La fine del mondo pt.1

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La fine del mondo pt. 1

Leo era solo nella sua cameretta, a guardare attonito dalla finestra. Stava osservando con stupore il cielo. Verrebbe da chiedersi quale prodigio della scienza stesse catturando la sua attenzione, ma non era un artefatto umano. Era la fine del mondo.
Un’enorme massa scura si stagliava sopra l’orizzonte e sembrava stesse divorando il cielo. Leo lo vide da Lucca, in tutta la sua imponenza, mentre precipitava sul pianeta. Pensò a quale terrore potesse scatenare un impatto del genere, e si chiese se potesse sgretolare non solo la Terra, ma forse anche l’intero sistema solare. E chissà, forse anche di più.
L’unica cosa che riuscì a distrarlo vagamente dal treno dei suoi pensieri fu la musica del telegiornale che iniziava. Era un “Blob” che rimontava spezzoni di TG per ricordare tutto ciò che si era tentato di fare per evitare il disastro. Erano stati mesi di discussioni, tentativi, piani e azioni. Inutilmente, evidentemente. L’impatto era ormai imminente.
Rimase immobile. Il momento era catartico. Il mondo stava finendo, e il corpo celeste avanzava imperterrito. Contrariamente a molti umani, Leo rimase lì, paralizzato nell’attesa. Passarono cinque lunghissimi minuti da quando notò quella massa fino a quando l’impatto avvenne. Il tempo sembrava essersi congelato. E quando finalmente, dopo che eoni trascorsero in un attimo, toccò terra, arrivando ad un impatto così potente da sbriciolare il pianeta, Leo semplicemente… si spense.
Non vide niente. La botta fu di tale entità da averlo sgretolato in atomi prima che potesse rendersene conto. Lui, il pianeta, il sistema solare, e forse la galassia intera. Chissà.
Ma Leo continuava a non vedere nulla. Non sparì. Non vide alcuna luce che lo conducesse in paradiso o all’inferno. Nessun Buddha né Nirvana di unghie reincarnite, nessun Allah con il suo contingente volubile di vergini, nessun Vishnu con la sua moltitudine infinita di braccia. Neanche Manitù e le sue praterie piene di bisonti. Niente. Solo buio cosmico.
Leo era terrorizzato.
Provò a parlare.
«C’è qualcuno?» Sentì le parole vibrare dentro le sue ossa, ma nessun suono uscì. Né aria. E si rese conto che non stava respirando. Un attacco di panico gli serrò la gola, mentre cercava di mettersi una mano al collo per tirare su dell’aria inesistente. Ma la vocina del suo subconscio gli fece notare che non respirava da molto.
“Saresti dovuto essere già morto”, pensò.
Quella considerazione fece scattare dentro di lui una serie di domande. Sempre ammesso di non essere già morto. E sempre che si potesse morire più di una volta. Nessuno sa davvero come funzioni, dopo la morte. Forse è solo qualcosa che gli anticorpi devono combattere dopo la prima volta, e quindi ci metti più tempo a morire. O forse la morte non esiste ed è solo un teletrasporto verso un altrove, un posto buio e senza aria.
Nel mentre che continuava a fare ipotesi, lì al buio immobile e freddo, il tempo passava e lui non se ne accorgeva. Quando gli sembrò fosse passato troppo tempo, fermò i pensieri. Sarei già dovuto morire da tempo. Forse respirare non è più necessario, si disse.
Desiderò una luce.
E la luce arrivò. Ovunque. Infinita, incondizionata. Un bianco che saturava l’universo intero.
Vide intorno a sé il bianco. Un bianco infinito, senza soluzione di continuità. Si guardò intorno e vide solo un pavimento indefinito di qualcosa. Sembrava terra. Si abbassò a toccarla: era cenere bianca. Finissima, morbida. Non compatta, a parte sotto i suoi piedi. La lasciò scivolare dalle mani, ma non cadeva. Rimaneva sospesa dove l’aveva lasciata.
«Perché non cade?»
E allora la cenere cadde. Tutta insieme, a piombo. Senza rumore. Una cosa curiosa.
Si abbassò a osservarla. E si rese conto che tra le tante stranezze c’era anche l’aria. Pensò che gli sarebbe piaciuto respirare, e improvvisamente sentì l’aria scorrere prepotente nei suoi polmoni.
«Posso respirare!» gridò.
L’urlo si perse nell’infinito.
Si rese conto che, in qualche modo, quella cenere rispettava la sua volontà. Realizzò che tutto là dentro, ovunque fosse, si piegava alla sua volontà. Si chiese se la cenere potesse cadere al contrario, verso l’alto. Improvvisamente un turbinio bianco l’avvolse, e onde bianche lo circondarono, e salirono danzando, come fatte da migliaia di lucciole, verso un cielo candido in cui si andavano perdendo. La gioia lo pervase, mentre saltellava abbracciando nuvole bianche che gli scorrevano delicatamente intorno al corpo.
Si chiese come sarebbe stato se avesse iniziato a piovere cenere, come la dolce rugiada primaverile. Si chiese se avrebbe provato quella sensazione di freschezza che di solito sentiva con le prime piogge primaverili. Voleva quella sensazione di rinascita. E la cenere incominciò a cadere verso il basso. Lievi, delicate cortine di pulviscolo bianco calarono sull’orizzonte.
Non era la neve festiva che imbiancava le strade, come nelle favole per bambini. Era cenere, candida cenere. Sembrava che qualcuno avesse arso il Natale e ora il cielo ne stesse restituendo alla terra le spoglie, in un atto di pietà. Leo provò una profonda tristezza. Ebbe voglia di piangere, e un “giù” imperioso che riecheggiò nella sua mente fece ripiombare tutta la cenere a terra.
Lo scenario si era riempito di dolci dune, e vederle tutte splendidamente illuminate faceva una strana impressione. Desiderò che la penombra calasse sul mondo intorno a lui. La luminosità calò di diversi gradi, fino a ricordargli i tramonti sulle colline del Chianti, in mezzo a cui viveva suo nonno. Il mondo intorno a lui era diventato improvvisamente uno scenario lunare, pieno di chiaroscuri, di zone d’ombra.
In mezzo al crepuscolo si sentì improvvisamente solo. Si sedette lì a piangere in mezzo a quella infinita cenere bianca. Un sussurro gli sfuggì dalle labbra: «Voglio la mamma». Con la coda dell'occhio notò qualcosa muoversi. Improvvisamente, dalla cenere bianca, aveva preso forma qualcosa di strano. Vide come la forma di una mano di fronte ai suoi occhi, come se qualcosa stesse cercando di raggiungerlo, di toccarlo, di fargli una carezza.
Alzò gli occhi per guardare meglio la cosa che si stava avvicinando, notò una mano polverosa e quella che sembrava l'immagine di sua madre fatta di quella finissima cenere con uno sguardo triste. Dopo circa un secondo, questa strana formazione, questa impronta di umidità venuta quasi dal passato, si sgretolò in una nube di fumo, come se un tornado l'avesse colpita.
L’impatto per Leo fu brutale. Non riuscì a capacitarsi di cosa fosse successo. Guardava quel cumulo di polvere che giaceva ormai a terra come se sua madre gli fosse morta davanti per la seconda volta. Si chiese cosa avesse sbagliato, cosa poteva aver mai sbagliato. Una vocina interiore gli disse: “Forse hai creato la mamma”.
Si soffermò per un attimo a rifletterci sopra, era la prima volta da quando si era ritrovato qui, in questo posto stranissimo, che per un attimo rifletteva sulla possibilità di essere in grado di creare le cose. Ma forse doveva farlo nel modo giusto, doveva capire come si potesse fare, come riuscire a creare le cose in modo che fossero in grado di vivere, di muoversi, di respirare.
Per un attimo brevissimo, Leo ebbe la sensazione di essere diventato una sorta di Dio. Non riusciva a crederci e scacciò subito il pensiero: no, non poteva essere. Forse era Dio stesso a creare per lui ciò che desiderava, lasciandogli una tela nera su cui modellare il mondo. Un mondo nuovo, impossibile a tratti, il mondo di un ragazzino di dieci anni.

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