Il dono portato dalla luna (Prequel di “Un dono venuto dal bosco”) Fuori contest

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Ci sono storie che nascono senza bisogno di essere cercate o inventate: arrivano come un volo nella notte e intrecciano destini lontani.



Prequel di Un dono venuto dal bosco di @Kasimiro 

Il dono portato dalla luna 

Il richiamo
La foresta di notte respira. Gabriel la sente nel petto, intrecciata al ritmo del suo affanno. Avanza tra tronchi scuri e veli di nebbia che gli sfiorano le gambe nude. Sopra di lui, la luna piena gioca a nascondersi dietro le chiome, riappare a tratti in lame d’argento che fendono l’oscurità. Ogni volta che la luce filtra, rivela radici contorte e riflessi umidi sulle foglie, e il sentiero sembra mutare forma. L’odore di terra bagnata e foglie in decomposizione si incolla alla pelle. I piedi scalzi affondano nel fango, ma il freddo non lo ferma: è solo un ragazzo ma sa che ormai è troppo tardi per voltarsi indietro.
Un suono rompe il fruscio della foresta. Gabriel si arresta, in ascolto: non è il richiamo di un animale, ma il battito profondo di ali possenti. Alza lo sguardo. Là, su un ramo nodoso illuminato da un raggio di luna, un gufo imponente lo fissa con iridi dorate. Resta immobile. Gabriel non sa se fuggire o restare. Poi l’animale si stacca senza rumore dal ramo e scivola tra gli alberi, come un presagio. 
L’istinto lo spinge a seguirlo. Il sentiero — che intravede tra la vegetazione — serpeggia in salita, tra querce sempre più alte. L’aria si fa più densa, impregnata di un aroma netto: legno arso di focolare e cibo buono. Quando il fiato comincia a mancargli, un bagliore metallico punge il buio: un cancello in ferro battuto, ricamato di volute e simboli. Oltre, tra siepi scolpite e penombre allungate, si stagliano due figure immobili, ferme sulla scalinata davanti a un portone.
Un uomo e una donna, indossano abiti scuri ed eleganti, la loro pelle, così chiara da sembrare illuminata dall’interno, restituisce la luce alla luna. Il gufo si posa sulla spalla della donna, come un vecchio amico. Il cancello si apre: «Benvenuto a casa» dice lei, e la sua voce ha la morbidezza di una coperta calda. Gabriel si lascia cadere sui primi gradini, esausto.

La casa delle ore invertite 
Dentro la dimora, il tepore lo avvolge all’istante, scioglie la tensione delle mani gelate. L’aroma del legno lucidato si mescola a quello delle erbe aromatiche che sale da una pentola sul fuoco; il crepitio del camino è un soffio antico, pronto ad accogliere chiunque varchi quella soglia.
La donna posa sul tavolo una ciotola di zuppa fumante. Gabriel si siede piano, teme quasi di incrinare quell’equilibrio irreale. Il vapore gli sfiora il viso; la porcellana calda tra le mani diffonde nel corpo una pace mai provata. Inspira: l’aroma intenso delle verdure cotte a lungo, un filo di pepe che gli pizzica il naso. Solleva il cucchiaio e assaggia. Il brodo avvolge la lingua e, per un attimo, si rende conto di quanto sia vuoto il suo stomaco… e di quanto più vuoto sia stato fino a quel momento il suo cuore. 
«È di tuo gusto?» chiede la donna, accenna un sorriso e si accomoda di fronte a lui. Gabriel annuisce, ancora con la bocca piena. «Sì… è come…» prova a dire, ma le parole non arrivano.
L’uomo, in piedi accanto al camino, lo osserva. «Mangia, finché è caldo. Qui non amiamo lasciar raffreddare le cose buone.» Gabriel accenna un cenno di gratitudine e continua a sorseggiare il brodo. «Quando avrai finito, ti mostreremo dove potrai riposare» aggiunge l’uomo, voltandosi verso la fiamma. «E domani, se vorrai restare, scoprirai che qui le ore scorrono al contrario.»
Gabriel solleva lo sguardo verso di lui: c’è qualcosa, in quelle parole, che non sa se interpretare come promessa o avvertimento. Un brivido lo attraversa — non di freddo — ma per la consapevolezza, sottile e inspiegabile, di essere appena entrato in un mondo che non segue le stesse leggi di quello che ha lasciato. Eppure, non gli dispiace. Un pensiero gli sfiora la mente: forse, per la prima volta, è nel posto giusto.
Torna alla zuppa, assapora il tepore che, dal cucchiaio, gli scivola lento nello stomaco. Il gufo lo osserva, appollaiato sullo schienale della sedia, lo sguardo vigile come quello di un guardiano. Nessuno gli fa domande. Nessuno alza la voce, con calma finisce il suo pasto.
«Vieni» lo chiama la donna con un accento morbido. «Io mi chiamo Elvira, e lui è mio marito, Adrian.» Lo conduce sulla scalinata di pietra rosa che domina l’atrio. All’ultimo gradino si apre un corridoio illuminato da piccole lampade che diffondono un chiarore dorato. Ai lati, porte chiuse e vasi di piante dalle foglie carnose, forme e colori che Gabriel non ricorda di aver mai visto. L’aria è tiepida, intrisa di una fragranza sottile di resina d’ambra e foglie d’alloro.
Elvira si ferma davanti a una porta e la spalanca. All’interno, una stanza ordinata e accogliente: al centro, il letto più morbido che Gabriel abbia mai visto, il copriletto liscio come l’acqua scura di un lago. Accanto, una porta socchiusa rivela un bagno di un bianco abbagliante, con un sentore fresco di lavanda.
Gabriel resta un momento sulla soglia, come a chiedere il permesso di entrare. «Entra pure, riposati. Nel bagno trovi tutto ciò che ti serve. A domani.»
Si avvicina al box doccia: l’acqua calda gli scivola sulle mani e sul viso, lava via il sudore, la polvere e il bruciore della corsa nella boscaglia. Si bagna il capo, inspira il profumo del sapone, sente la pelle distendersi.
Indossa un pigiama pulito che Elvira ha lasciato sul letto e si lascia cadere sul materasso, che lo accoglie come un abbraccio. Chiude gli occhi; il movimento del corpo tra le lenzuola si fonde al fruscio lontano del vento tra le foglie. Nel sonno, vede ancora il gufo: vola alto sotto la luce pallida, e il suo colpo d’ala sembra chiamarlo verso un luogo che ancora non conosce, ma che già sa di casa.
Deve aver dormito tutto il giorno. Le tende sono chiuse, ma la casa è viva: passi leggeri, fruscii, porte che si aprono su stanze piene di libri e vetri colorati. Elvira lo invita a esplorare la casa, poi lo conduce in giardino: è sera, l’aria fresca e intrisa di sentore di muschio. Il vecchio gufo plana sul suo braccio. «Qui la vita si muove quando il sole riposa. Se vuoi restare, sei il benvenuto» dice, e Gabriel sente che quelle parole si depositano in un luogo sconosciuto e profondo di sé, e le accoglie.
giorni e i mesi scorrono, inseguendo notti serene, una dopo l’altra. Gabriel cresce accanto ai suoi ospiti generosi, impara i sentieri nascosti, i nidi dei rapaci, la pazienza necessaria a guadagnarsi la fiducia di un animale selvatico. Ma la vita gli prepara un’altra prova: comincia a percepire penombre e pause insolite. Adrian a volte è troppo stanco, Elvira scosta un raggio di sole al tramonto con un gesto brusco.
Non osa chiedere, né immaginare che quella quiete possa incrinarsi.
Il corridoio gli rimanda l’eco dei suoi passi lievi. Gabriel, di ritorno dalla biblioteca, si arresta: da una porta socchiusa filtra un filo di luce e un odore acre di disinfettante, estraneo alla fragranza di erbe che domina la casa. Non è la prima volta che ospiti entrano o escono da quelle stanze — ne ha visti passare molti, in quella dimora che ormai sente anche sua — eppure, questa volta, qualcosa lo turba.
Trattiene il fiato. All’interno, voci basse scandiscono parole che preferirebbe non comprendere: «…anemia grave…», «…ustioni estese…», «…il dolore…». Un fruscio di stoffa, il tintinnio di metallo contro vetro.
Spinge appena la porta e intravede due figure chine su un tavolino colmo di boccette e garze: volti sconosciuti, mani sicure. Medici. Stanno visitando Adrian. Per un istante, lo sguardo gli scivola oltre: Elvira, in piedi accanto a suo marito, lui, seduto con le maniche arrotolate, la pelle segnata da chiazze scure. Lei gli stringe una mano e sorride, ma una sottile piega sulla fronte incrina quella calma.
Un brivido freddo gli percorre la schiena. Non è il timore di un malanno passeggero, ma la certezza che ciò che ha visto finora sia solo una parte del quadro. Chiude la porta senza rumore. Nel petto, il presentimento si gonfia come una vela: Adrian ed Elvira sono malati. E loro lo sanno… ma non vogliono che lui lo sappia.

La promessa 
Un temporale spezza l’estate. Fulmini fendono il cielo e il tuono fa vibrare i vetri. Nel cortile, tra pozzanghere e foglie fradice, Gabriel trova il vecchio gufo riverso a terra. Le piume, un tempo lucide, sono intrise d’acqua; il respiro è un filo sottile. Lo raccoglie, sente il battito irregolare contro il palmo e lo porta dentro.
Adrian ed Elvira lo curano con gesti sicuri: bende asciutte, impacchi caldi, gocce d’acqua nel becco. Ma è Gabriel a vegliarlo per tutta la notte, seduto accanto al camino, ascoltando il crepitio del fuoco e il ritmo sempre più debole dell’animale.
All’alba, la pioggia si è ritirata, lasciando nell’aria l’odore di terra lavata. Il gufo apre gli occhi una sola volta, poi li richiude per sempre. Gabriel resta immobile, con il corpo leggero tra le mani, finché Elvira non si avvicina e posa una mano sulla sua spalla.
«A volte,» mormora, «chi amiamo ci lascia, e noi dobbiamo trovare la forza di restare.» Nei suoi occhi, Gabriel scorge una luce che non aveva mai notato. «C’è qualcosa che devi sapere» prosegue lei. «Adrian ed io… siamo malati. Non subito, ma un giorno — forse lontano, forse vicino — potremmo lasciarti. Come il vecchio gufo, la nostra ora arriverà.»
Gabriel sente il sangue gelarsi. Elvira stringe appena la sua spalla. «Quando accadrà, questa casa avrà bisogno di qualcuno che la protegga. E non solo la casa…» si interrompe, e un accenno di sorriso le attraversa il volto. «Aspetto un bambino.»
Le parole lo colpiscono come un lampo nel buio. «Se un giorno resterai solo, promettimi che ti prenderai cura di lui… e di questo luogo.» Gabriel incontra lo sguardo di Adrian, fermo e silenzioso accanto al camino, e annuisce. «Lo prometto.»


L’attesa 
L’inverno porta con sé una quiete ovattata dalla neve fresca e un’aria di attesa. La casa si riempie di gesti discreti: una vecchia signora aiuta Elvira a cucire tende color crema per la stanza di fronte alla sua. Adrian dà disposizioni a falegnami e operai per la culla e il restauro di un vecchio mobile di legno scuro. L’aroma della resina si mescola a quello della cera d’api, dei tessuti nuovi e della vernice fresca.
Sul pavimento, allineati come sentinelle, compaiono giochi di legno: un cavallo a dondolo, un trenino, un piccolo gufo intagliato che Luca — così hanno deciso di chiamarlo — stringerà tra le mani. Le pareti, tinte di un verde tenue, riflettono la luce dorata delle lampade, e la stanza prende forma come un rifugio caldo in mezzo all’inverno.
La notte di luna piena in cui il pianto del neonato si leva per la prima volta, Gabriel corre nella stanza dove Elvira tiene Luca tra le braccia. Il bambino ha pelle diafana e occhi scuri come nuvole cariche di pioggia. Nei suoi lineamenti c’è già qualcosa di selvatico e notturno, come se la natura stessa lo avesse reclamato.
Un fruscio lo fa voltare verso la finestra. Sul davanzale esterno, immobile nella luce lattiginosa, tre giovani rapaci li osservano. Gli sguardi, come globi dorati, riflettono l’essenza della notte. Non si muovono, non emettono alcun verso: restano lì, come messaggeri silenziosi di un legame eterno, finché il bambino non si addormenta.
In quell’istante, Gabriel capisce che la sua promessa non è soltanto un impegno: è un vincolo antico, misterioso, di cui ormai fa parte anche lui.

L’arrivo di Ugo 
Una sera d’autunno, l’aria ha il sapore umido delle foglie marce e del muschio; un sottile velo di nebbia si arrampica tra i tronchi. Gabriel cammina accanto a Luca, che stringe la sua mano con una presa leggera. È il bambino a vederlo per primo.
«Guarda, Gabriel!»
Ai margini del sentiero, tra radici contorte e felci piegate dalla rugiada, giace un piccolo gufo. Le piume, morbide e screziate di grigio e rame, si increspano appena; un’ala pende in un angolo innaturale. I suoi occhi, due monete d’oro antico, li fissano senza paura, come se sapesse già che non gli faranno del male.
Gabriel si china e lo raccoglie. Il corpo dell’animale è caldo e leggero; sotto le dita sente il battito rapido del cuore. Luca si avvicina, trattiene il fiato e sfiora con un dito le piume del capo. «Lo chiameremo Ugo» dice, con la naturalezza di chi pronuncia un nome che sembra esistere da sempre.
Lo portano a casa, avvolto in una sciarpa di lana. Nei mesi successivi, la loro vita si adatta al ritmo della sua guarigione. La cucina si riempie dell’odore acre della carne cruda e del fruscio delle sue ali che, giorno dopo giorno, tornano a fendere l’aria. Luca gli parla sottovoce, come a confidargli segreti che nemmeno Gabriel può ascoltare.
Quando l’inverno cede il passo alla primavera, Ugo è pronto a volare: l’aria nella stanza vibra, come se ogni cosa avesse trattenuto il fiato fino a quell’istante. Il battito si espande, lieve e potente. Gabriel lo segue con lo sguardo e, in quel volo, riconosce il segno di qualcosa che va oltre: un patto silenzioso, un legame che la natura ha deciso di suggellare.
Ugo non se ne va. Sceglie di restare. Da allora, Gabriel lo trova spesso posato sulla spalla di Luca, la testa leggermente inclinata, come un guardiano che veglia su un regno di penombre e tempo sospeso 
In quei momenti, osservandoli insieme, Gabriel ha la sensazione che una scelta invisibile li abbia legati con un filo destinato a resistere al tempo e alle tempeste.
Gli anni scorrono tra passeggiate lunari e presenze silenziose. Luca cresce con la pelle di porcellana e gli occhi neri come inchiostro, il passo leggero di chi appartiene alla notte. Ugo lo accompagna ovunque, sentinella muta posata sulla sua spalla.
Nella casa, alcune stanze restano chiuse, e l’aroma di certe erbe non aleggia più nei corridoi. Sul pianoforte, uno strato di polvere vela le partiture di Adrian; in giardino, le rose di Elvira fioriscono ancora, ma senza mani a reciderle. Elvira e Adrian non ci sono più, eppure la loro presenza vive nei gesti di Gabriel, nei sentieri che continua a percorrere, nella pace che custodisce. La promessa fatta anni prima è ormai parte di lui, e sa che proteggere la dimora, la foresta e chi verrà dopo è la sua eredità.
Una sera, Ugo si posa sul davanzale della biblioteca. Tre colpi d’ala rapidi, un verso breve, e il capo rivolto verso la linea scura degli alberi. Gabriel segue il suo sguardo: un sentiero si perde tra i tronchi, verso la fine della riserva. Il vento porta con sé l’odore di pioggia e di terra appena smossa. In quell’istante, gli torna alla mente il volo che lo ha condotto lì, anni prima. Comprende, senza bisogno di vederlo, che quel richiamo sta tornando.

Il dono venuto dal bosco 
Tra gli alberi, un ragazzo avanza da solo, sfiora con le dita cortecce umide e muschi verdi. Terentius inspira a fondo quell’odore di legno e funghi: si sente bene, sa che quello è l’unico luogo in cui il mondo non lo giudica.
All’improvviso, una sagoma attraversa il disco pallido nel cielo, sopra un velo di tramonto. Un gufo compie un arco lento sopra di lui e si ferma a mezz’aria, gli occhi dorati puntati nei suoi. Terentius resta immobile: sembra un invito.
Segue un sentiero fino a un cancello di ferro ricamato di segni antichi. Si apre su un viale lastricato da pietre lucide di umidità; oltre, siepi scolpite e oscurità. Non lo sa ancora, ma varcando quella soglia entrerà in un luogo dove il giorno non penetra, e dove il destino — un volo guidato dalla luce notturna — disegna cerchi invisibili nel tempo.
Dall’altra parte, Gabriel attende. Ha visto quel volo dall’alto della scalinata e, in quell’istante, ha riconosciuto il segno. Anni prima, è stato lui a varcare quel cancello, guidato da un altro gufo, accolto da mani che ora non ci sono più.
Mentre Terentius si avvicina, Gabriel sente che il filo invisibile che lo lega a quella casa sta per intrecciarsi a un nuovo destino. Il ragazzo non lo sa ancora, ma sta entrando in un’eredità fatta di promesse, di veglie notturne e di una magia che protegge chi sa ascoltarla.
E così, in quel territorio selvatico vegliato dalle sue creature, il colpo d’ala di un gufo traccia nell’aria il filo che unisce chi ha trovato protezione in quella casa e li avvolge nell’attesa del prossimo dono.


Re: Il dono portato dalla luna (Prequel di “Un dono venuto dal bosco”) Fuori contest

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Quanta poesia in questo dono che ci hai lasciato @Albascura
Voglio citare un frammento che hai riportato, a proposito del mio racconto, che trovo perfetto:  “E quando arriva il momento più difficile, il racconto non cade nel dolore, ma lo trasforma in poesia.”
Un presagio al quale avevo solo accennato, che arricchisci con una scrittura in cui ogni frase rimanda a vivide sensazioni e all'immaginazione sognante
Grazie per il pensiero e per questo racconto nel quale ci si abbandona in un dolce stato di sospensione.

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