[MI188] Il lago dei nomi perduti

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Traccia Arbitro n° 2: "Non è un gioco".
Il lago dei nomi perduti

Pioveva da giorni. Di quella pioggia fina, ostinata, che non lava via niente ma si insinua nelle crepe delle case, delle ossa, della memoria. Luca Calfiero, ragioniere in pensione da dieci anni e dimenticato da almeno venti, fissava la porta del suo appartamento da un tempo indefinito. Non guardava più l’orologio, da quando aveva smesso di avere appuntamenti. E persone. E giorni che valesse la pena distinguere l’uno dall’altro.
Davanti alla porta, appoggiato con cura, come un dono di compleanno, c’era un oggetto. Il terzo in tre notti. Un fischietto arrugginito. Non era uno qualunque. Lo riconobbe subito, con quel tremito vago che prende lo stomaco quando il corpo si ricorda prima della mente. Il metallo freddo e smangiato sembrava ancora portare l’eco di voci infantili, corse nei cortili, ordini gridati da educatori stanchi.
Era l’identico modello che usavano all’orfanotrofio. Un ricordo che non era mai andato via.
Lo prese tra due dita, come se bruciasse. Lo girò, lo osservò sotto la luce gialla del corridoio. Nessuna firma, nessun biglietto. Ma non servivano spiegazioni. Il messaggio era chiaro. Qualcuno scavava nel passato. Nel suo passato.
Rientrò in casa senza chiudere la porta del tutto. Sedette nella penombra, il fischietto in mano, la schiena rigida, il viso immobile come pietra antica. Lo poggiò accanto agli altri due oggetti: una cartolina turistica con la foto del lago di Jassen e una chiave arrugginita.
Tre notti, tre ricordi. Tre colpi di scalpello nella facciata che si era costruito per non vedere la crepa.
E poi, quella sera stessa, il quarto.
Lo trovò alle 2:13. Aveva aperto la porta per l’ennesima sigaretta, ormai fumatore notturno da quando aveva smesso di dormire davvero. Sullo zerbino, una busta nera, sottile. Dentro, un foglio. Nessuna intestazione. Una sola frase:
Perché hai ucciso Vittorio?
La calligrafia era incerta. Incerta ma decisa, come quella di un bambino che ha imparato da solo a scrivere, inciampando in ogni lettera ma senza mai fermarsi. Eppure, le parole erano chiare.
Vittorio.
Un nome che non sentiva pronunciare da… cinquant’anni? Sessanta?
Un nome che non esisteva più.
─ No... ─ , mormorò. Non era un’esclamazione, ma un rigetto istintivo. Un rifiuto viscerale, come sputare una medicina amara. Vittorio era esistito. Eccome se era esistito! Ma chi poteva saperlo, adesso, oltre a lui?
Rimise la lettera sul tavolo, accanto al fischietto, alla cartolina, alla chiave. Ogni oggetto un morso che si chiudeva lentamente intorno alla gola della sua vita. Ogni oggetto una fessura in quella prigione ben sigillata che era riuscito a farsi passare per una coscienza pulita.
Andò in cucina. Aprì il frigorifero. Bottiglie d’acqua, qualche avanzo scaduto, il vuoto. Nient’altro.
Si versò del whisky da una bottiglia nascosta dietro una fila di libri in una piccola libreria. Beveva solo quando le mani tremavano. E ora tremavano. Eccome se tremavano.
Sedette. Di nuovo. Come ogni notte. Il bicchiere tra le mani. Lo sguardo nel vuoto.
Quella voce che ogni tanto tornava, ora parlava forte. Un sussurro affilato:
─ Perché hai ucciso Vittorio?
Quel nome era sepolto. Sotto uno strato di burocrazia, documenti falsi, silenzi e sguardi bassi. Nessuno all’orfanotrofio  se ne era occupato troppo, si era mai accorto. Nessuno aveva chiesto. Avevano dato per buona la sua versione del bambino che era allora: Vittorio era scivolato, annegato durante la gita. Niente da indagare. Niente sospetti. Solo un altro orfano morto, uno dei tanti che nessuno avrebbe mai cercato. Un funerale anonimo, pro forma. Solo un corteo di orfani vestiti di nero e un prete.
Ma lui lo sapeva. Lo aveva visto cadere. Lo aveva spinto. 
Perché non poteva sopportare quell’amore rifiutato, quella voce limpida che rideva con gli altri, ma non con lui. Che non lo vedeva. Non lo voleva. E lui aveva tanto bisogno di qualcuno.
Ora, a distanza di una vita intera, qualcuno stava bussando.
No, non bussando. Spalancando.

Lago di Jassen, 1958

Le acque del lago erano ferme, immobili come uno specchio nero. Il cielo grigio piombo, greve d’umidità.
─ Non si può andare lì, è vietato ─, aveva detto  Vittorio, posando la mano sulla spalla di Luca.
Aveva sorriso. Un sorriso gentile. Affettuoso. Ma non bastava. Non era mai bastato a Luca.
Luca ricordava perfettamente ogni dettaglio: le pietre scivolose, il respiro affannoso, le ginocchia che tremavano.
E poi quel pensiero. Breve. Acuto come un ago: ─ Se non vuoi stare con me, almeno nessun altro potrà.
La spinta fu un riflesso. Neanche un gesto. Solo una liberazione.
Il corpo cadde nel lago senza rumore. Nessun grido. Nessuna lotta. Solo un tonfo sordo e poi… il silenzio.

Adesso.

Luca, si svegliò sulla poltrona. Whisky finito. Il foglio ancora in mano.
Aprì la finestra. Il cielo era grigio. Sempre grigio per lui. Il quartiere silenzioso. Le case addormentate sembravano tombe.
Si accese una sigaretta con le mani ancora tremanti.
─ Chi sei? ─ sussurrò al vuoto. ─ Chi mi sta cercando?
Poi, come in risposta, notò qualcosa: una figura lontana, in fondo alla strada, ferma sotto un lampione. Immobile.
Forse era un’ombra. O forse no. Ma quando tornò a guardare… non c’era più.
Si tirò la vestaglia addosso. Guardò il tavolo.
Cartolina. Fischietto. Chiave. Lettera. E accanto, qualcosa che non c’era prima. Un braccialetto con perline colorate. Rosse, blu, gialle. Come quelli che facevano i bambini dell’orfanotrofio.
E Luca capì. Chiunque fosse là fuori... era stato anche lui all’orfanotrofio.

La luce del giorno filtrava dalla finestra in linee sottili e sporche. Il cielo era ancora piombo. Ottobre non voleva smettere di masticare i nervi.
Luca guardò la stanza come se fosse la prima volta. Tavolo, sedia, piatti nel lavandino. E quegli oggetti, sempre più numerosi. Il braccialetto giaceva lì, tra la chiave e la lettera. Le perline sembravano sorridergli con l’innocenza dei bambini. Di quando non sanno ancora quanto può fare male essere ignorati. Fece un passo indietro, istintivo. Come se l’oggetto potesse morderlo. Poi, lo vide. Un dettaglio che la sera prima non aveva notato.
Sotto il braccialetto, un bigliettino piegato in quattro. Lo aprì. Stessa calligrafia incerta:
Lui era luce.
Tu sei ombra.
Ma io ero invisibile.
Marco.
Luca sentì qualcosa stringergli lo stomaco. Una sensazione familiare. Marco.
Marco non lo voleva nessuno.
Marco. Un sussurro dimenticato. Marco, il ragazzino con il viso segnato da una malformazione, labbro leporino, forse qualcosa di più profondo, che viveva  e si trascinava in silenzio tra i corridoi dell’orfanotrofio.
Non parlava quasi mai. Non giocava. Si aggirava tra gli altri come un’ombra. I bambini lo evitavano, i grandi lo ignoravano. Solo Vittorio gli rivolgeva la parola, ogni tanto. Un saluto, un sorriso. E lui, Marco, lo seguiva ovunque. Lo amava. Come Luca.
Luca si ricordò di una sera. Poco dopo la morte di Vittorio.
Marco lo fissava da lontano, con quegli occhi lucidi, sgranati, sbarrati dal dubbio. Pieni di lacrime. Non disse nulla. Ma sapeva.
Sapeva.
E non parlò mai.
Nell’appartamento, la luce era diventata opaca. Il tempo si era ritirato. Luca si passò una mano sul volto. Sentiva la pelle vecchia, la maschera della sua vita.
Andò verso l’armadio. Frugò nel fondo, sotto vecchi documenti, tra scatole dimenticate.
Ne tirò fuori una vecchia foto di un gruppo di bambini vestiti di nero. Tre figure in primo piano. Vittorio  era in mezzo. Sorridente. Un sorriso pieno. Luca alla sua destra, che lo guardava. In un angolo, defilato, quasi nascosto dietro un albero, Marco.
La foto era sbiadita, ma il viso era riconoscibile. Deformato. E… pieno di dolore.
Luca fece cadere la foto. Il bicchiere si rovesciò. Si sentì osservato.
Si voltò di scatto verso la finestra.
Nulla. Solo pioggia.
Ma giurò di aver visto una figura oltre il vetro.
Bassa. Curva. Immobile.

Quella notte, non dormì.
Rimise in ordine gli oggetti sul tavolo, quasi fosse un altare. Cartolina. Fischietto. Chiave. Lettera. Braccialetto. Foto. E al centro, il nome: Marco. Il terzo angolo del triangolo.
Il fantasma ignorato.
Il testimone. In un luogo,  l’orfanotrofio, uno spazio carico di fantasmi,  dove il tempo si è fermato e i peccati restano incisi sui muri.

Ci mise un giorno intero a decidere. La notte, invece, non bastò per dormire. Quando alle prime luci dell’alba il sole filtrò tra i palazzi grigi come una lametta opaca, Luca era già in macchina, diretto verso la Casa San Michele, l’orfanotrofio dove tutto era cominciato, e finito.
Era chiuso da decenni, murato dopo uno scandalo dimenticato, eppure nessuno aveva mai osato buttarlo giù. Forse per dimenticanza, forse per paura. Alcuni luoghi non si distruggono: si lasciano marcire in pace.
Arrivò poco dopo le nove.
Nessuno in giro. Solo vento tra gli alberi e il cigolio di un cancello mezzo divelto.
Il tempo aveva mangiato tutto: la facciata era crepata, l’insegna scolorita. Ma l’odore era lo stesso. Polvere vecchia, muffa, ricordi che graffiavano la gola. Entrò da una finestra sfondata. Il corridoio era un labirinto di silenzi, pareti scrostate, vetri rotti, giocattoli dimenticati come ossa di infanzia.
Camminava piano, ma i passi sembravano urlare.
Poi, lo vide.
Una porta socchiusa. Una delle poche ancora intatte. Sul legno, inciso con un coltello o un chiodo, un nome:
“Luca + Vittorio”
E sotto, in un tratto più incerto, inciso a parte:
“Marco”
Luca si fermò.
Il cuore rallentò. Spinse piano la porta. Dentro, una stanza abitata. Brande improvvisate, coperte sporche, candele consumate. Un thermos. Libri.
E ovunque, oggetti del passato: fotografie, disegni infantili, medagliette. Reliquie. Al centro, un tavolo, con sopra tutti gli oggetti che Luca aveva ricevuto negli ultimi giorni. Identici. Come un doppio altarino.
Una sorta di museo del delitto e del silenzio.
Poi, una voce.
Bassa. Raschiata dal tempo.
─ Non pensavo saresti tornato.
Luca si voltò.
Marco.
Era più basso di quanto ricordasse, la schiena curva, il viso scavato dal tempo e dalla solitudine, ma la deformità era ancora lì, come un marchio. Il labbro superiore si sollevava in un mezzo sorriso perenne, storto, ma gli occhi… gli occhi erano lucidi, fermi. Occhi che avevano visto tutto, e taciuto tutto.
Marco si avvicinò, senza paura.
─ Pensavo avresti continuato a fingere. Come hai fatto per una vita.
Luca non rispose. Non subito.
Poi disse: ─ Perché adesso? Dopo tutto questo tempo?
Marco lo guardò come si guarda un insetto sotto vetro. ─ Perché sto morendo, Luca. E volevo sapere se tu… provavi qualcosa. Qualsiasi cosa.
Silenzio.
Poi, Marco aggiunse: ─ Perché lui me l’ha chiesto.
Luca aggrottò la fronte. ─ Chi?
Marco sorrise, ma senza allegria. Prese una scatola da sotto il letto. La aprì. Dentro, lettere. Pagine consumate. Un diario.
─ Vittorio scriveva. Ogni notte, sotto le coperte. Scriveva tutto. Anche di te, Luca.
Gli porse il diario, con un segnalibro. Luca lo aprì in quel punto.
"A volte Luca Calfiero mi guarda come se fossi l’unico al mondo. Ma io... io ho paura. Perché nei suoi occhi non c’è amore. C’è fame."
Luca abbassò lo sguardo. Tremava. Marco lo fissava. ─ Io l’amavo davvero. Non come te. Ma non ho fatto niente. Tu hai fatto troppo. Io… niente. E ora siamo due mostri, in modo diverso.
Luca richiuse lentamente la pagina del diario, le dita rigide come se tenesse in mano un oggetto contaminato.
Marco lo osservava in silenzio.
Il suo viso, deturpato, ma stranamente sereno, sembrava appartenere a un’altra specie. Uno che aveva già attraversato l’inferno, e ci si era fatto una tana.
─ Hai letto solo una delle sue pagine, ─ disse Marco. ─ Ce ne sono altre. Più dure. Più vere.
─ Basta, ─ sussurrò Luca. ─ Non serve.
Marco annuì. Ma  senza compassione. Con un vago disprezzo.
─ Non serve, dici. Perché? Perché sei vecchio? Perché hai avuto il tuo tempo e ormai non c’è più nulla da salvare?
Luca lo guardò, svuotato.
─ Tu non capisci... ho vissuto tutta la mia vita per dimenticare quel giorno. Ma non ci sono riuscito.
─ Lo so. Hai vissuto come un ladro. Dentro una pelle non tua. Hai preso l’amore che io non ho mai avuto e l’hai fatto a pezzi.
─ Quale amore? ─ scattò Luca, alzando la voce per la prima volta. ─ Quello che non ti ha mai guardato? Che ti parlava per pietà? Lo amavamo entrambi. Ma tu hai taciuto. Io… io ho fatto quello che potevo.
─ Lo hai  ucciso.
Il silenzio si fece pesante. Irrespirabile.
Luca si sedette sul bordo del letto. Le mani nei capelli.
─ Non l’ho voluto. Non era… premeditato. Ero solo… pieno. Di qualcosa che non sapevo come tenere dentro. Quando l’ho spinto… È successo. E poi… nessuno ha chiesto. Nessuno ha cercato. Lo sai.
Marco si avvicinò. Gli mise davanti una vecchia foto.
La stessa gita. Il lago. Loro tre fra gli altri.
─ Lo sai qual è la cosa peggiore? Non che tu l’abbia ucciso. Non che io non abbia parlato. La cosa peggiore è che… non ce lo ricordiamo più nemmeno bene. La sua voce. L’odore. Il modo in cui camminava. Tutto svanito. Abbiamo distrutto la cosa che amavamo.
Marco si lasciò cadere su una sedia traballante. Estrasse da sotto la giacca un flacone di pillole.
─ Ho un cancro, ─  disse. ─ Due mesi. Forse meno.
Luca lo guardò, senza espressione.
─ Per questo sei venuto a cercarmi? Per tormentarmi prima di andartene?
Marco rise. Una risata ruvida, senza gioia.
─ No, Luca. L’ho fatto perché non volevo morire da solo con tutto dentro. Tu sei la mia unica famiglia. L’unico altro mostro che sa di esserlo.
Restarono in silenzio per un tempo imprecisato. Fuori, il vento fischiava tra i corridoi dell’orfanotrofio, come un vecchio educatore che chiamava nomi che non esistono più.
Poi Marco si alzò.
─ Resta pure, se vuoi. Io non torno più qui. Tu sei bravo a nasconderti. Magari puoi diventare anche me, adesso.
Uscì dalla stanza, zoppicando, lasciando dietro l’eco dei suoi passi.
Luca rimase seduto.
Guardò le candele, le foto, gli oggetti. Un museo della colpa. E nessun visitatore.

Una settimana dopo, Marco morì. In un ospedale di provincia, solo. Nessun parente. Nessuna eredità. Nessun documento.
Luca, invece, non tornò più nella sua casa in città. La trovarono vuota, mesi dopo. Il frigorifero spento, la posta ammucchiata. Qualcuno disse di aver visto un  vecchio barbone vivere tra le rovine dell’ex orfanotrofio, parlando da solo, accendendo candele davanti a una vecchia fotografia.
La polizia non indagò troppo. Era solo un vecchio pazzo in più.
Si salveranno solo coloro che resisteranno e disobbediranno a oltranza, il resto perirà.
(Apocalisse di S. Giovanni)

Re: [MI188] Il lago dei nomi perduti

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@Alberto Tosciri 
L'unico neo di questo racconto che mi ha portato via come una folia al vento, é il titolo.
Molto evocativo, giusto per tutti i bambini dimenticati, ma allo stesso tempo porta quasi fuori strada il lettore.
La parte migliore, piú umana, é qualla in cui Marco riconosce Luca come sua unica famiglia e mi si é stretto il cuore a questo pensiero.
Allo stesso tempo tempo mi sono chiesta da dove scaturisce questa storia di un amore delicato e crudele.

Re: [MI188] Il lago dei nomi perduti

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@Almissima

Beh, ho pensato al titolo, di solito ci sto attento. Ma non sempre può andare, può fuorviare, hai ragione.
Almissima wrote: Allo stesso tempo tempo mi sono chiesta da dove scaturisce questa storia di un amore delicato e crudele.
Bella domanda. E complicata anche. Per rispondere bisognerebbe tirare in ballo non solo un’intera vita, ma tutto ciò che in quella vita si è infranto: educazione, retaggi familiari, religione, desideri inconfessabili.
Ho sempre sentito che certi amori, soprattutto quelli vissuti nel buio dell’anima, mai detti, mai accolti, diventano una miscela di delicatezza e crudeltà.
C'è chi, come Luca, finisce per trasgredire tutto: le regole morali, i codici affettivi, persino se stesso. Non perché vuole fare del male, ma perché ha "fame" d’amore, e nessuno gliel’ha mai insegnato in modo giusto. Kierkegaard direbbe che è l’angoscia della libertà: la vertigine di poter scegliere anche il male, pur di non soffrire più.

Eppure, non è così semplice. Come dice Simone Weil, l’anima affamata non sa aspettare. Ama male.
E San Paolo, nella Lettera ai Romani, confessa: “Voglio il bene ma compio il male”. Quante volte ci siamo trovati lì, in quell’abisso tra volontà e azione, tra desiderio e colpa?
Credo che Luca rappresenti questo: non solo un uomo che ha peccato, ma un uomo ferito dal bisogno d’amore, che ha confuso la fame con l’amore.
Marco invece è il testimone silenzioso, il fantasma della memoria, di ciò che è successo, al quale ha assistito. Colui che non ha agito, ma che ha portato dentro la stessa fame. Due mostri, come dice lui. Ma anche due sopravvissuti.

A volte, la sofferenza nasce non solo dal male che compiamo, ma dalla trasgressione del nostro retaggio: tutto ciò che ci hanno detto che era giusto, normale, lecito. Quando il cuore va contro quel retaggio, tutto si spezza. E anche se non scegliamo di essere ciò che siamo… dobbiamo farci carico di ciò che diventiamo.

Scusa la risposta lunga e riferimenti vari. È una vita che ci penso, e ancora non ho trovato una risposta.
Si salveranno solo coloro che resisteranno e disobbediranno a oltranza, il resto perirà.
(Apocalisse di S. Giovanni)

Re: [MI188] Il lago dei nomi perduti

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Ogni volta che ti incontro in un contest, penso che non abbia senso che partecipo anch'io, @Alberto Tosciri; diciamo che lo faccio con spirito sportivo. Il mio lato competitivo, d'altra parte, non vede l'ora che scrivi un racconto brutto.  :lol: 
Ora torno serio, davvero. Se leggi il mio racconto puoi capire perché questo passaggio
Alberto Tosciri wrote: Lo sai qual è la cosa peggiore? Non che tu l’abbia ucciso. Non che io non abbia parlato. La cosa peggiore è che… non ce lo ricordiamo più nemmeno bene. La sua voce. L’odore. Il modo in cui camminava. Tutto svanito. Abbiamo distrutto la cosa che amavamo.
mi ha inumidito gli occhi - per quanto il contesto è diverso, ma il significato, in fondo, è quello.
Non aggiungo altro, penso che posso solo imparare.  :libro:  
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Re: [MI188] Il lago dei nomi perduti

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bwv582 wrote: Ogni volta che ti incontro in un contest, penso che non abbia senso che partecipo anch'io, @Alberto Tosciri; diciamo che lo faccio con spirito sportivo. Il mio lato competitivo, d'altra parte, non vede l'ora che scrivi un racconto brutto.  :lol:
No, non dire così. Qualche volta mi arrangio a scrivere, e ogni tanto scrivo cose inqualificabili,  capiterà ancora... non pensare che io sia chissà che.
E non dire più che non ha senso che tu partecipi ai contest,  se ci sono io, non dirlo più. :)
Se scopro che fai così, potrei arrabbiarmi... no scherzo. Ci rimarrei davvero male. 
Certo che leggerò il tuo racconto. Sto leggendo tutti e prendendo note.
Si salveranno solo coloro che resisteranno e disobbediranno a oltranza, il resto perirà.
(Apocalisse di S. Giovanni)

Re: [MI188] Il lago dei nomi perduti

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Ciao @Alberto Tosciri.
Abbiamo scelto la stessa traccia forse perché parrebbe la più intricante. Comunque ti lascio le mie impressioni  :)
Alberto Tosciri wrote: Pioveva da giorni. Di quella pioggia fina, ostinata, che non lava via niente ma si insinua nelle crepe delle case, delle ossa, della memoria. Luca Calfiero, ragioniere in pensione da dieci anni e dimenticato da almeno venti, fissava la porta del suo appartamento da un tempo indefinito. Non guardava più l’orologio, da quando aveva smesso di avere appuntamenti. E persone. E giorni che valesse la pena distinguere l’uno dall’altro.
Un inizio che rende chiaro il protagonista, l'ambiente che lo circonda, la situazione in cui vive. Parole che colpiscono per asprezza e carica emotiva.
Alberto Tosciri wrote: Lo trovò alle 2:13. Aveva aperto la porta per l’ennesima sigaretta, ormai fumatore notturno da quando aveva smesso di dormire davvero. Sullo zerbino, una busta nera, sottile. Dentro, un foglio. Nessuna intestazione. Una sola frase:
Perché hai ucciso Vittorio?
La lista degli oggetti è lunga. Come quasi un puzzle terminato rivela tanto, anche se c'è tanto ancora da scoprire. perché la le lettera chiusa in una busta nera? Capisco che il nero infonde drammaticità, ma non so se tale colore di busta si trova nelle cartolerie. 
E dentro alle righe un messaggio che è un atto di accusa; che non lascia spazio a vie di fuga, a diversa lettura, a diverso giudizio sul protagonista assassino. Insomma, un mistero svelato in anteprima.
Alberto Tosciri wrote: "A volte Luca Calfiero mi guarda come se fossi l’unico al mondo. Ma io... io ho paura. Perché nei suoi occhi non c’è amore. C’è fame."
Questa frase mi ha fatto pensare molto in quanto, anche in altri passi, si parla di amore tra giovani. Non realizzo di quale amore si parla. E il passo dove si parla di quella compagnia rifiutata mi pare sia rappresentante di reali situazione in quegli ambienti. Si formano i gruppi e si decide con cui "stare". Ma stare non implica l'amore, ma solo l'appartenenza, l'amicizia. E neanche posso fare congetture, dato che la vita oltre l'orfanotrofio di Luca non lo si conosce, al punto di poter comprendere realmente il senso di quell'amore descritto: omosessuale o fraterno. Trovo azzardato averlo inserito nell'abito della storia e averlo posto come nesso causale alla morte di Vittorio. Non so! Forse la sola disputa tra compagni reclusi poteva bastare. 
Alberto Tosciri wrote: No, Luca. L’ho fatto perché non volevo morire da solo con tutto dentro. Tu sei la mia unica famiglia. L’unico altro mostro che sa di esserlo.
Trovo il giudizio di Marco troppo pesante. A distanza di mezzo secolo e considerato l'età evoluta tra i due, nessun accenno a una visione diversa di quel fatto. Spingere Luca dentro l'acqua non bastava a renderlo mostro. Sono le classiche cazzate finite male. Sarebbe stato utile magari avere qualche particolare in più sulla sua morte. Luca poteva aver tentato di salvarlo o altro, anche se il tonfo e il silenzio sono molto eloquenti. Ma entrano in atto anche le reazioni spesso naturali quali il terrore, lo shock. Ma tutto questo non compare nel processo messo su da Marco e lo stesso Luca non pare che si voglia difendere anche se potrebbe farlo: si da tutto per scontato.
Alberto Tosciri wrote: Una settimana dopo, Marco morì. In un ospedale di provincia, solo. Nessun parente. Nessuna eredità. Nessun documento.
Luca, invece, non tornò più nella sua casa in città. La trovarono vuota, mesi dopo. Il frigorifero spento, la posta ammucchiata. Qualcuno disse di aver visto un  vecchio barbone vivere tra le rovine dell’ex orfanotrofio, parlando da solo, accendendo candele davanti a una vecchia fotografia.
La polizia non indagò troppo. Era solo un vecchio pazzo in più.
Alla fine Luca sconta il suo delitto adolescenziale, come neanche i peggiori criminali fanno. Questo racconto però, penso io, anche conoscendo l'autore :D punta a mettere in evidenza più che la storia in sé, il peso insostenibile delle responsabilità. Quelle che non ti abbandonano mai e che poi chiedono il saldo quando oramai non si può essere più condannati; più che altro, per pietà. Ottima lettura grazie al percorso dolce e nostalgico usato.
Ciao. (y)
Tratti di pioggia sopra Auschwitz. Tra oblio e orgoglio
Io malata in fuga.https://www.facebook.com/raffaele.manca.90/

Re: [MI188] Il lago dei nomi perduti

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Ciao @Alberto Tosciri, credo di avertelo già detto in passato ma adoro come riesci a delineare le atmosfere e i luoghi. Hai una capacità descrittiva che invidio, in generale. Anche qui,
Alberto Tosciri wrote: Un fischietto arrugginito. Non era uno qualunque. Lo riconobbe subito, con quel tremito vago che prende lo stomaco quando il corpo si ricorda prima della mente. Il metallo freddo e smangiato sembrava ancora portare l’eco di voci infantili, corse nei cortili, ordini gridati da educatori stanchi.
bellissima immagine, molto forte, catapulta immediatamente in uno scenario ben preciso.
Alberto Tosciri wrote: La calligrafia era incerta. Incerta ma decisa, come quella di un bambino che ha imparato da solo a scrivere, inciampando in ogni lettera ma senza mai fermarsi. Eppure, le parole erano chiare.
Questa frase mi ha un po' confuso, più che altro perché se immagino una grafia (in teoria si dice grafia, perché calligrafia significa bella grafia, anche se lo usiamo tutti male) incerta o quella di un bambino che ha imparato da solo me la immagino traballante, quindi faccio fatica a immaginarla (anche?) decisa. Forse cambierei uno dei due aggettivi. 
Alberto Tosciri wrote: Ogni oggetto un morso che si chiudeva lentamente intorno alla gola della sua vita. Ogni oggetto una fessura in quella prigione ben sigillata che era riuscito a farsi passare per una coscienza pulita.
La suspence è costruita molto bene qui!
Alberto Tosciri wrote: Perché non poteva sopportare quell’amore rifiutato, quella voce limpida che rideva con gli altri, ma non con lui. Che non lo vedeva. Non lo voleva. E lui aveva tanto bisogno di qualcuno.
Devo ammettere che quando ho letto questo racconto la prima volta, questa rivelazione mi ha un po' spiazzato --- il movente sembra essere di poco conto, non abbastanza forte da "giustificare" (posto che tutti sappiamo che niente può giustificarlo) un atto del genere. Ripensandoci, però, è chiaro che l'ambiente in cui Luca, Vittorio e Marco li trovavano fosse senza respiro, senza sfoghi - come capiremo più avanti, avevano solo loro stessi, gli altri bambini. Penso che uno dei tuoi obiettivi fosse cercare di raccontare di Luca senza giudicarlo e lasciare al lettore con le proprie emozioni, siano di empatia o altro. Personalmente mi ha lasciato a interrogarmi, e infatti sono tornata a leggerlo un'altra volta. :) 
Alberto Tosciri wrote: Le acque del lago erano ferme, immobili come uno specchio nero. Il cielo grigio piombo, greve d’umidità.
Altra immagine riuscitissima.
Alberto Tosciri wrote: E poi quel pensiero. Breve. Acuto come un ago: ─ Se non vuoi stare con me, almeno nessun altro potrà.
Questa frase, credo volutamente, mi ha ricordato quelle che dicono gli assassini che uccidono le donne con cui sono stati/stanno. Anche se la vittima è un maschio in questo caso, la matrice di possesso è la stessa. Per un bambino che ha avuto così poco dalla vita come Luca, poi, Vittorio è come se fosse l'unica cosa che riesce a reclamare e decide di farlo nel modo peggiore possibile.
Alberto Tosciri wrote: Solo Vittorio gli rivolgeva la parola, ogni tanto. Un saluto, un sorriso. E lui, Marco, lo seguiva ovunque. Lo amava. Come Luca.
Questa frase mi ha fatto rimpiangere Vittorio, che non è mai cresciuto nell'essere la persona altruista che già era. E ovviamente è cresciuto il risentimento nei confronti del protagonista. 
Alberto Tosciri wrote:  Tre figure in primo piano. Vittorio  era in mezzo. Sorridente. Un sorriso pieno. Luca alla sua destra, che lo guardava. In un angolo, defilato, quasi nascosto dietro un albero, Marco.
Nonostante questa immagine ci faccia capire molto di Marco, e la trovo molto potente, se Marco è dietro l'albero non può essere in primo piano.
Alberto Tosciri wrote: E volevo sapere se tu… provavi qualcosa. Qualsiasi cosa.
Non ho capito se si riferisca al fatto che voleva sapere se Luca provasse rimorso per quello che ha fatto o ai sentimenti verso Vittorio. O forse entrambi. Dato che Luca non risponde propriamente, questa frase si perde un po'.
Alberto Tosciri wrote: Tu sei bravo a nasconderti.
Ouch. L'ha centrato.
Alberto Tosciri wrote: La polizia non indagò troppo. Era solo un vecchio pazzo in più.
Questa frase richiama l'insabbiamento della morte di Vittorio, e Luca si ritrova a essere dimenticato, lasciato ai margini, come è stato con lui (a ripensarci, anche come è vissuto Marco. Ottimo cerchio che si chiude).

Un racconto che mi è piaciuto molto, con due personaggi grigi che si specchiano e si completano in un certo senso. Il ritmo è serrato, da fiato sul collo, mi ha incollata. L'utilizzo di punti e a capo, le frasi brevi, mi hanno dato l'effetto di quando leggi un libro e sfogli e sfogli finché non arrivi alla fine.

Grazie della lettura e alla prossima!

Re: [MI188] Il lago dei nomi perduti

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Ciao@bestseller2020

Grazie del commento. Mi dispiace che non hai fatto in tempo a partecipare.

Ti ringrazio per la lettura attenta e per il tempo che hai dedicato a leggere questa cosa.
 Mi fa piacere che alcune parti ti abbiano colpito  e apprezzo moltissimo le osservazioni critiche.
bestseller2020 wrote: perché la le lettera chiusa in una busta nera? Capisco che il nero infonde drammaticità, ma non so se tale colore di busta si trova nelle cartolerie. 
E dentro alle righe un messaggio che è un atto di accusa; che non lascia spazio a vie di fuga, a diversa lettura, a diverso giudizio sul protagonista assassino. Insomma, un mistero svelato in anteprima.
Hai ragione sulla busta nera – scelta più simbolica che realistica. In effetti stona, e non avevo considerato quanto possa risultare poco credibile all’interno di un impianto narrativo che, pur virando verso l’evocativo,  (mi rifugio sempre lì) cerca un certo realismo.
bestseller2020 wrote:
Questa frase mi ha fatto pensare molto in quanto, anche in altri passi, si parla di amore tra giovani. Non realizzo di quale amore si parla. E il passo dove si parla di quella compagnia rifiutata mi pare sia rappresentante di reali situazione in quegli ambienti. Si formano i gruppi e si decide con cui "stare". Ma stare non implica l'amore, ma solo l'appartenenza, l'amicizia. E neanche posso fare congetture, dato che la vita oltre l'orfanotrofio di Luca non lo si conosce, al punto di poter comprendere realmente il senso di quell'amore descritto: omosessuale o fraterno. Trovo azzardato averlo inserito nell'abito della storia e averlo posto come nesso causale alla morte di Vittorio. Non so! Forse la sola disputa tra compagni reclusi poteva bastare. 
Giusto aver sollevato questo punto, che è uno dei nodi più delicati del racconto. Hai ragione a chiederti che tipo di "amore" si intenda tra Luca, Vittorio e Marco, ed è vero che non do una risposta. Ho cercato di restare sfocato, proprio perché i sentimenti vissuti da quei bambini non erano né chiari, né adulti, né incasellabili.
Nel mio intento, quell’ “amore” non è da intendersi in senso sessuale o romantico nel modo in cui lo si può intendere da adulti, ma piuttosto come una forma di bisogno emotivo crudo, assoluto e doloroso. I bambini di quell’orfanotrofio, soli, trascurati, affamati di contatto umano e riconoscimento, si attaccano agli altri con una forza spesso ingestibile, fatta di possessività, idealizzazione, gelosia. Non si tratta (solo) di voler “essere amici” o “stare insieme”, ma di un desiderio disperato di esistere per qualcuno, di sentirsi scelti, visti, amati.
Luca, in particolare, è un personaggio che non sa nemmeno lui cosa prova, ma lo sente in modo totalizzante. Quella spinta tragica nasce da un'emozione che non ha nome, non amore adulto, ma fame emotiva, bisogno di appartenere a qualcuno che non ricambia. E questo sentimento confuso, quando non trova uno spazio, può capitare che si contorce e implode.

Capisco che tutto questo possa risultare “azzardato”, come dici, ma mi interessava esplorare quell’amore che non è amore, (ma non posso dirlo... gli esseri umani non sono schematici) perché troppo precoce, non ancora formato, ma comunque potente abbastanza da cambiare (e rovinare) una vita.
Ugualmente, il tuo dubbio sul tema dell' “amore” è molto centrato: nel mio intento c’era l’ambiguità, la confusione emotiva tipica dell’infanzia ferita, dove l’amore può essere desiderio di attenzione, bisogno di appartenenza o qualcos'altro ancora. Ma forse avrei dovuto chiarire meglio quel sentimento senza renderlo troppo “motore causale” della tragedia. Il rischio di apparire forzato o, peggio, gratuito, c’è e lo riconosco.
bestseller2020 wrote: Trovo il giudizio di Marco troppo pesante. A distanza di mezzo secolo e considerato l'età evoluta tra i due, nessun accenno a una visione diversa di quel fatto. Spingere Luca dentro l'acqua non bastava a renderlo mostro. Sono le classiche cazzate finite male. Sarebbe stato utile magari avere qualche particolare in più sulla sua morte. Luca poteva aver tentato di salvarlo o altro, anche se il tonfo e il silenzio sono molto eloquenti. Ma entrano in atto anche le reazioni spesso naturali quali il terrore, lo shock. Ma tutto questo non compare nel processo messo su da Marco e lo stesso Luca non pare che si voglia difendere anche se potrebbe farlo: si da tutto per scontato.
Giusta  osservazione.
Hai centrato un nodo importante del racconto: il giudizio implacabile di Marco. Hai ragione a dire che, dopo tanti anni, forse ci si aspetterebbe una visione più articolata o almeno più sfumata. Ma ho messo Marco come un personaggio rimasto “fermo” nel tempo, bloccato emotivamente in quell’episodio e mai realmente uscito da quel trauma.
Per lui, il tempo non ha portato comprensione, ma solo “incrostazione”  (scusa il termine…non me ne veniva uno meglio...)  Non ha mai avuto altri affetti, né riscatto, né ascolto. È rimasto invisibile, come da bambino. E nella sua visione delle cose, non conta tanto la dinamica esatta della morte di Vittorio, ma il fatto che Luca sia sopravvissuto, abbia taciuto, e sia riuscito a costruirsi una vita, anche se vuota, mentre lui no.
Quel “mostro” che Marco evoca non è solo un’accusa per la morte fisica di Vittorio, ma per l’aver fatto finta di nulla, per l’indifferenza, per il peso non condiviso.
Hai ragione anche a dire che sarebbe stato interessante approfondire la dinamica della morte con più sfumature: lo shock, il senso di colpa immediato, l’eventuale tentativo di salvare Vittorio. Sono elementi che ho trascurato, per  cercare di mostrare di più sulle conseguenze interiori che sui fatti, ma il tuo spunto mi fa riflettere e lo terrò presente per eventuali revisioni.

Mi fa piacere che tu abbia colto il vero tema sottotraccia, ovvero il peso della colpa e delle responsabilità mai affrontate. Più della “colpa in sé”, mi interessava raccontare cosa succede quando non si elabora un trauma, quando si nasconde tutto sotto la pelle, finché qualcosa o qualcuno torna a scavare. E lì, non ci si salva più. Né da giovani, né da vecchi.

bestseller2020 wrote: Alla fine Luca sconta il suo delitto adolescenziale, come neanche i peggiori criminali fanno. Questo racconto però, penso io, anche conoscendo l'autore :D punta a mettere in evidenza più che la storia in sé, il peso insostenibile delle responsabilità. Quelle che non ti abbandonano mai e che poi chiedono il saldo quando oramai non si può essere più condannati; più che altro, per pietà. Ottima lettura grazie al percorso dolce e nostalgico usato.
Ciao. (y)
Sì. Hai visto bene. Il peso della responsabilità di come ci si è comportati in passato. Non si può dimenticare, non ti abbandona mai. Una condanna umana non spaventa. Spaventa quello che può venire dopo.

Grazie di aver dedicato il tuo tempo. A  si biri    :D  
Si salveranno solo coloro che resisteranno e disobbediranno a oltranza, il resto perirà.
(Apocalisse di S. Giovanni)

Re: [MI188] Il lago dei nomi perduti

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@Alberto Tosciri piccola precisazione tanto per.. Io sono stato in orfanotrofio per dieci lunghi anni, ma mi sono sempre innamorato di suore e di quelle signorine che venivano a lavarci dalla testa ai piedi.. Mi presi una cotta per la maestrina del doposcuola... Non ho mai avuto in testa i miei compagni di sventura... Sono un tipo strano? :D ciao carissimo!
Tratti di pioggia sopra Auschwitz. Tra oblio e orgoglio
Io malata in fuga.https://www.facebook.com/raffaele.manca.90/

Re: [MI188] Il lago dei nomi perduti

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bestseller2020 wrote: @Alberto Tosciri piccola precisazione tanto per.. Io sono stato in orfanotrofio per dieci lunghi anni, ma mi sono sempre innamorato di suore e di quelle signorine che venivano a lavarci dalla testa ai piedi.. Mi presi una cotta per la maestrina del doposcuola... Non ho mai avuto in testa i miei compagni di sventura... Sono un tipo strano? :D ciao carissimo!
Ricordo che ne avevi parlato, tempo fa.
Io ho avuto a che fare con il Seminario Minore, da esterno, ma non così a lungo.
Per problemi di famiglia dovetti rinunciare e andare alle scuole pubbliche.
Non mi sono mai dato pace.






 
Si salveranno solo coloro che resisteranno e disobbediranno a oltranza, il resto perirà.
(Apocalisse di S. Giovanni)

Re: [MI188] Il lago dei nomi perduti

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Ciao @Alberto Tosciri che dire, mi è piaciuto molto. Dalle descrizioni, atmosfere, il mistero che viene svelato pian piano, la solitudine, il dramma. Una traccia che più centrata non può essere.
Mi sono immaginato le scene e i personaggi come se li avessi davanti. Se ne potrebbe trarre una belle serie, come vanno di moda oggi.
Complimenti

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