L’ultima ora del dittatore
Ti muovi tra le tubature arrugginite, il muso che sfiora la polvere. L'aria è densa, impregnata di muffa e funghi. Ogni passo lascia un'impronta leggera sul fango umido che ricopre il pavimento.
Conosci questi cunicoli: sono la tua tana, il tuo regno, lo hai conquistato, è tuo. Eppure stanotte qualcosa è diverso.
Il silenzio non è il solito silenzio. È più pesante, come se le pareti stessero trattenendo il respiro. Ti fermi, i baffi tesi, e ascolti. Un gocciolio lontano scandisce il tempo.
Plic… ploc…
Poi, un rumore.
Non il gemito sottile di fibre che si spezzano nella terra, non il passo distante degli uomini sopra di te o il lieve scroscio di granelli che cedono sotto il tuo peso: è un raschio lento, unghie che scavano nella pietra. Ti immobilizzi. Il cuore accelera. I baffi fremono, l'aria annusata a scatti. Ti giri, annusi, cerchi l'odore degli altri, il passo rapido del branco. Niente. Solo buio. Un verso ti sale in gola, breve, strozzato, un richiamo che nessuno raccoglie.
Le zampe battono a vuoto sul fango. Sei solo e il silenzio ti pesa addosso come pietra.
Ti infili in un corridoio angusto, le pareti ti sfiorano i fianchi.
L'odore cambia: avverti qualcosa di dolciastro, nauseante. Carne marcia. Il miasma è già paura, ti ricorda le trappole, i corpi in decomposizione. Ma questo effluvio non viene da una trappola. C'è solo terra intorno a te. Non riesci a fiutare altro, la paura sovrasta i tuoi sensi. Un lampo di memoria ti attraversa il cervello: sei col tuo branco, le corse notturne tra i rifiuti, i tuoi fratelli che ridono con i denti sporchi di sangue. Poi il ricordo si spezza: davanti a te le trappole, il rumore secco del metallo, i piccoli corpi che si contorcono. L'odore che senti ora è lo stesso.
Un soffio d'aria ti sfiora il dorso. Ti giri di scatto, ma dietro di te nient'altro che oscurità. Silenzio. Eppure sai che non sei più solo.
Le zampe anteriori sospese a mezz'aria, il corpo irrigidito.
Quel raschio continua, regolare come un artiglio che scava la pietra. Non è il rumore di un altro ratto: tu conosci i tuoi simili, i loro passi rapidi, i denti che rosicchiano. Questo è diverso. È più profondo, sembra far parte della terra.
L'odore dolciastro si fa più intenso. Ti brucia le narici, ti riempie la bocca di saliva amara.
Ti muovi, il corpo basso, i baffi che sfiorano la roccia viscida. Ora lo senti più chiaro, il pelo si rizza: non è il tuo ansimo, ma un mantice lento, cavernoso, che gonfia e svuota l'aria intorno a te.
Poi li vedi: punti pallidi, sono decine, sospesi nel buio. Sono occhi. Non brillano come quelli dei tuoi simili. Questi sembrano stelle cadute. Occhi che non chiedono, non fuggono: fissano e basta, ma ogni sguardo è una ferita che non si chiude. Un sussurro ti entra nelle ossa:
«Noi ti vediamo.»
Corri. Le zampe graffiano la pietra, ma ogni balzo sembra riportarti indietro. I cunicoli si piegano, si stringono. L'aria diventa più calda, più densa. Ti infili in un passaggio troppo stretto. Le pareti ti graffiano i fianchi, ti strappano il pelo. Avanzi a fatica, il muso costretto a radere la pietra. Il fiato ti manca. Dietro di te, il sussurro si fa più vicino:
«Non puoi scappare.»
Un altro ricordo ti assale: corpi intrappolati, gli occhi spalancati, i movimenti sempre più deboli. Li hai guardati contorcersi finché non sono rimasti immobili. Ora sei tu quello incollato al buio.
Con un ultimo sforzo ti lanci in avanti. Le costole stridono, la pelle si lacera.All’improvviso sei fuori dal cunicolo, ansimante, coperto di sangue e polvere. Ti ritrovi in una cavità più ampia. Il respiro si allunga, meno spezzato. I baffi non fremono più, si abbassano. Annusi l’aria: solo terra e muffa. Nessun odore di predatori. Ti accovacci, il corpo che trema ma si placa in cerca di un po' di riposo.
Per un istante credi di avercela fatta.
Nell'aria immobile, e pesante, avverti un movimento che porta con sé un odore che ti fa vibrare i denti: carne putrefatta, ossa.
Gli occhi si abituano lentamente. Ci sono resti dappertutto. Non sono di ratti. Piccoli scheletri, dita, zampe spezzate, ossa che spuntano dalla terra come bianche radici. Alcuni crani hanno ancora brandelli di pelle, altri sono solo gusci vuoti.
Dal soffitto pendono corde marcite, filamenti gonfi di umidità che si sfaldano al minimo tocco. Da una di esse oscilla il corpo rinsecchito di un topolino, pelle tesa sulle ossa, la bocca spalancata in un urlo che non ha più voce.
Ti blocchi. L'immagine ti trafigge. Riemerge un ricordo che non volevi evocare. È lo stesso spettacolo che avevi spiato dall'alto, quando eri fuori, libero. Guardavi senza emozione, convinto che quella fossa appartenesse ad altri, che non ti riguardasse. Ti eri illuso che fosse un confine, un orrore destinato a restare distante. Ora, invece, ci sei dentro.
Quegli occhi ritornano, questa volta tutto intorno a te. Non si muovono. Ti fissano, immobili, come se avessero atteso soltanto il tuo arrivo.
«Ti aspettiamo.»
Le zampe affondano nella melma. Ti divincoli, ma il terreno ti trattiene. Un ultimo lampo riaffiora: la volta in cui li avete rincorsi e intrappolati in un bidone, le pareti erano troppo lisce; i piccoli correvano in tondo graffiando i bordi senza appiglio. Ogni salto più basso del precedente. Alla fine restavano fermi. Ora la stessa impotenza ti assale.
Qualcosa ti afferra. Vieni trascinato indietro. Il buio ti inghiotte. Le pareti si stringono, il soffitto scende. Lo spazio diventa un sarcofago. Non importa quanto corri, non importa quanto scavi. Non c'è via d'uscita.
Il tuo regno, la terra conquistata non è un luogo. È una bocca. E tu sei già tra i suoi denti.
Le zampe cedono. Ti accasci. Il buio ti avvolge come una pelle nuova. E nell'ultimo istante lo sai: non sei mai stato inseguito. Non sei mai stato intrappolato.
Sei sempre stato con loro.
Freddo.
Un gocciolio regolare.
Plic… ploc…
Apri gli occhi. Le mani ti restituiscono i tratti del tuo viso. La grata sul muro ti riporta alla realtà. È ancora buio, guardi l’orologio nel corridoio, non hai dormito nemmeno un’ora. Il rubinetto gocciola, lo stesso ritmo del sogno inesplorato che svanisce. Ti alzi, stringi i palmi sulle sbarre gelate.
Fuori, una luna stracciata galleggia in una pozzanghera nera. Da sopra il muro di recinzione un grosso ratto ti scruta.
Lo guardi. “Immondo. Portatore di malattie, parassita che infesta i luoghi dove l'uomo ha smesso di vigilare”. Dovresti essere tu a disgustarlo, eppure, lui, sta lì, impettito sul suo muretto di mattoni crepati, come se avesse diritto di giudicare. Come se fosse lui il custode e tu il recluso.
Ti viene da ridere, ma è un suono secco, senza gioia.
"Dovrebbero sterminarli," mormori tra te. "Tutti. Gas, trappole, veleno. Non serve tenerli vivi. Sono inutili."
Il ratto non si muove. Continua a fissarti con quegli occhi neri, tondi, vuoti. C'è qualcosa nella sua immobilità che ti infastidisce. Non scappa. Non distoglie lo sguardo. Resta fermo come se aspettasse qualcosa da te. Come se volesse dirti qualcosa.
Ma è solo un animale. Una bestia. Non sa niente.
Ti allontani dalla finestra.
Torni al letto, ti siedi sul bordo. La branda cigola sotto il tuo peso, lo stesso cigolìo che senti ogni notte da quando ti hanno messo qui dentro. Un suono che ormai fa parte di te.
Guardi l'orologio: mancano ancora ore all'alba. Il silenzio della prigione ti preme addosso. Senti il passo di una guardia che percorre il corridoio.
Passi regolari, meccanici. “Anche loro sono prigionieri,” pensi. “Prigionieri della loro mediocrità, della loro funzione servile.” Tu invece sei qui per un errore. Per il tradimento di chi non ha compreso la grandezza delle tue azioni. La Storia ti assolverà. Lo sai.
Prendi il bicchiere d'acqua dal tavolino. È tiepida, sa di ruggine. La bevi comunque. Anche questo è una forma di resistenza: accettare l'indegno senza lasciarsi abbattere.
Eppure, mentre posi il bicchiere ti accorgi che le mani tremano. “È il freddo,” ti dici. “È Solo il freddo.”
Ti stendi sulla branda, fissi il soffitto screpolato. Le crepe formano figure, labirinti di intonaco staccato che si ramificano come vene.
Le hai studiate mille volte, ma stanotte sembrano diverse. Più fitte. Più strette. Come un labirinto di cunicoli.
Scuoti la testa. “Sono solo crepe. Niente di più.”
Chiudi gli occhi. Il buio dietro le palpebre non è vuoto: ci sono ombre che si muovono, forme che si addensano. Le scacci con un respiro profondo.
Il rubinetto gocciola.
Plic… ploc…
Le palpebre si fanno pesanti. Il respiro rallenta. E proprio mentre stai per cedere, un pensiero ti attraversa la mente: cosa succederebbe se non ti svegliassi più?
Lo scacci subito. Sciocchezze. Ti sveglierai. Ti svegli sempre.
Il buio ti avvolge.
Plic… ploc…
E da qualche parte, lontano, senti di nuovo il raschio. Unghie sulla pietra. Un sussurro che sale dal profondo:
«Il tuo tempo è compiuto. Ora sei con noi»
Ma tu non ci sei già più e nei cunicoli, il ratto correrà per l’eternità.
E poi ci sono ulteriori tre punti ingiustizia un po’ meno ingiusti, perché riguardano la vostra misera scrittura:
@Stregone, abbia pietà, sono una sconsiderata, lo so!
- Scrivere un racconto dal punto di vista di un ratto = 1 punto
- Scrivere un racconto in seconda persona singolare = 1 punto
- Scrivere un racconto che si svolge in un’ora = 1 punto
@Stregone, abbia pietà, sono una sconsiderata, lo so!
Comunque grazie del passaggio ricambierò al più presto.