[CE2025] Un brav'uomo - Sequel di La prima panchina rossa di Poeta Zaza

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Sequel di La prima panchina rossa di Poeta Zaza:
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Mai più e inverosimile
luce di quel ricordo,
la sua sfocata immagine
a ricalcar verrà.

 
Giorni, mesi, anni. È stato facile non voltarsi indietro. Seguire come dal finestrino di un treno la vita che corre via, cosa vuoi che siano vent’anni, meno di un respiro. A gente come Marzio Respighi veniva facile. La memoria di un pesce rosso, bagaglio leggero. Piccole soste in stazioncine senza importanza: diploma di geometra, concorso al Comune e poi via, dritto filato al suo perché, ch’era farsi ingegnere. Studio elegante, qualche stagista da spremere a costo zero, una segretaria con le tette grosse che si fa chiamare Deborah con l’acca, ma è una brava ragazza, ce la mette tutta e non è lì per farsi scopare.
E alla fine Anna. Che gli era esplosa nell’anima e l’aveva fatta splendere.
Anche gli stronzi si innamorano e quando succede migliorano. Non tanto, quello che basta per credersi perdonati. Dal mondo, dalla vita, dalle tante cazzate chiuse a chiave nel cassetto dei Non lo rifarei, ma ero così giovane.
A sessant’anni si può sembrare un brav’uomo. Marzio Respighi lo sembrava pure da vicino. Merito della sua Anna, che era salita con lui sul treno della vita e l’aveva fatto per restarci, per essere contenti anche solo di stare insieme.
Ma a volte i freni della motrice cominciano a fischiare e poi a urlare finché tutto si ferma. 
E tace. Pure se ha dirti tante cose. O forse proprio per quello.
Succede così: una mattina arrivi a studio e vedi la segretaria al telefono con gli occhi sgranati e la bocca all’ingiù.
«Deborah, perché quella faccia?»
«Ingegnere…»
«Non mi dire che sono i Giapponesi. Lo sapevo che mandavano tutto all’aria!»
«No, ingegnere… è l’ospedale.»
Perché Anna è lì ormai da quindici giorni, crocifissa a quel È maligno, ma non ci dobbiamo arrendere.  E allora ti senti gridare: «Annulla tutti gli impegni!» e corri verso l’ascensore e poi in garage, e senti l’odore freddo di muffa e cherosene, il motore che ruggisce su per la rampa. Arrivo, amore mio! E corri, corri, non smetteresti più di farlo, per arrivare prima di quell’ombra nera che se la vuole portare via.
Lo sguardo di Teresa lo segue dal bancone della reception fino alla porta a vetri del reparto. Chirurgia Oncologica, Marzio ci aveva quasi fatto l’abitudine, ma adesso è come una coltellata. Ora di visita. Ci sarebbe venuto lo stesso, ma non così, cazzo, non così!
Il corridoio, la gente che lo guarda e si scansa. Suor Clelia sulla porta della stanza. «Adesso non può entrare» La sua mano stretta attorno al braccio, lo tira, lo spinge via.
«Anna!»
«Non può entrare, le ho detto.»
Per un attimo vede dentro la folla di camici, il display che lampeggia, un attimo solo, poi la porta si chiude.
«Come? Perché?»
E Suor Clelia che annuisce, che legge tutte le domande idiote che non escono fuori: «Ha avuto una crisi. Bisogna operare.» E poi quella parola: d’urgenza.  Che sa di condanna, di faremo il possibile, di tranquillo, è in buone mani.
Pochi minuti, voci concitate, la porta si apre. Anna! «Faccia passare, grazie.»
La barella che scivola di corsa su, al quinto piano, dove il d’urgenza diventa bisturi, forbici, tampone, nemmeno il tempo di darle un bacio, di sussurrarle: «Andrà tutto bene.»
«Vieni, Marzio. Aspettiamo al bar, davanti a un buon caffè.»
Suor Clelia. Gli erano sempre state sulle palle le suore, tutte tranne lei. Che di starsene con le mani in mano, a cincischiare con candeline e Ave Maria proprio non ne voleva sapere. Che la trovavi in reparto a tutte le ore, che gli dava del lei e lo chiamava ingegnere, col sorriso strafottente di chi ti vede sempre bambino, ma passava al tu quando paura e dolore bambino ti ci facevano tornare per davvero. «Vieni. Aspettiamo insieme.»
No, non ce l’avrebbe fatta. Ha bisogno d’aria, di camminare, di sentire l’odore di lacrime e foglie bagnate da quell’autunno disperato. Di fumare, dopo sei anni di vita sana, a cosa è servito se poi ti senti dire: «Ormai un polmone è andato, ma possiamo ancora sperare.»
Anna non aveva mai fumato.
Duecento metri, massimo trecento. Ospedale, parco dei Mille ed è subito stazione. Chi va e chi viene. Tutto ha un senso.
Si lascia accarezzare dallo scricchiolio dei passi sulla ghiaia. 
Anna l’amava quel parco. Era pieno di prime cose. Le loro prime cose. Il primo appuntamento, il primo bacio, il primo Sei uno stronzo, vattene, il primo Sposami, così avremo un posto dove litigare in pace.
Aiuole, platani, castagni, un bulldog che arranca dietro al padrone, povera bestia, che gusto ci sarà a prendere a padellate sul muso un cane indifeso? La natura a volte è crudele.
Anna, non te ne andare. Ma dove vuoi che vada, cretino.
Bambini che giocano, ragazzini sui pattini, panchine. Quella in particolare, la prima, verniciata di rosso.
Ce ne sono tante ormai, una per ogni donna massacrata dal vero amore. Un modo per non dimenticare, s’era detto, ma ormai sono parte del paesaggio. Verdi le foglie, rosse le panchine. Ci si abitua a tutto.
La donna è lì, fuma anche lei e intanto tira briciole ai piccioni. Bionda, snella, la faccia tirata di chi non dorme abbastanza, probabilmente bella, almeno un tempo. Si gira, sorride: «Prego, si accomodi» e si scansa un poco per fargli posto.
«Grazie, ma ho bisogno di camminare.»
«Viene dall’ospedale, vero?»
Lui annuisce.
«Si fermi un momento. Quattro chiacchiere potrebbero aiutare entrambi.»
Aiutare chi? Come? Eppure si siede.
«Anche lei ha qualcuno là dentro?»
«Mia moglie. E lei?»
«No, io ci lavoro. Sono uscita un momento per una boccata d’aria.» Guarda la sigaretta, sorride: «Per una boccata di catrame.» Affonda la mano in un sacchetto, tira una manciata di briciole e subito è una folla di gluglù, uno sbatter d’ali, a balzi e saltelli, Scansati, quella è mia! Avessero mani e piedi, sarebbe rissa, e forse lo è, ma nonostante l’andatura, sono meno scemi di quello che sembra. Mangiare. Il resto dopo.
Marzio gira la testa verso la mole bianca dell’ospedale, verso le finestre del quinto piano. Vorrebbe andare. Fa per alzarsi, ma la mano di lei sul polso lo ferma: «Rimanga, è ancora presto.»
Lui aggrotta la fronte, come lo sa?
«Le cose brevi si aspettano in corridoio. Quelle medie al bar. Le altre sono troppo difficili da sopportare e ci si ritrova fuori, dove la vita continua.»
«Eppure ho visto gente dormire in sala d’aspetto.»
«Sì, qualcuno lo fa. Probabilmente l’ha fatto anche lei. Ma non stavolta.»
Già, non riesce nemmeno a pensarlo, però lo sa: stavolta è diverso. Potrebbe essere l’ultima.
«Me l’immagino Suor Clelia, l’avrà guardato in faccia e avrà detto…»
«Suor Clelia, la conosce?»
«Certo, da quando ero una semplice tirocinante. M’ha tenuto in piedi quando avrei voluto schiantare e mi ha mandato avanti a calci nel sedere: «Datti da fare, ragazzina, i piagnistei tienili per dopo.»
«E lei…»
«Sono andata avanti. E guardi che nel mio lavoro non è facile.»
«Almeno voi potete fare qualcosa, invece di aspettare e basta.»
Briciole finite. 
La donna guarda i piccioni sciamare lontano. Tutti tranne uno che se ne sta accasciato in mezzo al vialetto. Trema, sussulta, cerca di muovere le ali. E alla fine resta lì. Un mucchietto grigio che non capisce, non sa, non è più niente.
«Avevo poco più di vent’anni» dice la donna. «L’ultima delle infermiere ne sapeva più di me, della morte, intendo. E davano ordini, istruzioni, in quest’ospedale il tirocinio funziona così. Mi avevano messo a Cardiologia e una sera arrivò un vecchio, quasi ottant’anni. Era l’undici settembre del 2001 e non aveva retto a vedere quella tragedia. "Questo seguilo tu" mi disse la caposala. "Non ne avrà per molto." Ma come? Senza nemmeno… mi girai, ma quella se n’era già andata.»
La donna tira fuori un’altra sigaretta, l’accende, tira un gran boccata. «Antonio si chiamava.» E a sentire quel nome, Marzio sente un brivido gelargli la schiena. Andarsene. Ora, subito! Ma le gambe non gli danno retta.
«Non l’avevano neanche spogliato» fa lei. «Se ne stava su quel letto ancora col pigiama, una ciabatta sì e l’altra no, per la fretta di farlo arrivare in tempo. Ché a farlo morire in casa, poi ci sente in colpa…»
«Ma in colpa di cosa, Cristodio?!» gli esce come un urlo.
La donna si gira, lo fissa e aggrotta la fronte. «Di non aver fatto il possibile, credo.»
Marzio respira fondo: «Certo, dev’essere così.» Prende anche lui una sigaretta,  ma le mani tremano e l’accendino non ne vuole sapere.
«Lasci, faccio io» dice lei e delicatamente avvicina la fiamma.
«Grazie.» Una boccata, un colpo di tosse, poi si alza: «Adesso, mi scusi, ma devo proprio andare.»
«Mi ha dato una lettera» continua lei. «L’ultima lettera che aveva scritto alla madre vent’anni prima.»
Marzio si blocca, torna a sedere.
«E la sa una cosa?» fa lei. «Quando si dice le coincidenze, riguardava proprio questa panchina e il caso di Denise. Se lo ricorda?»
Marzio annuisce con gli occhi spalancati e il cuore che martella dentro.
«L’aveva vista tentare di separare due ragazzi, prendersi per sbaglio una coltellata e rimanere lì, a morire sola come un cane, mentre quelli scappavano. Li aveva visti e uno l’aveva anche riconosciuto. Era suo nipote Marzio.»
«No!»
«Invece sì. E pensi che, per tutti quegli anni aveva taciuto. Per proteggerlo, capisce? Mentre quello se ne andava in giro a raccontare mucchi di bugie. E inveiva fingendosi offeso che lui potesse crederlo capace di uccidere. Perché, ne converrà, lasciar morire qualcuno senza fare niente, in fondo è la stessa cosa.»
«Non è vero, è tutta una cazzata!» urla lui con la voce stridula.
«Non mi crede?»
«E allora, sentiamo. Perché mai avrebbe dato un documento così importante a un’estranea?»
La donna si stringe nelle spalle: «Chissà, forse perché quando si sta per attraversare il ponte la mente cerca un appiglio per restare, uno qualunque.»
«Non ci credo!» urla Marzio, così forte che i passeri scappano dai rami, manco fosse stata una fucilata. «E comunque è stato un errore!»
La donna lo fissa: «Un errore, certo. Se ne fanno tanti.» Prende sigarette e accendino e li rimette nella borsa. «Come mettersi in mezzo a una rissa. A mia sorella è costata la vita.»
«Sua sorella? Che vuol dire?»
«Denise, la ragazza della panchina era mia sorella.»
Lui la guarda incredulo. Lei annuisce: «Le coincidenze, gliel’ho detto.» Si alza, prende la borsa. «Adesso però sono io che devo andare. Ho un intervento d’urgenza. Un caso oncologico piuttosto serio.»
Anna!
Marzio sente qualcosa di acido salirgli in gola, a mischiarsi con l’angoscia che gli leva il fiato. Anna! «E lei…» annaspa livido di rabbia «Lei, con un intervento d’urgenza se ne sta qui a… Ma non ha il minimo…»
La donna lo guarda con uno strano sorriso: «Cos’ha? Paura che la lasci morire sola come un cane? Tranquillo, non accadrà» dice. Fa per allontanarsi, si gira: «Ah, quasi dimenticavo: chieda della dottoressa Schuld.»
E lo lascia lì, a cercare di tener a bada tutta quella tempesta che gli vortica in testa, che lo rimette su quel treno da cui ha guardato la vita correre lontano. Coincidenze, verità, bugie, Anna, la dottoressa Schuld. Perché dovrebbe chiedere di lei? Come sapesse.
E a quel punto tutto si ferma. Perché sarà lei ad affondare il bisturi nel suo corpo! Perché lei sa. Certo che sa!
Anna!
Marzio corre, le lacrime gli gelano la faccia. Corre e quasi travolge il cane col muso rincagnato, due bambine sui pattini e una carrozzina. Corre nella hall dell’ospedale e per il corridoio fino alla stanza, mentre la lettiga, proprio in quel momento, sta uscendo dall’ascensore e suor Clelia gli si para davanti.
«Aspetti, ingegnere. Ancora non può entrare.» Gli ha dato del lei! Allora è andato tutto bene! L’abbraccia, singhiozzando.
«Sì, è andato tutto bene» fa lei e intanto lo spinge dolcemente verso la sala d’attesa e lo fa sedere. «Adesso però se ne sta qui buono buono qui a ciucciarsi il suo caffè. O preferisce una cioccolata?» dice mentre fa tintinnare una monetina dentro il distributore.
«La dottoressa» fa lui.
«Certo, dopo però.»
«La dottoressa Schuld, voglio ringraziarla.»
«Chi, scusi?»
«Il chirurgo che ha operato mia moglie.»
«Guardi che l’ha fatto il dottor Migliorini e di Schuld in ospedale non se n’è mai visto uno.»
«Non è possibile, ci ho parlato fino a un quarto d’ora fa!»
«Appunto. Anna è stata dentro sei ore»
«Ma che dice? Sarò stato fuori mezz’ora, un’ora al massimo!»
«Sei ore, guardi l’orologio.»
16.15. Il display sul muro lo dice chiaro. Che sta succedendo?
«Anna è salita alle dieci. E dunque in nessun caso avrebbe potuto operarla. È proprio sicuro del cognome?»
«Me l’ha detto lei!»
A quel punto suor Clelia alza le sopracciglia e dà un’occhiata al crocefisso che le pende al collo, Non ti sembra di esagerare? Si stringe nelle spalle, si siede accanto a Marzio e gli prende la mano tra le sue: «Schuld hai detto, va bene. Ma tu lo sai cosa significa?»
«No, è un cognome e poi che importanza ha?»
«È una parola tedesca.»
Tedesca, certo come Denise, come…
«Significa colpa, debito, rimorso.»
Marzio chiude gli occhi, ma le lacrime hanno fatto prima e già gli colano sulle guance.
Gli torna in mente quel mucchietto di penne grigie ch’era rimasto per terra nel parco, a morire tutto solo, mentre gli altri se n’erano volati via.
Anna è salva. Denise no.
E lui nemmeno.
Schuld. È proprio quello il nome.
Quello e nessun altro.
 
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Re: [CE2025] Un brav'uomo - Sequel di La prima panchina rossa di Poeta Zaza

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aladicorvo wrote: Mon Aug 18, 2025 8:26 amMarzio respira a fondo: «Certo, dev’essere così.» Prende anche lui una sigaretta,  ma le mani tremano e l’accendino non ne vuole sapere.
«Lasci, faccio io» dice lei e delicatamente avvicina la fiamma.
«Grazie.» Una boccata, un colpo di tosse, poi si alza: «Adesso, mi scusi, ma devo proprio andare.»
«Mi ha dato una lettera» continua lei. «L’ultima lettera che aveva scritto alla madre vent’anni prima.»
Marzio si blocca, torna a sedere.
«E la sa una cosa?» fa lei. «Quando si dice le coincidenze, riguardava proprio questa panchina e il caso di Denise. Se lo ricorda?»
Marzio annuisce con gli occhi spalancati e il cuore che martella dentro.
«L’aveva vista tentare di separare due ragazzi, prendersi per sbaglio una coltellata e rimanere lì, a morire sola come un cane, mentre quelli scappavano. Li aveva visti e uno l’aveva anche riconosciuto. Era suo nipote Marzio.»
Nooooooooo!  :(

Marzio il colpevole? Lo zio l'aveva addirittura visto? Per questo Marzio non l'aveva più cercato per vent'anni. Se avesse avuto la coscienza
pulita, sarebbe andato a trovarlo per rappacificarsi.

Un po' troppe coincidenze forzate, ma ci sta anche un sequel così. La vita è anche ipocrisia, colpa, dolore subito e inflitto.
Anche il fatto che la sorella di Denise salvi Anna, la donna di Marzio, dalla morte.
Ma io sono una romanticona e mi dispiace sempre scoprire il male dentro alle persone che conosco, ma addirittura anche dentro i miei personaggi.

Però è un sequel scritto bene, con la tua solita maestria. Complimenti, @aladicorvo  :)

aladicorvo wrote: Mon Aug 18, 2025 8:26 amTedesca, certo come Denise, come…
«Significa colpa, debito, rimorso.»
Marzio chiude gli occhi, ma le lacrime hanno fatto prima e già gli colano sulle guance.
Gli torna in mente quel mucchietto di penne grigie ch’era rimasto per terra nel parco, a morire tutto solo, mentre gli altri se n’erano volati via.
Anna è salva. Denise no.
E lui nemmeno.
Schuld. È proprio quello il nome.
Quello e nessun altro.
Apprezzata la conclusione.
Di sabbia e catrame è la vita:
o scorre o si lega alle dita.


Poeta con te - Tre spunti di versi

Re: [CE2025] Un brav'uomo - Sequel di La prima panchina rossa di Poeta Zaza

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Ciao @aladicorvo e buon proseguimento con il contest.
Mi resta difficile lasciarti un commento perché, al di là di un racconto scritto bene, la testa ha pensato che sia un racconto con dei vuoti. Il personaggio di Anna, intorno a cui ruota praticamente tutto, un accenno a Deborah e poco altro che espande il precedente. Però poi c'è tutta l'introspezione, un dialogo con il proprio io interiore, in un certo senso, e il percorso interno che si interrompe con il lieto fine. In altre parole, manca giusto un po' di spazio in più, qualche sensazione del protagonista nel dialogo con la dottoressa Schuld - o con se stesso, la interpreto così (mi è venuto in mente quel genere di film dove ci sono interazioni tra un personaggio e qualcosa di ultraterreno o che rispecchia i propri problemi interiori, un genere che non mi spiace per niente, anzi; tiro a caso due titoli: la città degli angeli e collateral beauty) -, forse qualche ricordo in più, qualcosa che possa dare un po' di respiro. Poi, certo, anche qualche parola in più sulla vita di Marzio e/o su Anna penso ci starebbe bene.
Come dire, una buona base, l'idea è che hai tagliato un po', non so se per rientrare nel numero di caratteri o perché pensavi magari di distrarre il lettore (o cose simili): con il sottoscritto trovi un amante dell'introspezione e dell'esistenziale, quindi non è così. :P 
Tra l'altro, ho trovato tante piccole perle, come questa  :love3:
aladicorvo wrote: Mon Aug 18, 2025 8:26 amSposami, così avremo un posto dove litigare in pace.
oppure questa :asd: 
aladicorvo wrote: Mon Aug 18, 2025 8:26 amche gusto ci sarà a prendere a padellate sul muso un cane indifeso? La natura a volte è crudele.
o anche questa  (y)
aladicorvo wrote: Mon Aug 18, 2025 8:26 amLe cose brevi si aspettano in corridoio. Quelle medie al bar. Le altre sono troppo difficili da sopportare e ci si ritrova fuori, dove la vita continua.
perciò, davvero, un buon racconto scritto da una penna con una maturità superiore a quella del sottoscritto (non te lo dico senza invidia ;) ). Manca solo qualche respiro profondo in più, secondo me.  :libro:
https://www.facebook.com/curiosamate

Re: [CE2025] Un brav'uomo - Sequel di La prima panchina rossa di Poeta Zaza

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Ciao, @bwv582. Grazie del passaggio
bwv582 wrote: Fri Aug 22, 2025 9:45 pmPerò poi c'è tutta l'introspezione, un dialogo con il proprio io interiore, in un certo senso, e il percorso interno che si interrompe con il lieto fine
E' strano, ne avevo tutta un'altra idea... Vedi, alle volte che scherzi ti combina l'andar di fretta, ci si fanno mucchi di opinioni sbagliate.
Farò tesoro dei tuoi suggerimenti  (y)
https://ilmiolibro.kataweb.it/libro/gia ... ataccia-2/
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Re: [CE2025] Un brav'uomo - Sequel di La prima panchina rossa di Poeta Zaza

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aladicorvo wrote: Mon Aug 18, 2025 8:26 amMai più e inverosimile
luce di quel ricordo,
la sua sfocata immagine
a ricalcar verrà.
Hai messo i versi di @Poeta Zaza, come piace tanto a Mariangela! Molto bello.

aladicorvo wrote: Mon Aug 18, 2025 8:26 amGiorni, mesi, anni. È stato facile non voltarsi indietro. Seguire come dal finestrino di un treno la vita che corre via, cosa vuoi che siano vent’anni, meno di un respiro. A gente come Marzio Respighi veniva facile. La memoria di un pesce rosso, bagaglio leggero. Piccole soste in stazioncine senza importanza: diploma di geometra, concorso al Comune e poi via, dritto filato al suo perché, ch’era farsi ingegnere. Studio elegante, qualche stagista da spremere a costo zero, una segretaria con le tette grosse che si fa chiamare Deborah con l’acca, ma è una brava ragazza, ce la mette tutta e non è lì per farsi scopare.
E alla fine Anna. Che gli era esplosa nell’anima e l’aveva fatta splendere.
Anche gli stronzi si innamorano e quando succede migliorano. Non tanto, quello che basta per credersi perdonati. Dal mondo, dalla vita, dalle tante cazzate chiuse a chiave nel cassetto dei Non lo rifarei, ma ero così giovane.
A sessant’anni si può sembrare un brav’uomo. Marzio Respighi lo sembrava pure da vicino. Merito della sua Anna, che era salita con lui sul treno della vita e l’aveva fatto per restarci, per essere contenti anche solo di stare insieme.
Ma a volte i freni della motrice cominciano a fischiare e poi a urlare finché tutto si ferma. 
E tace. Pure se ha dirti tante cose. O forse proprio per quello.
Succede così: una mattina arrivi a studio e vedi la segretaria al telefono con gli occhi sgranati e la bocca all’ingiù.
«Deborah, perché quella faccia?»
«Ingegnere…»
«Non mi dire che sono i Giapponesi. Lo sapevo che mandavano tutto all’aria!»
«No, ingegnere… è l’ospedale.»
Un incipit narrativo potente e malinconico, intriso di riflessioni sul tempo, sul cambiamento e sulla redenzione. Marzio Respighi emerge come un personaggio complesso: apparentemente cinico, ma capace di trasformarsi grazie all’amore.


vita” appare tre volte in poche righe: “la vita che corre via”, “il treno della vita”, “dal mondo, dalla vita”. Si potrebbe  variare:
    esistenza che scivola via, il treno del tempo, dal mondo dell’esistenza
aladicorvo wrote: Mon Aug 18, 2025 8:26 amPerché Anna è lì ormai da quindici giorni, crocifissa a quel È maligno, ma non ci dobbiamo arrendere.  E allora ti senti gridare: «Annulla tutti gli impegni!» e corri verso l’ascensore e poi in garage, e senti l’odore freddo di muffa e cherosene, il motore che ruggisce su per la rampa. Arrivo, amore mio! E corri, corri, non smetteresti più di farlo, per arrivare prima di quell’ombra nera che se la vuole portare via.
Lo sguardo di Teresa lo segue dal bancone della reception fino alla porta a vetri del reparto. Chirurgia Oncologica, Marzio ci aveva quasi fatto l’abitudine, ma adesso è come una coltellata. Ora di visita. Ci sarebbe venuto lo stesso, ma non così, cazzo, non così!
Il corridoio, la gente che lo guarda e si scansa. Suor Clelia sulla porta della stanza. «Adesso non può entrare» La sua mano stretta attorno al braccio, lo tira, lo spinge via.
linguaggio è diretto, il ritmo serrato, e la tensione cresce: L’urgenza di Marzio, il dolore che lo spinge, il senso di impotenza davanti alla malattia di Anna: tutto è reso con grande efficacia. L’uso del presente crea immediatezza, io sono lì con lui nel corridoio, davanti alla porta.
Lo segue”, “lo guarda”, “lo tira” molti verbi riferiti a Marzio. Alternerei con soggetti impliciti o variazioni: “Lo osserva mentre si avvicina”, “Gli si para davanti”, ecc.
aladicorvo wrote: Mon Aug 18, 2025 8:26 amNon può entrare, le ho detto.»
Per un attimo vede dentro la folla di camici, il display che lampeggia, un attimo solo, poi la porta si chiude.
«Come? Perché?»
E Suor Clelia che annuisce, che legge tutte le domande idiote che non escono fuori: «Ha avuto una crisi. Bisogna operare.» E poi quella parola: d’urgenza.  Che sa di condanna, di faremo il possibile, di tranquillo, è in buone mani.
Pochi minuti, voci concitate, la porta si apre. Anna! «Faccia passare, grazie.»
La barella che scivola di corsa su, al quinto piano, dove il d’urgenza diventa bisturi, forbici, tampone, nemmeno il tempo di darle un bacio, di sussurrarle: «Andrà tutto bene.»
«Vieni, Marzio. Aspettiamo al bar, davanti a un buon caffè.»
Suor Clelia. Gli erano sempre state sulle palle le suore, tutte tranne lei. Che di starsene con le mani in mano, a cincischiare con candeline e Ave Maria proprio non ne voleva sapere. Che la trovavi in reparto a tutte le ore, che gli dava del lei e lo chiamava ingegnere, col sorriso strafottente di chi ti vede sempre bambino, ma passava al tu quando paura e dolore bambino ti ci facevano tornare per davvero. «Vieni. Aspettiamo insieme.»
No, non ce l’avrebbe fatta. Ha bisogno d’aria, di camminare, di sentire l’odore di lacrime e foglie bagnate da quell’autunno disperato. Di fumare, dopo sei anni di vita sana, a cosa è servito se poi ti senti dire: «Ormai un polmone è andato, ma possiamo ancora sperare.»
Anna non aveva mai fumato.
Suor Clelia è un bel personaggio: ruvida, presente, umana. Il passaggio dal “lei” al “tu” è una trovata narrativa brillante, che mostra il legame profondo e non detto.
Marzio è devastato, ma non crolla. Cerca aria, cerca senso, come gesto di ribellione e disperazione. Il contrasto tra la sua vita sana e la malattia di Anna è straziante.



“E poi quella parola: d’urgenza. Che sa di condanna…”   C'è un doppio spazio dopo il punto.
aladicorvo wrote: Mon Aug 18, 2025 8:26 amDuecento metri, massimo trecento. Ospedale, parco dei Mille ed è subito stazione. Chi va e chi viene. Tutto ha un senso.
Si lascia accarezzare dallo scricchiolio dei passi sulla ghiaia. 
Anna l’amava quel parco. Era pieno di prime cose. Le loro prime cose. Il primo appuntamento, il primo bacio, il primo Sei uno stronzo, vattene, il primo Sposami, così avremo un posto dove litigare in pace.
Aiuole, platani, castagni, un bulldog che arranca dietro al padrone, povera bestia, che gusto ci sarà a prendere a padellate sul muso un cane indifeso? La natura a volte è crudele.
Anna, non te ne andare. Ma dove vuoi che vada, cretino.
Bambini che giocano, ragazzini sui pattini, panchine. Quella in particolare, la prima, verniciata di rosso.
Ce ne sono tante ormai, una per ogni donna massacrata dal vero amore. Un modo per non dimenticare, s’era detto, ma ormai sono parte del paesaggio. Verdi le foglie, rosse le panchine. Ci si abitua a tutto.
Le virgolette aiuterebbero a distinguere il dialogo interno: “…il primo ‘Sei uno stronzo, vattene’, il primo ‘Sposami, così avremo un posto dove litigare in pace’.”

“che gusto ci sarà a prendere a padellate sul muso un cane indifeso?”  Frase efficace, ma “padellate” è molto colloquiale e rende un'azione non realistica ma metaforica che potrebbe confondere.
aladicorvo wrote: Mon Aug 18, 2025 8:26 am«No, io ci lavoro. Sono uscita un momento per una boccata d’aria.» Guarda la sigaretta, sorride: «Per una boccata di catrame.» Affonda la mano in un sacchetto, tira una manciata di briciole e subito è una folla di gluglù, uno sbatter d’ali, a balzi e saltelli, Scansati, quella è mia! Avessero mani e piedi, sarebbe rissa, e forse lo è, ma nonostante l’andatura, sono meno scemi di quello che sembra. Mangiare. Il resto dopo.
Marzio gira la testa verso la mole bianca dell’ospedale, verso le finestre del quinto piano. Vorrebbe andare. Fa per alzarsi, ma la mano di lei sul polso lo ferma: «Rimanga, è ancora presto.»
Lui aggrotta la fronte, come lo sa?
«Le cose brevi si aspettano in corridoio. Quelle medie al bar. Le altre sono troppo difficili da sopportare e ci si ritrova fuori, dove la vita continua.»
«Eppure ho visto gente dormire in sala d’aspetto.»
«Sì, qualcuno lo fa. Probabilmente l’ha fatto anche lei. Ma non stavolta.»
Già, non riesce nemmeno a pensarlo, però lo sa: stavolta è diverso. Potrebbe essere l’ultima.
«Me l’immagino Suor Clelia, l’avrà guardato in faccia e avrà detto…»
«Suor Clelia, la conosce?»
«Certo, da quando ero una semplice tirocinante. M’ha tenuto in piedi quando avrei voluto schiantare e mi ha mandato avanti a calci nel sedere: «Datti da fare, ragazzina, i piagnistei tienili per dopo.»
«E lei…»
«Sono andata avanti. E guardi che nel mio lavoro non è facile.»
«Almeno voi potete fare qualcosa, invece di aspettare e basta.»
Briciole finite. 
La donna guarda i piccioni sciamare lontano. Tutti tranne uno che se ne sta accasciato in mezzo al vialetto. Trema, sussulta, cerca di muovere le ali. E alla fine resta lì. Un mucchietto grigio che non capisce, non sa, non è più niente.
«Avevo poco più di vent’anni» dice la donna. «L’ultima delle infermiere ne sapeva più di me, della morte, intendo. E davano ordini, istruzioni, in quest’ospedale il tirocinio funziona così. Mi avevano messo a Cardiologia e una sera arrivò un vecchio, quasi ottant’anni. Era l’undici settembre del 2001 e non aveva retto a vedere quella tragedia. "Questo seguilo tu" mi disse la caposala. "Non ne avrà per molto." Ma come? Senza nemmeno… mi girai, ma quella se n’era già andata.»
La donna tira fuori un’altra sigaretta, l’accende, tira un gran boccata. «Antonio si chiamava.» E a sentire quel nome, Marzio sente un brivido gelargli la schiena. Andarsene. Ora, subito! Ma le gambe non gli danno retta.
«Non l’avevano neanche spogliato» fa lei. «Se ne stava su quel letto ancora col pigiama, una ciabatta sì e l’altra no, per la fretta di farlo arrivare in tempo. Ché a farlo morire in casa, poi ci sente in colpa…»
«Ma in colpa di cosa, Cristodio?!» gli esce come un urlo.
La donna si gira, lo fissa e aggrotta la fronte. «Di non aver fatto il possibile, credo.»
Marzio respira fondo: «Certo, dev’essere così.» Prende anche lui una sigaretta,  ma le mani tremano e l’accendino non ne vuole sapere.
«Lasci, faccio io» dice lei e delicatamente avvicina la fiamma.
«Grazie.» Una boccata, un colpo di tosse, poi si alza: «Adesso, mi scusi, ma devo proprio andare.»
«Mi ha dato una lettera» continua lei. «L’ultima lettera che aveva scritto alla madre vent’anni prima.»
Marzio si blocca, torna a sedere.
«E la sa una cosa?» fa lei. «Quando si dice le coincidenze, riguardava proprio questa panchina e il caso di Denise. Se lo ricorda?»
Marzio annuisce con gli occhi spalancati e il cuore che martella dentro.
«L’aveva vista tentare di separare due ragazzi, prendersi per sbaglio una coltellata e rimanere lì, a morire sola come un cane, mentre quelli scappavano. Li aveva visti e uno l’aveva anche riconosciuto. Era suo nipote Marzio.»
«No!»
«Invece sì. E pensi che, per tutti quegli anni aveva taciuto. Per proteggerlo, capisce? Mentre quello se ne andava in giro a raccontare mucchi di bugie. E inveiva fingendosi offeso che lui potesse crederlo capace di uccidere. Perché, ne converrà, lasciar morire qualcuno senza fare niente, in fondo è la stessa cosa.»
«Non è vero, è tutta una cazzata!» urla lui con la voce stridula.
«Non mi crede?»
«E allora, sentiamo. Perché mai avrebbe dato un documento così importante a un’estranea?»
La donna si stringe nelle spalle: «Chissà, forse perché quando si sta per attraversare il ponte la mente cerca un appiglio per restare, uno qualunque.»
«Non ci credo!» urla Marzio, così forte che i passeri scappano dai rami, manco fosse stata una fucilata. «E comunque è stato un errore!»
La donna lo fissa: «Un errore, certo. Se ne fanno tanti.» Prende sigarette e accendino e li rimette nella borsa. «Come mettersi in mezzo a una rissa. A mia sorella è costata la vita.»
«Sua sorella? Che vuol dire?»
«Denise, la ragazza della panchina era mia sorella.»
Lui la guarda incredulo. Lei annuisce: «Le coincidenze, gliel’ho detto.» Si alza, prende la borsa. «Adesso però sono io che devo andare. Ho un intervento d’urgenza. Un caso oncologico piuttosto serio.»
Anna!
Marzio sente qualcosa di acido salirgli in gola, a mischiarsi con l’angoscia che gli leva il fiato. Anna! «E lei…» annaspa livido di rabbia «Lei, con un intervento d’urgenza se ne sta qui a… Ma non ha il minimo…»
La donna lo guarda con uno strano sorriso: «Cos’ha? Paura che la lasci morire sola come un cane? Tranquillo, non accadrà» dice. Fa per allontanarsi, si gira: «Ah, quasi dimenticavo: chieda della dottoressa Schuld.»
E lo lascia lì, a cercare di tener a bada tutta quella tempesta che gli vortica in
“Scansati, quella è mia!” sarebbe più chiaro con virgolette o corsivo, per distinguere il pensiero attribuito ai piccioni.
Il dialogo tra Marzio e la donna è una danza di rivelazioni e ferite. La scena si apre con leggerezza (i piccioni, le briciole), ma scivola rapidamente nel profondo, fino alla rivelazione finale: Denise era la sorella della donna, e Marzio è legato a quella morte.
Il senso di colpa, la responsabilità, la memoria, la coincidenza  tutto converge in un racconto che parla di umanità e redenzione.

“Prende anche lui una sigaretta, ma le mani tremano”  c'è un doppio spazio dopo la virgola.
aladicorvo wrote: Mon Aug 18, 2025 8:26 amCoincidenze, verità, bugie, Anna, la dottoressa Schuld. Perché dovrebbe chiedere di lei? Come sapesse.
E a quel punto tutto si ferma. Perché sarà lei ad affondare il bisturi nel suo corpo! Perché lei sa. Certo che sa!
Anna!
Marzio corre, le lacrime gli gelano la faccia. Corre e quasi travolge il cane col muso rincagnato, due bambine sui pattini e una carrozzina. Corre nella hall dell’ospedale e per il corridoio fino alla stanza, mentre la lettiga, proprio in quel momento, sta uscendo dall’ascensore e suor Clelia gli si para davanti.
«Aspetti, ingegnere. Ancora non può entrare.» Gli ha dato del lei! Allora è andato tutto bene! L’abbraccia, singhiozzando.
«Sì, è andato tutto bene» fa lei e intanto lo spinge dolcemente verso la sala d’attesa e lo fa sedere. «Adesso però se ne sta qui buono buono qui a ciucciarsi il suo caffè. O preferisce una cioccolata?» dice mentre fa tintinnare una monetina dentro il distributore.
«La dottoressa» fa lui.
«Certo, dopo però.»
«La dottoressa Schuld, voglio ringraziarla.»
«Chi, scusi?»
«Il chirurgo che ha operato mia moglie.»
«Guardi che l’ha fatto il dottor Migliorini e di Schuld in ospedale non se n’è mai visto uno.»
«Non è possibile, ci ho parlato fino a un quarto d’ora fa!»
«Appunto. Anna è stata dentro sei ore»
«Ma che dice? Sarò stato fuori mezz’ora, un’ora al massimo!»
«Sei ore, guardi l’orologio.»
16.15. Il display sul muro lo dice chiaro. Che sta succedendo?
«Anna è salita alle dieci. E dunque in nessun caso avrebbe potuto operarla. È proprio sicuro del cognome?»
«Me l’ha detto lei!»
A quel punto suor Clelia alza le sopracciglia e dà un’occhiata al crocefisso che le pende al collo, Non ti sembra di esagerare? Si stringe nelle spalle, si siede accanto a Marzio e gli prende la mano tra le sue: «Schuld hai detto, va bene. Ma tu lo sai cosa significa?»
«No, è un cognome e poi che importanza ha?»
«È una parola tedesca.»
Tedesca, certo come Denise, come…
«Significa colpa, debito, rimorso.»
Marzio chiude gli occhi, ma le lacrime hanno fatto prima e già gli colano sulle guance.
Gli torna in mente quel mucchietto di penne grigie ch’era rimasto per terra nel parco, a morire tutto solo, mentre gli altri se n’erano volati via.
Anna è salva. Denise no.
E lui nemmeno.
Schuld. È proprio quello il nome.
Quello e nessun altro.
La dottoressa… La dottoressa Schuld…  ripetizione utile per l' enfasi, ma si può rendere più fluida con: La dottoressa…Voglio ringraziare la dottoressa Schuld.

Il climax è gestito con precisione chirurgica. La corsa di Marzio, la paura, il sollievo, e poi il dubbio: chi era quella donna? La rivelazione che “Schuld” non è un medico, ma un simbolo, è un colpo di scena che trasforma tutto il racconto in una parabola sul senso di colpa e sulla memoria.

Non ho capito, però, perché deve essere la sorella di Denise. In realtà la sorella di Denise chi è? Forse, se la donna del parco fosse rimasta un'entità che appare perché elaborata dalla mente di Marzio, dal suo senso di colpa, avrebbe funzionato lo stesso. Io mi sono chiesta: Ma lei lo sa che Marzio ha lasciato morire la sorella? E perché non glielo dice? Insomma a me l'apparizione ha stimolato più dubbi che altro.

Il tuo racconto è un viaggio nell’anima, costruito con dialoghi serrati, immagini potenti e una rivelazione finale che ribalta completamente la prospettiva del lettore. La scrittura è viva, cinematografica, e ogni battuta porta con sé un peso psicologico e narrativo, dove il tempo si piega, la memoria si confonde e la verità affiora.
Attraverso la figura di Marzio, abbiamo seguito un percorso di redenzione che non ha nulla di eroico, ma tutto di umano: fatto di errori, omissioni, paure  e improvvisa consapevolezza. L’amore per Anna diventa il motore della sua storia, ma la colpa per aver lasciato morire Denise lo blocca e lo, costringe a guardarsi dentro. Il nome “Schuld” non è solo un colpo di scena: è il cuore simbolico del racconto. La colpa non si cancella, non si dimentica, ma può essere riconosciuta. E forse, solo allora, si può davvero ricominciare.
Complimenti @aladicorvo, solo a guardare il commento che ti ho fatto, e avrei voluto farti notare anche tutte le altre cose positive che mi sono tenuta nella penna, mi rendo conto di quanto tu abbia speso per questo racconto. Di certo non passa come acqua fresca. Alla prossima

Re: [CE2025] Un brav'uomo - Sequel di La prima panchina rossa di Poeta Zaza

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Ciao @aladicorvo,
bello che inizi il sequel con dei versi, oltre a voler richiamare lo stile, mi dà l'idea di una forma di rispetto nel prendere le redini di un racconto iniziato da altri.
Storia molto ben scritta e coinvolgente, ritmo e palpitazioni. Ho avvertito l'angoscia della possibile perdita.
Ottime le caratterizzazioni, suor Clelia è una chicca.
C'è da dire che rimango dubbiosa sul finale e per l'attenzione che metti nei tuoi testi, immagino sia voluta l'interpretazione lasciata ai lettori.
Di sicuro quella donna non era una dottoressa. Ma c'è stata veramente questa donna? A mio parere no, Marzio, travolto dalla paura della possibile perdita, ha potuto riflettere sulla sofferenza causata.
Credo tu dia degli indizi in tal senso, quando lui è convinto di essersi allontanato per un quarto d'ora e invece erano sei ore, ma anche quando la suorina chiede al suo Dio se non avesse esagerato.
Tuttavia la parola Shuld lui sembra non conoscerla, quindi... Non è del tutto un suo delirio? Questo mi lascia un po' spiazzata.
Quanto sopra non inficia di una virgola il racconto, perché mi starebbe bene anche se fosse finito in un'altra dimensione per esacerbare i suoi sensi di colpa nascosti da bugie.
Una cosa però non mi torna e in qualche modo credo dovrebbe essere spiegata. Se lo zio ha visto la scena, perché la ragazzina è morta da sola, lasciata lì? Un uomo che non ha mai perdonato la fuga del ragazzo, può egli stesso non avere fatto nulla?
Almeno una chiamata anonima. Questa parte mi stona. 
Il racconto nel complesso mi è piaciuto molto.
Buon contest.
<3

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