Giunse l’ora in cui il Signore lasciò il suo servo andar via,
affinché seguisse la Sua parola.
Luca, 2,29
Si accostò alla finestra poggiando la testa sulla tenda di lino candido: inspirò a lungo, e il profumo della lavanda le riportò alla memoria il viso della mamma, mentre la sera invadeva la via e s’allungavano, tra le palazzine spoglie, i colori del tramonto.
I bambini giocavano per strada, attardandosi: Luce a rincorrer Sandro, Lia e Livia rapide a fuggir in bicicletta, i più grandi a tirar calci alla palla a valle d’una porta immaginaria. Di quei figli, figli dei prospetti cogli intonaci malmessi, delle ringhiere invariabilmente rugginose, degli androni senza ascensori funzionanti, sapeva di ciascuno il nome, e delle loro famiglie la quotidiana fatica.
Tirò via la tenda, per aprire le imposte, e la sentì arrivare: la prima ora della notte.
Lanciò un grido abbasso, per chiamare a raccolta i fratelli, mentre le note malinconiche di Io che amo solo te si diffondevano nella casa. Suo padre la metteva sempre quando tornava dal lavoro, e si concedeva una doccia calda prima della cena.
Mi ricorda Elena, si scusava sempre.
Aveva soltanto ventidue anni Adele, ed era rimasta, dopo la morte della mamma, a far da madre ai suoi fratelli più piccoli, Enrico ed Elisa, e ad aiutare il papà.
Che lavorava tutto il santo giorno per permettere loro una vita dignitosa.
A un certo punto le domandò perché ancora non fossero rincasati.
Adele smorzò un sorriso e scrollò le spalle. «Aspettano te per essere recuperati.»
Si guardò in giro, a passare in rivista gli oggetti della piccola sala.
Alcuni, lo ricordava, li aveva comprati assieme alla mamma, alla fiera del sabato a Monte San Giuliano.
Prese una pezza, mentre si domandava da dove potesse arrivare tanta polvere.
E pensò a quanto fosse strano, in quegli anni il non aver mai pensato di potersene separare: al contrario, a volte le pareva quasi di appartener lei a quella casa e a quanto si trovava dentro.
«Novità?» Chiese il papà.
E iniziò a darle una mano in cucina, mentre i piccoli si lavavano in bagno continuando le loro allegre chiassate.
«Il professor Maccagnano finalmente mi ha fatto una proposta: a dicembre si apre una finestra. Dovrei completare i due esami per la magistrale a Helsinki e rimanere là per il dottorato. Lui mi ha assicurato che esiste una possibilità reale.»
«Helsinki? Helsinki... È lontanissimo» rimuginò ad alta voce il papà, un fil di voce appena, e al tempo stesso un sorriso fiero gli illuminò il volto.
«Ma hanno uno dei migliori dipartimenti di paleo antropologia d’Europa. Quando mi capiterà un’occasione del genere?»
«E allora vai. Pensa al tuo futuro. Sei la prima della famiglia ad essere arrivata alla laurea. La mamma sarebbe fiera di te. Noi ce la caveremo, non stare a preoccuparti.»
«E come? Come ve la caverete? Chi baderà ai bambini, chi li prenderà da scuola, chi gli farà fare i compiti, chi preparerà loro da mangiare? Chi si occuperà di voi? Mi trovo in una situzione ambigua, equivoca, poco chiara.»
«Ogni scelta solleva in noi dei dubbi, ogni via sconosciuta presenta dei lati oscuri. Ma bisogna avere fiducia in chi ci vuole aiutare. Perciò a noi non pensare, in qualche modo ci arrangeremo. E poi c’è la signora Carla, la conosci, muore dalla voglia di poterli avere tutti per sé. Tu invece devi pensare solo a te stessa, e al tuo futuro.»
«Però soprattutto all’inizio, non so fino a che punto là potrei essere indipendente. Non voglio pesarvi, le incognite sono tante. E se l’ipotesi del dottorato restasse tale? Sarebbe una sconfitta, dovrei tornare con le pive nel sacco.»
Abbassò lo sguardo, sconfortata. E lui le si avvicinò per zittirla.
L’abbracciò, la rincuorò, le sussurrò a un orecchio di non stare a preoccuparsi, le fece coraggio, la rassicurò dicendole che ce l’avrebbero fatta, che quel distacco, per quanto doloroso, lo avrebbe dovuto compiere, prima o poi, e che non stesse a preoccuparsi dei soldi. Le raccomandò di mettere bene le carte in tavola col professore, per evitare ogni equivoco.
Furono interrotti dai bambini, il loro ingresso in cucina simile a un’irruzione, lesti ad avvinghiarsi a loro in un soffocante abbraccio.
E la piccolina, afferrata la sorella per il collo, faceva la voce grossa per esser tirata su, e giù, e poi di nuovo su, e ancora.
«Sei la vita mia» le sussurrò Adele, con una lacrima calda a scivolarle dal viso.
Non li aveva solo visti, ma fatti crescere, erano loro la sua famiglia. Ma, tutto deve cambiare.
Gliel’aveva ripetuto anche Serena, la sua migliore amica e unica confidente, sino alla sera avanti.
Le aveva detto di doversi rassegnare a questo genere di cambiamento, perché le cose non potevano rimanere sempre eguali, e lei doveva farsi forza per crescere, e andar avanti da sola, colle sue sole forze, sulle proprie gambe.
«Adele, che aspetti? A tavola è pronto» la chiamava il papà, destandola dai suoi rimorsi.
E si disse che Serena aveva ragione.
Di quella vita, in fondo, lei s’era stancata. Ogni giorno a dover badare ai bambini, a svegliarli e preparare loro la colazione, ad accompagnarli a scuola. E poi correre all’università, e ancor più di fretta tornare, prima la metro e poi col bus, e far la spesa, rassettare casa, inventarsi la cena. Ogni santo dì dell’anno.
Senza mai un momento per sé.
Eccetto i pomeriggi dei fine settimana, in cui aveva trovato lavoro nella boutique della signora Elsa, per poter avere qualcosa da spendere in più per i libri, non certo per divertirsi colle amiche. Un’esistenza ingessata, a volte soffocante; ma ora, proprio adesso, mentre s’apprestava a lasciarla, non la trovava poi del tutto indesiderabile.
Provò a farsi forza e pensò alla vita di Serena: usciva quasi ogni sera lei, e viveva con leggerezza, gliela si poteva leggere in faccia la sua felicità, la facilità con cui viveva la vita.
Perché tutti hanno diritto alla felicità, non è così che si dice? Non è forse un mio diritto?
Ogni sera a domandarsi quando sarebbe mai iniziata la sua vita.
Quando avrò mai il tempo di frequentare un ragazzo, l’opportunità di svagarmi un po’; quando inizierò a pensare solo, e finalmente, a me stessa?
Ma si può pensare solo a se stessi? E non bisognerebbe invece prendersi cura di tutto ciò che ci circonda?
A Helsinki, ne aveva la certezza, avrebbe potuto esplorare un altro modo di vivere. E approfondire quegli studi da cui si era sempre sentita attratta, fin da ragazzina: con la prospettiva di un dottorato di ricerca, e magari, in futuro, di una cattedra universitaria: ciò significava indipendenza economica, una casa tutta sua, di conseguenza prestigio sociale e quindi il rispetto della gente.
Prima di quelle degli altri vengono le mie esigenze.
Oltre la soglia intravedeva la possibilità di pensare solo a sé, e le sere libere, le infinite probabilità: di conoscere qualcuno e di potersi costruire una vita propria, indipendente, piena, felice, facile.
Ecco, devo inseguire la mia felicità, i miei sogni, la mia realizzazione.
Era questo il punto dirimente? L’esser sciolta da ogni incombenza se non quella di pensare a sé sola?
E tuttavia, come faccio con papà, coi piccoli? Quale sorte toccherebbe loro? La mia felicità potrebbe causare la loro infelicità, accrescere le loro difficoltà. Sono già orfani e papà a casa non c’è mai.
Sarebbero rimasti a Torre Angela?
I fratellini di certo, ma senza più il mio conforto, il mio aiuto.
C’era la signora Carla, è vero.
E papà, papà chissà quali salti mortali sarà costretto a fare; ma lui è forte, una roccia.
E lui l’aveva rassicurata più volte, nei giorni seguenti, le aveva ripetuto, sino alla nausea, di non preoccuparsi dei fratelli né tantomeno di lui.
Le aveva detto che non era la responsabilità di una figlia quella, ma di un padre, e aveva ragione.
È la sua croce, non la mia.
Quante volte pure lei se l’era ripetuto, per farsi forza.
Dopo cena aveva messo a letto i bambini, come ogni sera non ne volevano sapere di staccarsi dalle sue braccia, soprattutto dal giorno in cui la mamma era volata via. Suo padre, era crollato sul divano, davanti allo schermo acceso. Lo svegliò.
Le diede un bacio sulla fronte e l’abbracciò. Pareva preoccupato, ma contento.
Ogni mattina si alzava alle quattro per arrivare puntuale in fabbrica alle sette.
Sgombrato il tavolo Adele iniziava a studiare. A notte fonda, quando si sentì troppo stanca per continuare, si fermò ad ascoltare la casa avvolta dal silenzio.
E per un attimo a rammemorarsi di quel giorno, di sua madre ancora viva: tutti e cinque usciti per una gita al mare, al promontorio di Sant’Arcadio. Lei col cappello della mamma, per far ridere i bambini, suo padre a portarli in acqua, sul materassino gonfiabile.
Tutti i loro visi, sorridenti e perfetti, li avrebbe portati per sempre nel cuore.
Non saremo mai più tutti insieme felici, ma ognuno per conto proprio.
Era questo il dazio da pagare alla propria indipendenza.
Si appoggiò colla testa alla tenda di lino, e di nuovo la lavanda le ricondusse la mamma vicino.
Quante volte aveva cercato di dimenticare, per non soffrire. Quante volte aveva tentato di sopire il ricordo di lei, di nasconderlo agli occhi celarlo alle orecchie.
Ma estirpare il ricordo di qualcuno non equivale forse a farlo morire un’altra volta?
Nel silenzio della notte, perduto tra il sibilo del vento e il latrare dei cani, affiorava, lontanissimo, un motivo suonato da una chitarra. Lo riconobbe.
L’aveva sentito quando aveva fatta la promessa a sua madre: di occuparsi della famiglia, dei bambini, del papà, il più a lungo possibile.
Rivide la mamma sul letto di morte, e si sentì soffocare.
All’ombra della sua vita sono cresciute le mie insicurezze.
La tua è stata una vita banale, mamma, fatta di sacrifici banali, e ti sei spenta dopo una banale malattia. Non voglio questo per me! E con quale diritto mi hai chiesto di rimanere il più a lungo possibile? Per continuare con la mia vita l’inutilità della tua?
Si allontanò dalla tenda, da quei ricordi, livida di furore.
Devo andar via! E fuggire, fuggire da questa esistenza asfissiante. A Helsinki troverò la vita.
E lei vuole vivere, intensamente, e amare, fino a rimaner senza respiro.
Io, a differenza di mia madre, mi salverò.
Alla fine il giorno della partenza giunse, e si trovò in mezzo alla folla ondeggiante del Terminal B, come un naufrago in mezzo ai flutti.
Il papà le stringeva la mano e ostentava un sorriso dietro cui celava la fierezza per quella figlia capace di farsi valere nel mondo. I piccoli li aveva affidati alla signora Carla, per evitare scene strazianti di addio in pubblico, consumate, invece prima, nel privato di quattro mura. Ma, a modo loro, avevano saputo incoraggiare la sorella maggiore, come fossero loro gli adulti, e non dei pulcini senza ali.
Quando il papà sciolse la mano di lei dal suo intreccio, Adele si avviò a larghi passi verso i controlli di sicurezza, per la prima volta sola.
Mostrata la carta di imbarco, posizionato sui rulli il bagaglio a mano, oltrepassò il metal detector.
È fatta, riuscì a pensare.
Quando si voltò, a salutare il papà per l’ultima volta, ne incrociò gli occhi: in lui non v’era odio, né risentimento, ma solo orgoglio e infinito amore.
E quest’amore fu lesto a riannodare i sensi di colpa.
Devo fuggire, devo fuggire, che ci sto a fare qui?
Il ritornello cominciò a martellarle la testa, per metter a tacere la colpa.
La mia vita è al di là di quel cancello d’imbarco. Devo solo oltrepassare la soglia. E poi, il biglietto già fatto, i bagagli imbarcati, gli accordi già presi.
Quanti sacrifici, dietro quel biglietto, quanto studio la notte, quante corse, quante privazioni, quanta vita non vissuta.
Da un altoparlante correvano le note di Sergio Endrigo, cantate da una voce femminile.
Bastarono quelle vibrazioni per chiudere tutti i cieli, mentre, nella gigantesca sala, una marea di umanità indifferente iniziava a girarle intorno: si afferrò con tutte le sue forze alla maniglia del trolley, per non cadere.
Non lo sentiva più il desiderio di fuggire, di realizzarsi altrove, non voleva più tenere per sé la propria vita.
E si scoprì a rimontare la marea per tornare indietro, verso quegli occhi incapaci di abbandonarla e al mondo a cui appartengono.
E solo allora comprese di averla varcata da un pezzo quella soglia.
Perché la prima ora della notte era quella già trascorsa.