Laboratorio 17: L'antagonista
[Lab17] Fermare l'ombra
Il carcerato Bruno aveva tutti i difetti e i degradi possibili, ma di lui non si poteva dire mancasse di coerenza nei rapporti col suo prossimo. Che si trattasse di conoscenze dentro o fuori della prigione, pari lo valutavano, in un fronte di giudizio comune e lapidario: uno stronzo fatto e finito.
L'unico amico, rinchiuso in un altro Istituto di pena, lo definiva: duro ma giusto; mi ha insegnato tanto.
Bruno chiama la guardia carceraria per il compagno di cella Federico, pesto e sanguinante, privo di sensi.
"Cos'è successo?"
"Caduto dal letto e battuto spigolo del comodino, il coglione..." risponde indifferente lui. Da quando è in cella, ha preso ad esprimersi con sintassi minima.
"Vedremo: aspèttati tre giorni di isolamento" fa il sorvegliante chiamando l'assistente medico e registrando la scena, senz'altri testimoni.
Bruno sta scontando la pena per rapina a mano armata, fatta a volto coperto. Non ha ucciso nessuno, l'arma era caricata a salve, ma c'è stata una vittima: sua cognata, che ne aveva riconosciuto la voce mentre gridava: Tutti a terra, arraffando gioielli nell'oreficeria, ed è stata colta da infarto, dopo aver sussurrato: Bruno...
Sua moglie, Elvira, distrutta dal dolore per la morte della sorella, ha rifiutato di vederlo dal giorno del misfatto.
Oltre alla brutta sorpresa di scoprirlo in tale circostanza criminosa, anche se lo sapeva uomo collerico, irrispettoso di chiunque, egocentrico e pericoloso.
Elvira aveva subito le sue prepotenze per dieci anni: tristi nozze, senza figli, e pensare che questa fosse una fortuna diceva tutto. Eppure era rimasta al suo fianco, per un malinteso senso del dovere, forse.
Lui la scherniva e giustificava le angherie con la sua apatia e frigidità che lo provocavano.
Sbatti le uova con più foga, cogliona...
Ti tengo perché c'è posto.
Lei sapeva che andava a puttane e giocava forte a carte al suo club, puntando somme rilevanti. Aveva bisogno di soldi e Elvira non era buona neanche a fornirgliene un po'; non era stato un buon affare sposarla... una semplice maestrina. Perché l'aveva fatto? si chiedeva Bruno.
Forse il suo carattere gli ricordava sua madre, che resisteva al marito violento per lui, per il suo piccolo, ma l'aveva persa presto, e la sua strada era stata attraversata da cattivi maestri, che l'avevano trovato solo e sperduto.
A chi, in prigione, per primo, gli aveva chiesto per cos'era dentro, lui aveva risposto:
"Vieni, io mostro."
L'aveva preso per il collo: "Dammi soldi! Tutti!"
Non c'era stato un secondo recluso curioso di sapere com'erano andate le cose.
Adesso Bruno è davanti a Federico. Giocano a scacchi: è stato il primo, quando l'altro si è ripreso e hanno parlato delle botte sbagliate di giorni addietro, ad averne insegnato i rudimenti al secondo, che ora si è appassionato. C'è sempre gente a osservare le partite e ad imparare guardando, nelle ore in cui è a disposizione la sala comune.
Non si sente volare una mosca quando i due sono concentrati durante i punti nevralgici delle partite.
Quando Bruno muove il cavallo e lascia scoperta la regina, a Sergio il lungorecluso sfugge un fischio. Riceve un'occhiataccia che non prelude a niente di buono.
Elvira è davanti alla guardia carceraria che sta esaminando tutti gli effetti personali portati per il marito detenuto. Come moglie diligente, non manca di ritirare i panni sporchi e restituirglieli puliti, ma non va mai in sala visite. I sentimenti antichi che aveva provato per Bruno, e le ultime doti di pazienza e tolleranza per lui sono sepolti con la bara della sorella.
Oggi, le manca un battito al cuore quando la guardia rovescia il contenuto del barattolo del tabacco su un giornale per poi frugarlo e annusarlo. Lei ha l’aria sicura e tranquilla di chi sta facendo, nonostante tutto ciò che è accaduto, il suo dovere di moglie. Ma non vuole vederlo, quello se lo vuole risparmiare. Chiede gentilmente se possono consegnarlo loro il “pacco”. Affermativa la risposta. Elvira esce, asciugandosi il sudore dal viso, nonostante la bassa temperatura.
Mischiata al trinciato per pipa, la polvere del solfato di tallio, inodore e insapore, scurita, si mimetizza, come aveva appreso da un suo nuovo amico. Ah, se l’avesse conosciuto prima!
Inalare giorno dopo giorno quel composto lo dovrebbe portare rapidamente, ma non troppo, alla morte, dopo sintomi assolutamente non riconducibili d'emblée alla causa scatenante. Se non lo cerchi, il tallio, non lo trovi. E, anche trovato, è più facile pensare che lo abbia ingerito con liquidi o cibo. Risalire al trinciato, magari finito? A chi l’ha portato? Praticamente impossibile.
Rincrescimenti? Due: che lui muoia senza sapere per mano di chi, né il perché. E senza soffrire come meriterebbe.
Bruno si gusta le prime boccate dall'amata pipa, che la diligente moglie gli ha fatto recapitare in carcere.
Devo rivalutare la mia cogliona... pensa seriamente, mentre sorride tra sé e sé.
[Lab17] Fermare l'ombra
Il carcerato Bruno aveva tutti i difetti e i degradi possibili, ma di lui non si poteva dire mancasse di coerenza nei rapporti col suo prossimo. Che si trattasse di conoscenze dentro o fuori della prigione, pari lo valutavano, in un fronte di giudizio comune e lapidario: uno stronzo fatto e finito.
L'unico amico, rinchiuso in un altro Istituto di pena, lo definiva: duro ma giusto; mi ha insegnato tanto.
Bruno chiama la guardia carceraria per il compagno di cella Federico, pesto e sanguinante, privo di sensi.
"Cos'è successo?"
"Caduto dal letto e battuto spigolo del comodino, il coglione..." risponde indifferente lui. Da quando è in cella, ha preso ad esprimersi con sintassi minima.
"Vedremo: aspèttati tre giorni di isolamento" fa il sorvegliante chiamando l'assistente medico e registrando la scena, senz'altri testimoni.
Bruno sta scontando la pena per rapina a mano armata, fatta a volto coperto. Non ha ucciso nessuno, l'arma era caricata a salve, ma c'è stata una vittima: sua cognata, che ne aveva riconosciuto la voce mentre gridava: Tutti a terra, arraffando gioielli nell'oreficeria, ed è stata colta da infarto, dopo aver sussurrato: Bruno...
Sua moglie, Elvira, distrutta dal dolore per la morte della sorella, ha rifiutato di vederlo dal giorno del misfatto.
Oltre alla brutta sorpresa di scoprirlo in tale circostanza criminosa, anche se lo sapeva uomo collerico, irrispettoso di chiunque, egocentrico e pericoloso.
Elvira aveva subito le sue prepotenze per dieci anni: tristi nozze, senza figli, e pensare che questa fosse una fortuna diceva tutto. Eppure era rimasta al suo fianco, per un malinteso senso del dovere, forse.
Lui la scherniva e giustificava le angherie con la sua apatia e frigidità che lo provocavano.
Sbatti le uova con più foga, cogliona...
Ti tengo perché c'è posto.
Lei sapeva che andava a puttane e giocava forte a carte al suo club, puntando somme rilevanti. Aveva bisogno di soldi e Elvira non era buona neanche a fornirgliene un po'; non era stato un buon affare sposarla... una semplice maestrina. Perché l'aveva fatto? si chiedeva Bruno.
Forse il suo carattere gli ricordava sua madre, che resisteva al marito violento per lui, per il suo piccolo, ma l'aveva persa presto, e la sua strada era stata attraversata da cattivi maestri, che l'avevano trovato solo e sperduto.
A chi, in prigione, per primo, gli aveva chiesto per cos'era dentro, lui aveva risposto:
"Vieni, io mostro."
L'aveva preso per il collo: "Dammi soldi! Tutti!"
Non c'era stato un secondo recluso curioso di sapere com'erano andate le cose.
Adesso Bruno è davanti a Federico. Giocano a scacchi: è stato il primo, quando l'altro si è ripreso e hanno parlato delle botte sbagliate di giorni addietro, ad averne insegnato i rudimenti al secondo, che ora si è appassionato. C'è sempre gente a osservare le partite e ad imparare guardando, nelle ore in cui è a disposizione la sala comune.
Non si sente volare una mosca quando i due sono concentrati durante i punti nevralgici delle partite.
Quando Bruno muove il cavallo e lascia scoperta la regina, a Sergio il lungorecluso sfugge un fischio. Riceve un'occhiataccia che non prelude a niente di buono.
Elvira è davanti alla guardia carceraria che sta esaminando tutti gli effetti personali portati per il marito detenuto. Come moglie diligente, non manca di ritirare i panni sporchi e restituirglieli puliti, ma non va mai in sala visite. I sentimenti antichi che aveva provato per Bruno, e le ultime doti di pazienza e tolleranza per lui sono sepolti con la bara della sorella.
Oggi, le manca un battito al cuore quando la guardia rovescia il contenuto del barattolo del tabacco su un giornale per poi frugarlo e annusarlo. Lei ha l’aria sicura e tranquilla di chi sta facendo, nonostante tutto ciò che è accaduto, il suo dovere di moglie. Ma non vuole vederlo, quello se lo vuole risparmiare. Chiede gentilmente se possono consegnarlo loro il “pacco”. Affermativa la risposta. Elvira esce, asciugandosi il sudore dal viso, nonostante la bassa temperatura.
Mischiata al trinciato per pipa, la polvere del solfato di tallio, inodore e insapore, scurita, si mimetizza, come aveva appreso da un suo nuovo amico. Ah, se l’avesse conosciuto prima!
Inalare giorno dopo giorno quel composto lo dovrebbe portare rapidamente, ma non troppo, alla morte, dopo sintomi assolutamente non riconducibili d'emblée alla causa scatenante. Se non lo cerchi, il tallio, non lo trovi. E, anche trovato, è più facile pensare che lo abbia ingerito con liquidi o cibo. Risalire al trinciato, magari finito? A chi l’ha portato? Praticamente impossibile.
Rincrescimenti? Due: che lui muoia senza sapere per mano di chi, né il perché. E senza soffrire come meriterebbe.
Bruno si gusta le prime boccate dall'amata pipa, che la diligente moglie gli ha fatto recapitare in carcere.
Devo rivalutare la mia cogliona... pensa seriamente, mentre sorride tra sé e sé.