potesse ricordare. Si respirava affannati, allo stesso ritmo della nebbia che incombeva.
Incombeva qualcosa, sempre, ma non si sapeva da dove venisse.
Marta abitava al centro del paese, in una casa che sapeva di disinfettante e solitudine. Da giovane era stata infermiera: le sue mani avevano imparato a curare, ma anche a nascondere. Da quando Luca, suo figlio, era scomparso, la sua vita si era ridotta a un’ attesa muta. Non mangiava quasi nulla, non parlava con nessuno; ascoltava il vento, cercando di riconoscere una voce familiare.
Ogni tanto trovava piccoli segni davanti alla porta: un bottone, un dente da latte, un filo di lana blu.
Li raccoglieva in un barattolo, come reliquie di un santo impossibile. E la notte, quando la luna cadeva dietro la collina, le sembrava di sentire il suo bambino chiamarla da un punto che non apparteneva al mondo.
Le sparizioni erano ricominciate.
Prima un bambino, poi due, poi una donna che non aveva figli ma li desiderava. Le ricerche non portavano a nulla: solo tracce di fango, orme confuse e quella sensazione appiccicosa di essere osservati da qualcuno nascosto tra gli alberi.
La gente cominciò a parlare della Casa a Sette Finestre: un rudere annerito dal tempo, arroccato sul poggio più alto, con le finestre spalancate come orbite cieche. Nessuno vi saliva più, da quando il dottor Eberhard Morgenstern era scomparso senza lasciare traccia.
Eberhard Morgenstern.
Lo chiamavano il dottore dei bambini. Era arrivato durante la guerra, pochi bagagli e una divisa nascosta sotto il camice. Diceva di voler salvare i piccoli dalle malattie, dalla fame, dai soldati sbandati.
Li accoglieva nella sua casa e tardava a restituirli. Qualcuno non tornava. Chi era andato a protestare ne era uscito che non era più se stesso: gli occhi sbarrati dal terrore e dal ricordo di fulmini d’oro cuciti sul colletto del dottore, intravisti sotto il camice.
Passò il tempo. Dopo la guerra Morgenstern scomparve. Nella casa furono trovati lettini di ferro, piccoli abiti piegati, strumenti medici che non servivano a curare. Ma nessuno ebbe il coraggio di scavare più a fondo. Qualcuno venne a cercare il dottore.
Altri soldati, altre divise.
Invano fu chiesto loro perché nella Casa a Sette Finestre fossero scomparsi dei bambini. Risposero che Morgenstern non era solo un loro nemico, ma andava oltre. Veniva da un altro Nord, da una scuola dura e disumana che stavano cercando di sradicare dal mondo. Lo avrebbero trovato, un giorno. I soldati ne parlavano con terrore negli occhi. Uomini come Morgenstern si insinuavano nel mondo, nelle guerre e nelle paci, portando nuove sofferenze.
─ Distruggete la sua casa, ─ dissero i contadini.
─ Non lo faremo.
─ Perché? Non lasciateci quel ricordo. Lo faremo noi, allora.
─ Non fatelo. È l’unico punto di contatto.
─ Con che cosa?
─ Con i bambini scomparsi. Che Dio vi aiuti.
Una notte d’inverno Marta sognò La Casa a Sette Finestre. Vide le finestre sanguinare alla luce del tramonto, e dietro ciascuna il volto di un bambino. Vide il suo Luca, che la guardava con grandi occhi neri. Si risvegliò in un bagno di sudore, febbricitante, con addosso un odore dolciastro, come di carne in putrefazione.
Nel sogno Morgenstern rideva, gelido. Alle sue spalle, file di bambini si inerpicavano per un sentiero.
Marta andò da Lucilla. Anche lei non aveva più visto il suo Georgy, dopo che lo aveva portato dal dottore. Era impazzita.
─ Vieni con me ─ le disse Marta. ─ Andiamo a cercare i nostri figli.
La prese per mano e Lucilla la seguì, mentre la sua vecchia madre, che l’accudiva, le guardava andare via piangendo.
Arrivarono alla Casa a Sette Finestre che il vento si sollevò all’improvviso, ululando come un lupo. La nebbia pareva muoversi con volontà propria. Cominciò a piovere. Marta prese un tronco e sfondò la porta. Lucilla la guardava speranzosa, incurante dell’acqua che le flagellava.
Dentro era buio, rischiarato a tratti dai bagliori dei lampi. I mobili ancora al loro posto, gonfi di muffa. Un pianoforte in un angolo, coperto di piccole impronte, e ai suoi piedi un carillon rotto, che pareva ancora suonare una nenia spezzata.
Camminarono.
Sulle pareti, disegni infantili: case, madri, grandi soli tristi. Cuori sospesi.
Trovarono una botola in cucina, visibile sotto un tappeto rosicchiato dai topi. La scoperchiarono: una scala di legno scendeva nel buio. L’odore di ferro e decomposizione era forte. Le due donne si portarono la mano alla bocca.
Dietro vetri opachi, delle luci si accesero da sole. Videro letti arrugginiti, bacinelle, cateteri. E piccole ossa candide racchiuse in barattoli di vetro polverosi.
Sulla parete una scritta: “Il dolore guarisce. L’amore distrugge. La carne ricorda”.
Marta avanzò, attirata da un tavolo operatorio con sopra una forma coperta da un lenzuolo. Lo sollevò.
Sotto, giaceva una creatura incompiuta: parte bambola, parte bambino. La pelle cucita, le orbite vuote, un cuore di stoffa infilato nel torace aperto.
Lucilla iniziò a pregare, ma la voce si spezzò. Marta indietreggiò, inciampò. Qualcosa cadde dai ripiani: un barattolo pieno di liquido ambrato, con dentro un piccolo cranio, con ancora attaccati ciuffi di capelli biondi.
Nella stanza successiva trovarono un diario. La copertina era fatta di pelle troppo chiara, le pagine scritte in un inchiostro rosso scuro. Solo il dottor Morgenstern poteva averle vergate. La calligrafia era spaventosamente chiara. Marta sfogliò frenetica. Lesse di “purezza” della voce di Dio ─ quale Dio? ─ che gli aveva mostrato come rimediare alla corruzione del mondo.
“Le madri consegnano figli imperfetti, impuri. Io li restituisco alla luce e alla purezza. La carne è solo un abito da correggere”.
Più avanti, le annotazioni diventavano furiose: “Le loro voci mi svegliano. Mi chiedono di finire il lavoro. Di farli diventare una sola cosa, un solo corpo, un solo cuore”.
Nell’ultima pagina, una frase scritta con forza: “La settima finestra non si chiuderà finché la madre non sarà tornata”.
Marta sollevò lo sguardo. Sopra il tavolo operatorio pendeva una lampada, la luce tremolante. Nel silenzio, un suono lieve, ritmico: tum… tum… tum. Proveniva da un vaso di vetro, al centro della stanza. Dentro, in un liquido scuro, pulsava un cuore.
Un cuore vero, ancora vivo. Intorno al vaso una catenella legava un quadrato di pelle con inciso un nome: Luca.
Marta si sentì gelare. Il mondo si spense.
Una voce, la stessa dei sogni, sussurrò: “Mamma, finisci quello che lui ha cominciato. Per piacere”.
Quando Marta e Lucilla cercarono di fuggire, la scala era sparita. Le pareti si muovevano come carne viva. La casa respirava.
Dal soffitto scesero gocce di sangue denso, antico, e un coro di voci infantili cominciò a cantare: “Dormi, dormi, bimbo mio…”
Marta cadde a terra piangendo, con le mani immerse nel sangue.
Lucilla corse verso una strana finestra che si era aperta e si gettò nel vuoto, ma il terreno sotto di lei si mosse: un groviglio di corpi minuscoli e nudi la inghiottì in un urlo muto.
Marta si rialzò. Prese un bisturi dal tavolo, si avvicinò alla creatura sulla lettiga e lo appoggiò sul petto.
─ Se devo finire il lavoro, lo finirò io, figlio mio ─ sussurrò.
Poi, con un gesto preciso, affondò la lama.
All’alba, la casa era in fiamme.
I contadini la videro bruciare da lontano, senza avvicinarsi.
Il fumo saliva dritto al cielo, denso come un corpo. Quando cessò, della casa non restava che la pietra annerita e una sola finestra intatta: la settima. Dietro, qualcuno giurò di aver visto una donna e un bambino, mano nella mano.
Da quel giorno, il paese cominciò a smettere di esistere.
Gli abitanti lo abbandonarono, le strade scomparvero tra i rovi, il fiume si prosciugò.
Solo la collina rimase, bruciata e arida. Qualche cercatore di villaggi abbandonati e fantasmi giura che, nelle notti senza luna, quella finestra si apra e da dentro filtri una luce calda, pulsante ─ come un cuore che non ha mai smesso di battere.