Quello che aveva davanti agli occhi non era logico, era senza senso...
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Quello che aveva davanti agli occhi non era logico, era senza senso... il cielo era sbagliato. Non c’erano palazzi, né auto, né il rumore costante della città. Solo terra battuta, un vento secco, e un cartello di divieto: RESTRICTED AREA - MILITARY BASE.
Base Militare? L’attimo prima era a Genova, diretta al solito Fast Food per la pausa pranzo… questo, che accidenti di posto era? E come ci era arrivata?
* * * * *
Mi sollevai lentamente, la testa pesante, le mani sporche di polvere.Avevo addosso un cappotto ruvido, le scarpe strette, niente cellulare, niente borsa. Solo me stessa in un posto che non riconoscevo. Mi misi in piedi confusa, e seguii la strada sterrata, quella che il divieto indicava di non percorrere, attirata da un rumore metallico che si faceva più vicino.
Un camion militare passò davanti a me sollevando una nuvola di polvere. Era come quelli visti nei documentari: ruote spesse, cofano alto, uomini in uniforme con fucili a tracolla. Mi fissarono per un attimo, ma tirarono dritto. Poco più avanti c’era un’insegna: FORT RILEY MILITARY BASE.
Uomini in divisa correvano avanti e indietro, trasportando casse, secchi, teli. Alcuni tossivano. Altri avevano il viso sudato, segnato. Li osservai, sconcertata, finché non incrociai una delle bacheche in legno piantate sul bordo del campo. Lessi lentamente. Fort Riley. Kansas. 11 marzo 1918.
1918. Mi si chiuse lo stomaco.
Collegai che cosa fosse Fort Riley e il 1918. Durante la pandemia avevo letto parecchio sull’argomento, e la spagnola era sicuramente stata la regina nera delle pandemie moderne. Sapevo cosa sarebbe accaduto in quel luogo. Il primo focolaio. Sarebbero morte milioni di persone.
E io ero davvero qui? Come? Perché? Era un’allucinazione?
Non lo era. Perché il piccolo pezzo di vetro che raccolsi e conficcai con forza nel braccio, provocò dolore e sangue. Per caso, per miracolo o per punizione, io ero qui.
Mi tastai le tasche. Nessun documento, solo un fazzoletto e un bottone. Avevo visto abbastanza action movie da sapere che non avrei dovuto attirare l’attenzione, e non fare o dire cose che non sarebbero state congrue con quest’epoca. Per prima cosa, non avrei mai potuto passare per americana. Masticavo un po’ di inglese, sì, ma a livello scolastico: riuscivo a comprendere abbastanza lo scritto, ma parlarlo era un’altra cosa. Cercai di ricordare quando si erano verificati i flussi migratori dall’Italia agli Stati Uniti. Ma anche per quello, la scuola era un ricordo abbastanza lontano. Però sapevo che IL PADRINO era ambientato nel 1945, e calcolai che potevo anche essere credibile come immigrata italiana.
Camminai verso il centro del campo cercando di imitare l’andatura di chi mi passava accanto. Nessuno mi fermò, forse perché ero donna, forse perché ero abbastanza sporca da diventare parte del paesaggio.
Un capannone in legno, poco più avanti, puzzava di sudore e di disinfettante. Sentii un colpo di tosse secco, poi un altro, e vidi due uomini trasportare un ragazzo su una barella. Il suo viso era paonazzo, le labbra livide.
Mi avvicinai senza un piano preciso. Una donna uscì dalla tenda: i capelli raccolti sotto una cuffia bianca, lo sguardo attento e le mani nervose. Mi fissò per un secondo. Il mio istinto mi disse di abbassare lo sguardo. Non risposi quando mi parlò. Finsi di non capire. Al secondo tentativo, le feci il segno di scrivere, e lei tirò fuori un lapis e un taccuino. Scrissi la frase "must" del perfetto sfigato viaggiatore, con una piccola aggiunta: “I don’t speak english. I’m italian. I’m mute.” Se non potevo parlare c’erano minori possibilità di essere scoperta.
Lei mi osservò di nuovo. Qualcosa nel suo sguardo cambiò: forse pietà, forse sollievo per non dover discutere con me. Mi fece segno di seguirla.
Dentro, il caldo era soffocante. Corpi stesi su letti di fortuna, alcuni tremavano, altri sembravano già oltre. Sentii il cuore battere forte nel petto. Guardai il viso di un ragazzo. Era bagnato di sudore, ma tremava. La fronte bollente. Gli occhi sbarrati. Il respiro corto. Non avevo bisogno di altro per capire. Forse era il paziente zero. O uno dei primi. Era già cominciata.
Mi aggirai tra le brande aiutando dove potevo, pulendo con pezze umide, riempiendo brocche d’acqua. L’infermiera non mi parlava quasi mai, ma mi lasciava fare. Mi bastava. Perché più osservavo, più capivo quanto poco tempo ci fosse. Ogni tosse, ogni febbre, ogni contatto diretto poteva essere un disastro. Loro non lo sapevano. Ma io sì.
Passai la notte a pensare a come farmi capire. Nessuno lì credeva davvero che quella febbre potesse diventare qualcosa di più. Era solo influenza, dicevano. Stanchezza, clima, stress da addestramento. Ma io avevo visto le linee dei grafici, le fosse comuni, le maschere rudimentali con cui cercavano di salvarsi. Come potevo restare a guardare?
Il giorno dopo, mentre l’infermiera sistemava delle bende, mi avvicinai con un pezzo di stoffa tra le mani. Le indicai la bocca, poi cercai di metterglielo sul volto. Lei si tirò indietro, confusa. Scrissi su un pezzo di carta: Protegge. Tosse. Respiro. Scosse la testa. Provai ancora: Isolare i malati. Non mischiarli. Ma attorno a me ridevano. Due medici si scambiarono uno sguardo ironico, come a dire che ero una pazza muta che scriveva cose incomprensibili.
Pensai che avessero già deciso di ignorarmi, quando un ragazzo con la divisa allentata si avvicinò. Aveva tratti mediterranei, e un accento con inflessioni italiane quando parlava inglese. Mi guardò negli occhi. Disse solo: “Tu sei come mia nonna. Pure lei faceva così.” Prese il pezzo di stoffa che gli porgevo e se lo legò sul volto. Io annuii. Non potevo spiegargli chi ero, ma al momento bastava quello.
Il suo nome era Mike, lo seppi più tardi. Cominciò a parlarmi ogni giorno, come se potessi rispondergli, e in un certo senso lo facevo. Scrivevo, disegnavo, indicavo. Quando chiese all’infermiera di spostare alcuni dei casi peggiori in una tenda separata, lei accettò. Era una delle poche zone non sovraffollate, usata solo per le scorte. Mike aiutò a spostare i letti e fece da tramite con l’infermiera, che non parlava molto, ma iniziava a fidarsi.
Avevano cominciato a guardarmi in modo diverso: riuscii anche a far tenere aperto l’ingresso, in modo che ci fosse sempre aria pulita.
Un giorno notai il medico che sistemava nell’armadietto una nuova scorta di farmaci e iniziava a preparare le dosi. Mi avvicinai: Aspirina. Ricordai che c’era stato un abuso di aspirina, l’unico farmaco disponibile. Era vero che abbassava la febbre, ma somministrata in dosi eccessive, aveva contribuito alla mortalità causando danni ai polmoni. Mi feci coraggio e scrissi sul mio taccuino: “How many…?”. Il medico mi guardò con un’espressione un po’ strana, ma rispose lentamente, per facilitarmi la comprensione. “Forty grains, every three hours”. Sì, avevo capito, ma… grani… Avevo letto che era la misura utilizzata per i farmaci all’epoca, ma di certo non potevo ricordare la conversione in grammi.
Corsi a cercare Mike, e quando mi disse circa venti grammi al giorno, lo presi per mano e lo trascinai dal medico. Fu un’impresa cercare di fargli capire: gli feci dire che era pericoloso per i polmoni, ma ovviamente non aveva intenzione di credermi. Allora lo portai nella tenda e gli feci notare tre pazienti trattati con aspirina, che avevano forti difficoltà a respirare e vomito. Altri due, che non avevano ancora ricevuto la dose perché esaurite le scorte, avevano sì, la febbre alta, ma respiravano regolarmente.
“Three days”, mi concesse accigliato: tre giorni per dimostrare la mia teoria.
I due ragazzi migliorarono: con la giusta quantità di Aspirina la febbre scese. Uno degli altri tre morì.
In quella tenda, il contagio si fermò. Chi era già infetto peggiorava, sì, ma gli altri no. Nessuno dei nuovi si ammalava. Bastarono due giorni per vedere la differenza. Era solo un inizio, ma io lo sentivo: avevo aperto una breccia. E se continuavo a insistere, forse, quella breccia poteva allargarsi.
Mike mi chiese come sapessi quelle cose, e io cercai di spiegargli la mia mezza verità: che focolai di questo genere c’erano stati anche in Italia, e quindi perché non anche in altre parti del mondo? Non poteva sapere a quale pandemia mi riferivo.
Ma non durò a lungo. Quando le cose iniziano a cambiare, qualcuno se ne accorge sempre. E non tutti apprezzano, soprattutto se viene minata in qualche modo la leadership.
Una mattina, mentre aiutavo Mike a sistemare nuove brande nella tenda isolata, arrivò un ufficiale. Alto, sguardo rigido, il tipo che non ascolta, ordina e basta. Parlò con voce secca, troppo veloce perché capissi tutto, ma bastò un gesto con la mano per capire: voleva che me ne andassi.
Mike provò a rispondere, calmo, ma deciso. L’ufficiale gli si avvicinò e lo zittì con un’occhiata. L’infermiera uscì dalla tenda con passo fermo e si mise accanto a me. Parlò anche lei. Puntava il dito verso le cartelle, i registri. Poi indicò i letti. Lì, i malati gravi non avevano contagiato nessuno. La prova era davanti agli occhi di tutti. Ma lui non voleva saperne. Disse solo che non ero autorizzata, che stavo creando confusione, che un campo militare non era un ospedale di carità. Mi fecero uscire dalla tenda. Non mi portarono via, ma il messaggio era chiaro: un altro passo falso e mi avrebbero buttato fuori.
Quella notte cominciai a tossire. All’inizio era solo un pizzico in gola, poi febbre, e brividi. Mike mi trovò accasciata vicino al magazzino. Mi caricò di peso e mi portò dentro, nell’ultima branda libera. Avevo paura. Della malattia, ma anche di fallire.
Passai tre giorni in un torpore febbrile. Ricordo mani fresche sulla fronte, l’infermiera che mi forzava a bere, la voce bassa di Mike che parlava anche se non sapevo cosa dicesse. Usarono con me tutto ciò che avevo suggerito: isolamento, stoffa sul volto, lenzuola cambiate ogni giorno. Quando la febbre calò, avevo ancora il fiato corto, ma la mente lucida. Non solo ero viva, ma avevo dimostrato che quello che proponevo poteva funzionare.
Al mio risveglio, l’ufficiale non si fece vedere. Ma notai qualcosa di diverso. Più teli sulle bocche. Più ordine. Più distanza. Odore forte di candeggina.
Avevo pagato per farmi ascoltare. Ma avevano ascoltato.
Quando riuscii a rimettermi in piedi, il campo non era più lo stesso. Non si potevano certo chiamare protocolli medici, ma le tende erano divise meglio, i soldati gravi isolati, e quasi tutti avevano del tessuto legato sul viso. Sparse per il campo, postazioni con acqua e sapone. Nessuno parlava di me, nessuno mi ringraziava, ma bastava guardarsi intorno per capire che molti comportamenti erano diventate abitudini.
Mike rimaneva il mio angelo custode, difficilmente mi lasciava da sola. Un giorno mi mise in mano un quaderno. “Scrivi tutto,” disse. “Come si fa. Cosa serve. Scrivilo in italiano semplice, io lo tradurrò. Vogliamo trasmetterlo a tutti i presidi militari, ma anche a quelli civili, e in tutto il mondo.”
Mi sedetti sulla soglia della tenda e cominciai a scrivere. Isolare i malati. Lavarsi spesso. Maschere. Niente contatti diretti. Niente condivisione di oggetti. Arieggiare. Cambiare le lenzuola. Controllare la febbre. Aspirina massimo 300 grani in 24 ore. Bruciare ciò che non si può disinfettare se chiaramente compromesso. Non aspettare.
Scrissi cercando parole comprensibili, come se stessi parlando con un bambino. Mike lo prese con cura, lo chiuse in una tasca interna della giacca. “Ora non sei più solo tu. C’è anche questo, e lo sapranno tutti: se non lo metteranno in pratica non sarà per volontà di Dio.”
Pensai di ribattere che il suo Dio non avrebbe dovuto permettere che tutto questo iniziasse, ma detta da un’atea, sarebbe stata una frase talmente scontata da diventare banale e irrispettosa. Inoltre… io ero qui e non avrei dovuto esserci. E tutto l’aiuto che si poteva trovare era il benvenuto.
La notte successiva, il cielo era pieno di nuvole basse. Nessun rumore, se non qualche colpo di tosse sparso nel campo. Avevo come la sensazione che il tempo si fosse fermato. Mi alzai dalla branda e mi vestii lentamente, poi uscii in silenzio. Nessuno mi vide. Sentii prima un brivido, poi un rumore ovattato nelle orecchie. E dopo il buio.
Mi svegliai con la luce filtrata dalle tapparelle e il rumore del traffico lontano. Il respiro calmo, la gola riarsa. Odore di disinfettante, ma nessuna tenda. Solo il lenzuolo stropicciato e il battito accelerato che non voleva rallentare. Ero chiaramente in ospedale, e all’improvviso ricordai cos’era successo: uno scooter mi aveva investito sulle strisce pedonali.
Cercai il telefono sul comodino. Funzionava. L’orologio segnava la data giusta. Ero tornata.
Mi permisi di rilassare ogni muscolo che conoscevo: così era stato un sogno… Un sogno che il mio subconscio doveva avere in qualche modo associato all’incidente. Consapevole di questo, dovetti portare una mano allo stomaco, dove un leggero dolore e il disappunto si facevano spazio fra le costole tumefatte: era delusione, quella?
Sentivo ancora la traccia di quell’energia che nel sogno mi spingeva ad agire, a lottare per qualcuno che neppure conoscevo. A lottare per tutti. Era come se avessi lasciato indietro una parte di me, e che quella parte che si era risvegliata dal sogno, si sentisse defraudata e inutile.
Quando l’infermiera venne a controllarmi, disse che avevo solo una leggera commozione cerebrale, e che, se tutto fosse andato bene, fra due giorni mi avrebbero dimessa. C’era un grande mazzo di fiori sul tavolino della camera. Chiesi incuriosita chi li avesse mandati.
“Li ha portati il ragazzo che l’ha investita, era molto dispiaciuto.” disse, consegnandomi il biglietto che accompagnava i fiori.
-Mi dispiace molto per quello che hai dovuto passare, ma grazie -Sorrisi per la strana scelta di parole, e per quella sfrontata familiarità da ragazzino. Girai il cartoncino e con sgomento guardai la firma: Michele Spagnolo.
Spagnolo. Spagnola.
Michele. Mike.
Appena arrivata a casa passai ore al computer, con le dita tremanti. Fort Riley, marzo 1918. Cercai tutto quello che potevo. Rapporti, lettere, articoli, archivi. La maggior parte dei documenti parlava di un’epidemia partita in modo improvviso, ma contenuta in alcuni settori del campo. Nessuna spiegazione chiara. Solo un trafiletto su un giornale militare:
«Una donna non identificata, forse italiana, probabilmente muta, ha assistito i malati nella Tenda 12. Si dice abbia introdotto semplici precauzioni che limitarono i contagi. Sparì durante la notte, lasciando solo un quaderno.»
Poi trovai un riferimento più tecnico, dentro un report universitario del dopoguerra. Parlava dell’invio di un messaggio via radio da Fort Riley a varie postazioni militari alleate, tra marzo e aprile 1918. Una lista di istruzioni da trasmettere anche alle autorità civili dei vari paesi ospiti: isolamento dei malati, copertura della bocca, igiene delle mani, non condividere oggetti, disinfettare tutto, poca Aspirina. Erano misure basilari, ma in anticipo di mesi su qualunque altra direttiva ufficiale.
Uno studio epidemiologico pubblicato cento anni dopo stimava che quelle indicazioni, adottate anche solo parzialmente in Europa e nelle Americhe, avevano rallentato la diffusione del virus. E salvato tra uno e due milioni di vite.
Lo lessi due volte. Mi appoggiai allo schienale e chiusi gli occhi.
E, per la prima volta, non ebbi bisogno di parlare per sapere chi ero davvero.