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La fine del mondo pt. 2
La disperazione lo travolse. Cosa avrebbe pensato Dio del mondo che stava creando? Non poteva saperlo, ma forse poteva fare in modo che fosse soddisfatto. Confortato da questo pensiero, si chiese da dove iniziare per costruire il mondo migliore possibile. Radunò tutta la sua volontà e decise che partire dalle basi — dalla terra, dal cielo, dagli elementi fondamentali — sarebbe stato un buon punto di partenza.
Pensò anche alle lezioni di scienze, con il professor Ruotolo, che spiegava che oltre alla Terra, che era rotonda, c’era da considerare anche lo spazio profondo. Bisognava immaginare che, quando Dio fece la creazione — ammesso che l’avesse fatta, o forse la stava facendo Leo — dovette pensare non solo alla Terra, ma a tutto l’universo.
Così Leo si sedette per un attimo a riflettere. Si adagiò su quella cenere morbida, rannicchiando le gambe sotto di sé, e poi si mise seduto a gambe incrociate, fissando quella che sarebbe dovuta essere la materia inerte su cui avrebbe dovuto lavorare. Si chiese come fare. Era a malapena riuscito a farla cadere nel verso giusto. Non sapendo che altro fare, ne prese un pugnetto. La soppesò. Si rese conto che era leggera, e che prendendone di più non ne aumentava il peso.
Allora decise che ogni singolo granellino avrebbe avuto un peso tutto suo, e che tutti insieme avrebbero avuto il peso che dovevano avere. La lasciò cadere quando riuscì a farla pesare quel che gli sembrava fosse il giusto. Almeno qualcosa aveva concluso.
Poi, senza sapere che altro fare, ne prese una manciata e cercò di darle una forma. Per quanto ci provasse, non vi riusciva. Mancava qualcosa che la rendesse fangosa. Qualcosa che fosse umida. Improvvisamente capì di dover fare l’acqua.
Prese un po’ di cenere e desiderò che fosse liquida, che gli scorresse tra le dita, che fosse trasparente, con una lievissima tendenza all’azzurro bluastro. La cenere gli scivolò tra le dita, lasciandogli qualche goccia sul palmo della mano, e si depositò sulla cenere bianca, creando una piccola pozzanghera dove l’aveva presa. Aveva inventato l’acqua. La fissò, stupito, dicendosi che forse stava cominciando a capire davvero come funzionava.
Gli occhi gli si spalancarono: era solo l’inizio. Prese altra cenere e gridò:
«Voglio la terra! Fertile, soffice, che trattenga l’acqua!»
La cenere divenne compatta, pastosa, fibrosa… ma si guardò intorno, prese altra cenere e la versò nell’acqua, pensando: «Voglio più acqua.» E subito l’acqua crebbe, riempiendo con abbondanza lo spazio davanti a lui.
Poi mescolò terra e cenere tra le mani, concentrandosi, e vide la cenere trasformarsi in nuova terra.
Quando ebbe abbastanza acqua e terra da mettere da parte, prese un pugno di terra e lo bagnò delicatamente con l’altra mano, modellandolo con cura.
E funzionò. Magicamente, funzionò.
Davanti a lui aveva una palla di fango, perfetta nella sua forma.
Sorrise. Potenzialmente, aveva davanti la Terra. Il pianeta su cui era sempre vissuto.
Improvvisamente sentì odore di casa, e preso dalla frenesia iniziò a impastare terra e acqua. Quando mancavano, li alimentava con cenere bianca, continuando a lavorare senza sosta finché il composto non divenne troppo pesante per lui e non seppe più come procedere.
Sedette, esausto e sporco di fango, con il cuore che gli palpitava dall’eccitazione e dalla voglia di tornare a casa.
Ma a casa dove? Nessuno gli assicurava che ci sarebbe stata una casa su quel pianeta. Non una casa sua. Non con i suoi genitori. Non una casa in generale: non crescono mica sugli alberi, né sui pianeti.
Chiuse gli occhi, la bocca dello stomaco gli si serrò, ebbe per un attimo voglia di piangere, ma poi si disse che non ne valeva la pena.
«Desiderare non basta», si disse. «Deve anche essere possibile.»
E riprese a guardare la cenere bianca.
Pensò a quanto fatto finora. Aveva creato l’acqua, l’aria, la luce, la terra, il fango. Aveva fatto tantissimo. Tutto da quella materia inerte.
Per la prima volta si chiese da dove venisse. Che fosse il brodo primordiale della Bibbia? Non sembrava molto brodosa. Né molto ordinata, né caotica. Piuttosto qualcosa di sciatto. Qualcosa di troppo irrilevante per avere ordine o disordine.
La guardò bene. Cosa gli ricordava? Cercò di ricordare dove avesse già visto quella cenere bianca. Lentamente, l’immagine gli tornò: del vetro, sul fondo di un piccolo contenitore. Un fondo di vetro colmo di cenere, bianca e scura, poggiato sul legno di rovere della casa del nonno. Era il posacenere, con i resti del sigaro del nonno e i rivoli di cenere che costeggiavano le macchie di bruciato del cristallo.
All’improvviso Leo si ricordò del nonno e comprese che doveva ancora inventare il fuoco. Il suo universo era stato distrutto da un corpo celeste, e forse tutto ciò che ne restava era proprio quella cenere bianca.
Pensò che, per riuscire a comprendere quella cenere bianca, forse doveva riuscire a inventare il fuoco. Gli aveva sempre fatto paura il fuoco. Prese della cenere nell’incavo delle mani, e tenendole a coppa davanti a sé, desiderò che diventasse fuoco. Rovente, rosso, distruttivo fuoco che tutto mangia e tutto corrode.
La cenere prese vita e cominciò a danzare tra le sue mani, e a fare scintille, poi divenne un fuocherello, e poi un fuoco vivo, poi sembrò voler schizzare fuori e avere vita propria. Era ipnotico; nel fuoco gli sembrava di veder danzare centinaia di piccoli omini che cantavano e si inchinavano ritmicamente. Gli sembrò che il fuoco parlasse. Come se quegli omini danzanti stessero cantando una litania con un significato, con delle parole. Come se una magia si stesse avverando, pensò che il fuoco parlasse, lo credette con così tanta intensità che lo sentì parlare:
«Io sono la fame che hai dimenticato.»
Leo rimase stupito da tale frase. Effettivamente non mangiava da tempo. Ma temette per ciò che aveva fatto fino ad ora. Sapeva che il fuoco non si riferiva al cibo. Il fuoco voleva bruciare. Così si ricordò che il fuoco bruciava e che avrebbe dovuto bruciarsi. Iniziò a provare dolore. Gettò il fuoco sulla terra e ficcò le mani nell’acqua.
«Perché mi fai male, fuoco?» chiese Leo.
«Io non corrodo, rivelo.»
Nel frattempo Leo cercava di assicurarsi che fosse solo terra quella intorno al fuoco e cercava di tenere lontana cenere e quant’altro potesse bruciare o trasformarsi in altro fuoco.
«Basta desiderare di non soffrire» aggiunse il fuoco dopo un poco.
Leo decise che il fuoco bruciava, ma che lui non poteva soffrire, e decise anche di guarire, che quelle brutte bolle non gli piacevano. Le mani tornarono normali, e Leo tornò a guardare il fuoco con interesse.
«Cosa dovrei farci con te?»
«Fai di me un cielo che non dimentica di ardere.»
«Dall’alto potresti dirmi cosa vedi, o aiutarmi ad avere le idee più chiare. Mi sembra una buona idea.»
Si chiese come fare un sole. Pensò che la cosa migliore che potesse fare fosse prendere del fuoco e della terra e impastarli e farne una palla. Così si mise a fare una palla di terra e cercò di infilarvi dentro il fuoco e desiderò che quella terra fosse fuoco vivo. Si ritrovò con una palla di fiamme tra le mani, e in un momento di ingenuità gli disegnò un sorriso e due occhietti con le dita annerite su quello che aveva deciso sarebbe stato il lato del volto.
Se lo mise davanti a sé e ci parlò:
«Ehi: sole!»
Se si aspettava una reazione dall’astro, fu un po’ confusa. La palla di fuoco che aveva davanti non sapeva di essere un astro, né che si chiamava sole. Sapeva solo parlare. Alcuni concetti non gli erano proprio chiari, e rispose un silenzio tombale. Pian piano il sorriso scavato nel fango e fiamme si sciolse e divenne più cupo, come uno sguardo di disagio.
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