Epilogo
Lo chef, in grembiule e toque blanche d’ordinanza, le lanciò uno sguardo interrogativo. Ci mise un attimo per riprendersi dalla sorpresa, poi con espressione accigliata le intimò qualcosa in mandarino.
Scusa, Bruce Lee, ma non è il momento! Meg superò l’uomo e raggiunse la parete dove erano allineate numerose padelle. Ne prese una, ignorando le proteste di capocuoco e assistenti, e si andò a sistemare accanto alla porta, brandendo l’utensile manco fosse una clava.
In uno degli oblò apparve il volto dell’uomo. Era giovane. Aveva una mascella volitiva, lo sguardo duro e i capelli corti tagliati a spazzola. Le ricordò Schwarzenegger in Danko.
Senza il carisma di Arnie, però.
Un’anta della porta basculante si spalancò e Meg vibrò il colpo… che mancò il bersaglio. Il calcio nello stomaco che ricevette in cambio la spedì contro un bancone, causandone il rovesciamento.
Vide l’uomo lanciarsi contro di lei e perdere l’equilibrio mentre il suo piede si torceva sopra una melanzana.
Un aiuto insperato. Raccolto un vassoio metallico da terra, Meg mirò alla testa dell’aggressore che indietreggiò lanciando un ruggito di dolore: sul suo volto era apparsa una sanguinolenta linea rossa che gli segnava la guancia dall’occhio sino al labbro.
Lo sentì ringhiare un’ultima volta, mentre con un gesto fulmineo estraeva una rivoltella da sotto la giacca del doppio petto.
Sono morta! realizzò mentre il sangue le si raggelava nelle vene. Afferrò il carrello dei dolci e gridando per darsi coraggio si scagliò verso il sicario che brandiva l’arma.
Lo investì con violenza all’altezza del bacino. L’uomo ricadde pesantemente sul pavimento mentre la pistola scivolava sulle piastrelle della cucina e i cuochi, terrorizzati, inforcavano l’uscita in tutta fretta.
Devo prenderla si impose Meg, ed era arrivata a sfiorarne il calcio zigrinato, quando il manico del carrello la urtò alla tempia. Nel cranio esplosero punti colorati e fitte di dolore. Nella periferia del suo campo visivo, distorto dalle lacrime, vide l’aggressore rimettersi in piedi.
Per sua fortuna ignorò la pistola per avventarsi su di lei.
Lo scalciò via una prima volta, ma l’uomo tornò alla carica e, stavolta, con successo: afferratala per la camicetta, la sollevò di peso e la scaraventò sul piano della cucina.
L’impatto con la superficie dura le svuotò i polmoni lasciandola senza fiato. Gemette incapace di difendersi, ma l’altro non aveva ancora finito. Senza mai mollarla, la trascinò verso i fuochi accesi sui quali sobbollivano casseruole ricolme di brodi e vivande, travolgendo contenitori di verdure fresche, ravioli, carcasse di anatre e di altro pollame.
Meg annaspava cercando di trovare una presa quando, con la coda dell’occhio, vide l’altro spingere via la pentola dal fornello più vicino.
Stavolta il sicario l’afferrò per i capelli con entrambe le mani e, costringendola a sollevare il viso dal piano di marmo, glielo avvicinò alle fiamme.
Poteva già sentire il puzzo di capelli strinati quando la sua destra si chiuse attorno a qualcosa di metallico e sottile: un’asta, un attizzatoio o qualcosa di simile.
Con una torsione improvvisa spinse quel qualcosa verso l’uomo. Avvertì il metallo infiggersi appena sotto le costole, farsi strada tra le viscere. Lo sospinse ancora più in profondità e, finalmente, con un gorgoglio strozzato il sicario si accasciò.
Anche lei si accasciò, ansimando come un mantice. Rimase così per qualche secondo fin quando la suoneria dell’orologio non prese a trillare fastidiosa.
Restano trenta minuti!
Si raddrizzò lentamente tastandosi la schiena dolorante. Pulsazioni sorde si irradiavano anche dal cuoio capelluto laddove i capelli erano stati strappati via.
Lanciò uno sguardo verso il corpo senza vita dell’uomo che l’aveva aggredita: aveva uno spiedo per polli piantato nell’addome.
Sul piano di lavoro della cucina, trasformato in un campo di battaglia, era rimasto integro un unico vassoio sul quale era disposta una tagliata di anatra laccata con la sua salsa. Intinse l’indice nel condimento e lo portò alle labbra.
Manca un pizzico di sale, chef.
Tornò nel salone del ristorante. Non c’era più nessuno: la fuga dei cuochi doveva avere allarmato gli avventori almeno quanto il baccano proveniente dalle cucine. Solo la titolare, seminascosta dietro la cassa, la fissava con occhi spauriti. Anche di Mike era sparita ogni traccia; chissà se stava bene.
Uscì sulla strada e le luci, gli odori e il rumore di Chinatown l’aggredirono.
Dal finestrino del Yellow cab, la 6th Avenue appariva come un interminabile corridoio sfavillante. Le vetrine dei negozi erano addobbate di luminarie, palline e cappelli di Babbo Natale.
Il taxi si fermò.
«Que trafico! Lo shopping di Natale? Es una locura!» commentò l’autista, probabilmente un portoricano da non troppo tempo sul suolo americano.
«Arriveremo in tempo?» chiese Meg.
«Claro, ahora volteemos. Prendiamo altra strada. Bien?»
Se lo dici tu.
Sui marciapiedi il viavai di persone era continuo. Una donna elegantemente vestita, avanzava ad ampie falcate tenendo una grande busta per mano. Su quella rivolta verso il taxi era impresso il celebre marchio della maison Gucci.
Meg ne scrutò l’espressione visibilmente soddisfatta.
Dove vai tanto di fretta? Manca ancora qualcosa? Deve essere bello avere come unico pensiero quello di fare shopping. Un po’ t’invidio, sai? Magari quando avrò finito con l’Agenzia...
Si vide al posto della giovane donna, novella Pretty Woman in una dimensione in cui non c’erano più sicari, intrighi e controspionaggio, ma l’incantesimo durò solo un istante.
La beatitudine dell’ignoranza: è quello che io non avrò mai. Ho visto troppe cose per trovare consolazione in una vita del genere. E comunque, non avrei i soldi per condurla.
Ai piedi del grande albero luccicante che troneggiava in Rockfeller Centre, pattinatori di diversa età ed abilità volteggiavano sull’esclusivo The Rink, probabilmente la pista più scenografica di New York.
Il taxi si arrestò ancora una volta, tristemente in coda.
«Fammi scendere qui, proseguo a piedi!» Tagliò corto.
Il concierge del Plaza era visibilmente disgustato. Certo la guancia tumefatta, certo il trucco approssimativo, ma più di ogni altra cosa sembrava infastidirlo la camicetta macchiata e strappata in più punti.
Allungò a Meg la chiave della stanza in formato tessera senza mai smettere di fissarla con visibile disappunto. «Mentre era fuori hanno portato un regalo per lei: lo troverà in stanza» disse quasi controvoglia.
«Grazie» rispose lei rivolgendogli una smorfia che doveva essere un sorriso.
Il pacco, con le insegne di una nota boutique di Manhattan, era sul letto.
Meg spense le luci della stanza, tirò le tende e lo aprì. Inforcò subito l’auricolare trovato al suo interno, poi cominciò ad estrarre e a montare i pezzi del fucile di precisione.
«Dov’eri finita? È da un’ora che aspettiamo!»
«Un piccolo contrattempo. Beh, non così piccolo, in effetti: almeno un metro e ottantacinque per novanta chili. Mike si è fatto vivo? Non vorrei che anche lui abbia fatto cattivi incontri».
Nella capsula si sentì più lontano un “mettiti in contatto con Mike”. Poi la voce tornò a rivolgersi a lei «Non c’è molto tempo, sbrigati!»
«Sì, sono pronta. La finestra è quella di fronte?»
L’altro confermò.
Proprio in quell’istante si accese la luce nella stanza osservata. All’interno, un uomo in smoking si era avvicinato alla finestra afferrando un lembo della tenda. Era stato allora che una donna, bionda, dalla generosa scollatura nell’abito da sera nero, si era avvinghiata a a lui.
Meg si mise in posizione, il calcio del fucile aderente alla spalla destra e l’occhio immerso nel grosso mirino telescopico.
«Contatto confermato. È in compagnia di una donna».
Una diversa ad ogni incontro. Ci sa fare per queste cose: niente da dire.
«Giratemi l’audio ambientale» chiese.
La donna si sciolse dall’abbraccio e si allontanò di qualche passo dal suo amante, il suo sguardo ancora immerso in quello di lui. Si chinò in avanti e sollevò la gonna scoprendo le gambe. Armeggiò per un momento, infine, agitò le mutandine prima di lanciarle verso di lui.
«Non farmi aspettare troppo».
Attraverso l’auricolare la voce vibrava di passione.
«Vengo subito».
«Non troppo presto, spero» ribatté quella ridendo.
Uno a zero per lei! Che ti prende oggi, campione? In altre occasioni sei stato più brillante… Comincia a stufarti lo spettacolino che metti in scena ogni sera, o lei non ti piace poi così tanto? Ad ogni modo sei arrivato al capolinea, lurido doppiogiochista che non sei altro. I tuoi amichetti dell’est si volatizzeranno dopo aver saputo della tua dipartita. Per un poco, almeno, poi il gioco riprenderà con altri interpreti. Come sempre. Adesso voltati, guarda da questa parte.
L’uomo si infilò le mutandine nella tasca dei pantaloni poi, guardò un’ultima volta fuori dalla finestra. Verso di lei.
Bingo.
Sotto la pressione del suo dito il grilletto cedette.
Era andata bene, dopotutto. La talpa era stata sistemata: gli agenti sotto copertura potevano dormire sonni tranquilli. Mike, il suo contatto a Chinatown, era stato rintracciato a casa e lei stessa se l’era cavata con appena qualche ammaccatura, il labbro inferiore spaccato e una manciata di capelli in meno. Eppure…
Si fermò e il rumore dei suoi passi si spense.
La strada era silenziosa e solitaria. Su ambo i lati, una lunga fila di automobili erano abbandonate alla quiete della notte. Solo le finestre delle palazzine in mattoni rossi del Queens (lei amava l’aspetto old style, da vecchia New York, di quei caseggiati) erano illuminate.
Avvertì il contrasto tra la via, fredda ed estranea e il calore intimo che sprigionava da quegli appartamenti e, d’un tratto, le venne voglia di “casa”. Non dell’appartamento nel quale tornava finito il lavoro, bensì di quel luogo ipotetico nel quale sarebbe stata parte di una comunità di affetti, di una... famiglia.
Scrollò il capo. Ho trentacinque anni e gli ormoni, ogni tanto danno i numeri. Specie dopo una giornata come questa.
Riprese a camminare. Ritrovò la sua Subaru Impreza dove l’aveva lasciata. Nella versione WRX sti, con alettoni e minigonne era a dir poco vistosa. L’auto giusta per lei, avevano concluso all’unisono i colleghi quando l’avevano vista. Ora, guardandola, non ne era più tanto sicura.
Ok, Mike, dove hai messo le chiavi?
Puntò il più vicino cassonetto, ne ispezionò la base con le dita, trovando quello che cercava.
Un fruscio poco lontano richiamò la sua attenzione. Alla luce tremolante di un albero di Natale, una bambina di una decina di anni la fissava da dietro la bassa recinzione dell’area condominiale.
«Oh, mi hai spaventato, sai? Non mi aspettavo di trovare qualcuno in giro, a quest’ora della notte».
La ragazzina, infagottata in un un gonfio piumino blu, fece spallucce. Poi sollevò lo sguardo facendo agitare la coda di capelli biondi.
«Come te lo sei fatta?» le chiese quella indicando il labbro tumefatto.
«Ah, questo? Un colpo di vento e la finestra mi ha tirato una sberla di quelle sonore». Meg le sorrise. «Che imbranata, vero?»
«Anche la mamma... sbatte. Spesso». La voce della bambina era inespressiva.
Ah, davvero?
«Sailor Moon!»
«Ah, sì» si riebbe Meg, sfilandosi lo zainetto dalle spalle per mostrarle il pupazzetto.
«Che carino!»
Proprio in quel momento, voci concitate proruppero dall’appartamento al primo piano.
Le urla dell’uomo erano talmente forti che chiunque avrebbe potuto sentire ciò che diceva. Accusava lei di essere una parassita insieme con la figlia. Che le aveva raccolte da una strada e dato loro una casa e la sicurezza economica ricevendone in cambio solo ingratitudine. Che lei l’aveva tradito e lo tradiva. Seguivano i classici improperi dell’uomo divorato dalla gelosia.
Una voce più flebile, femminile, negava ogni accusa; parlava piano ma si capiva che era terrorizzata. Poi, in concomitanza del rumore di mobilio che si rovesciava rumorosamente, prese a invocare aiuto a gran voce.
Non accadde niente. Qualche luce nel palazzo si spense. Nessuna sirena della Polizia si udì in lontananza.
I rumori di colluttazione continuarono così come gli strilli e i pianti della donna che crescevano e diminuivano d’intensità ad intervalli irregolari.
Meg guardò la bambina: si era ripiegata su sé stessa, le mani premute sulle orecchie.
«Da dove si entra?» le chiese. Dovette scostarle a forza le palme dalle tempie e ripetere la domanda prima di ricevere le indicazioni che cercava.
«Rimani qui. Non muoverti» la rassicurò.
Il suo scampanellare era stato insistente: diversi secondi di pressione ininterrotta alternati a un pestaggio veloce ed indiscriminato del pulsante. Era una richiesta improrogabile di attenzione e, allo stesso tempo, una minaccia per nulla velata.
Dall’appartamento, dove le grida erano cessate, Meg sentì provenire rumore di passi in avvicinamento.
L’uomo che si presentò alla porta era sulla quarantina, di statura media, dal viso anonimo (a parte la precoce stempiatura) e il ventre già prominente.
Tutto qui?
«E allora? Si può capire che vuoi?» l’aggredì quello. «Ti pare l’ora per disturbare le persone in casa loro? Vedi di sparire!»
«È così che tratti le donne, eh?»
Quello soffocò una bestemmia e fece per richiudere la porta ma Meg mise il piede tra la porta e il telaio, impedendoglielo.
«Che cazzo ti credi di fare? Togliti subito di qui...»
Non lo lasciò nemmeno finire: atteggiò ad una “U” pollice, indice e medio della mano destra e scattò.
Raggiunto alla gola, l’uomo stramazzò all’indietro, rantolando, mentre si teneva il collo e scalciava in preda al panico.
«Tranquillo, passerà. Piuttosto, stammi a sentire...» buttò l’occhio alla targhetta della porta. Diceva: “Ted Boyne e Sara Price”. «Considera quello di stasera un semplice avvertimento, ma sappi che se Sara dovesse riferirmi che continui a comportarti in maniera così... deplorevole tornerò e finirò il lavoro. Chiaro?»
L’altro gorgogliò qualcosa.
«Lo prendo per un sì».
Dietro una porta socchiusa intravide una massa di capelli scarmigliati. Sara stava osservando la scena. Fece finta di nulla, inforcò le scale e tornò di sotto.
La bambina era dove l’aveva lasciata.
«È tutto tranquillo, adesso. Puoi tornare a casa» le disse sedendo sui talloni per essere alla sua altezza.
Quella non si mosse.
«Hai ancora paura? Non preoccuparti, il tuo patrigno è una di quelle persone alle quali le cose vanno spiegate per bene, ma dopo capiscono». Le accarezzò i capelli biondi.
«Dimenticavo, questo è per te». Staccò la bambolina di Sailor Moon dallo zainetto e gliela porse. «Buon Natale!»
La bambina sembrò illuminarsi in viso: prese l’oggetto e d’istinto la strinse in un abbraccio timido ma sincero.
«Va tutto bene, tesoro. Tutto bene» l’accarezzò ancora per un poco «Torna a casa, adesso, la mamma avrà bisogno di te».
La vide avviarsi verso le scale poi voltarsi improvvisamente.
«Mi chiamo Ginnie».
«Io sono Meg» le rispose agitando la mano in segno di saluto e seguendola con lo sguardo finché non sparì nel portone.
Quant’è carina, proprio un amore. Si raddrizzò con uno sbuffo. Avanti, Meg, anche i salvatori del mondo devono riposare.
Tornò all’auto ma non si sedette subito al volante: aveva una curiosità da soddisfare. Aprì il bagagliaio e ciò che vide la vece ridacchiare: in fondo al baule c’erano ben due confezioni di croccantini per cani.
Non aveva avuto il tempo di fare compere, quel giorno, così aveva chiesto al suo collega preferito di farle questo favore.
Grazie, Mike. Sei sempre un tesoro con me.
Forse avrebbe dovuto dare una chance a Mike, dopotutto era anche belloccio.
Mise in moto e si avvio. Mentre percorreva il breve tragitto verso casa si disse che la giornata, iniziata sotto pessimi auspici, non avrebbe potuto concludersi in maniera più soddisfacente. Già pregustando il tepore che l'attendeva tra le pareti domestiche e l'accoglienza festosa che i tre demonietti le avrebbero riservato, iniziò a fischiettare "Jingle bells", forse per la prima volta in vita sua.
Scusa, Bruce Lee, ma non è il momento! Meg superò l’uomo e raggiunse la parete dove erano allineate numerose padelle. Ne prese una, ignorando le proteste di capocuoco e assistenti, e si andò a sistemare accanto alla porta, brandendo l’utensile manco fosse una clava.
In uno degli oblò apparve il volto dell’uomo. Era giovane. Aveva una mascella volitiva, lo sguardo duro e i capelli corti tagliati a spazzola. Le ricordò Schwarzenegger in Danko.
Senza il carisma di Arnie, però.
Un’anta della porta basculante si spalancò e Meg vibrò il colpo… che mancò il bersaglio. Il calcio nello stomaco che ricevette in cambio la spedì contro un bancone, causandone il rovesciamento.
Vide l’uomo lanciarsi contro di lei e perdere l’equilibrio mentre il suo piede si torceva sopra una melanzana.
Un aiuto insperato. Raccolto un vassoio metallico da terra, Meg mirò alla testa dell’aggressore che indietreggiò lanciando un ruggito di dolore: sul suo volto era apparsa una sanguinolenta linea rossa che gli segnava la guancia dall’occhio sino al labbro.
Lo sentì ringhiare un’ultima volta, mentre con un gesto fulmineo estraeva una rivoltella da sotto la giacca del doppio petto.
Sono morta! realizzò mentre il sangue le si raggelava nelle vene. Afferrò il carrello dei dolci e gridando per darsi coraggio si scagliò verso il sicario che brandiva l’arma.
Lo investì con violenza all’altezza del bacino. L’uomo ricadde pesantemente sul pavimento mentre la pistola scivolava sulle piastrelle della cucina e i cuochi, terrorizzati, inforcavano l’uscita in tutta fretta.
Devo prenderla si impose Meg, ed era arrivata a sfiorarne il calcio zigrinato, quando il manico del carrello la urtò alla tempia. Nel cranio esplosero punti colorati e fitte di dolore. Nella periferia del suo campo visivo, distorto dalle lacrime, vide l’aggressore rimettersi in piedi.
Per sua fortuna ignorò la pistola per avventarsi su di lei.
Lo scalciò via una prima volta, ma l’uomo tornò alla carica e, stavolta, con successo: afferratala per la camicetta, la sollevò di peso e la scaraventò sul piano della cucina.
L’impatto con la superficie dura le svuotò i polmoni lasciandola senza fiato. Gemette incapace di difendersi, ma l’altro non aveva ancora finito. Senza mai mollarla, la trascinò verso i fuochi accesi sui quali sobbollivano casseruole ricolme di brodi e vivande, travolgendo contenitori di verdure fresche, ravioli, carcasse di anatre e di altro pollame.
Meg annaspava cercando di trovare una presa quando, con la coda dell’occhio, vide l’altro spingere via la pentola dal fornello più vicino.
Stavolta il sicario l’afferrò per i capelli con entrambe le mani e, costringendola a sollevare il viso dal piano di marmo, glielo avvicinò alle fiamme.
Poteva già sentire il puzzo di capelli strinati quando la sua destra si chiuse attorno a qualcosa di metallico e sottile: un’asta, un attizzatoio o qualcosa di simile.
Con una torsione improvvisa spinse quel qualcosa verso l’uomo. Avvertì il metallo infiggersi appena sotto le costole, farsi strada tra le viscere. Lo sospinse ancora più in profondità e, finalmente, con un gorgoglio strozzato il sicario si accasciò.
Anche lei si accasciò, ansimando come un mantice. Rimase così per qualche secondo fin quando la suoneria dell’orologio non prese a trillare fastidiosa.
Restano trenta minuti!
Si raddrizzò lentamente tastandosi la schiena dolorante. Pulsazioni sorde si irradiavano anche dal cuoio capelluto laddove i capelli erano stati strappati via.
Lanciò uno sguardo verso il corpo senza vita dell’uomo che l’aveva aggredita: aveva uno spiedo per polli piantato nell’addome.
Sul piano di lavoro della cucina, trasformato in un campo di battaglia, era rimasto integro un unico vassoio sul quale era disposta una tagliata di anatra laccata con la sua salsa. Intinse l’indice nel condimento e lo portò alle labbra.
Manca un pizzico di sale, chef.
Tornò nel salone del ristorante. Non c’era più nessuno: la fuga dei cuochi doveva avere allarmato gli avventori almeno quanto il baccano proveniente dalle cucine. Solo la titolare, seminascosta dietro la cassa, la fissava con occhi spauriti. Anche di Mike era sparita ogni traccia; chissà se stava bene.
Uscì sulla strada e le luci, gli odori e il rumore di Chinatown l’aggredirono.
Dal finestrino del Yellow cab, la 6th Avenue appariva come un interminabile corridoio sfavillante. Le vetrine dei negozi erano addobbate di luminarie, palline e cappelli di Babbo Natale.
Il taxi si fermò.
«Que trafico! Lo shopping di Natale? Es una locura!» commentò l’autista, probabilmente un portoricano da non troppo tempo sul suolo americano.
«Arriveremo in tempo?» chiese Meg.
«Claro, ahora volteemos. Prendiamo altra strada. Bien?»
Se lo dici tu.
Sui marciapiedi il viavai di persone era continuo. Una donna elegantemente vestita, avanzava ad ampie falcate tenendo una grande busta per mano. Su quella rivolta verso il taxi era impresso il celebre marchio della maison Gucci.
Meg ne scrutò l’espressione visibilmente soddisfatta.
Dove vai tanto di fretta? Manca ancora qualcosa? Deve essere bello avere come unico pensiero quello di fare shopping. Un po’ t’invidio, sai? Magari quando avrò finito con l’Agenzia...
Si vide al posto della giovane donna, novella Pretty Woman in una dimensione in cui non c’erano più sicari, intrighi e controspionaggio, ma l’incantesimo durò solo un istante.
La beatitudine dell’ignoranza: è quello che io non avrò mai. Ho visto troppe cose per trovare consolazione in una vita del genere. E comunque, non avrei i soldi per condurla.
Ai piedi del grande albero luccicante che troneggiava in Rockfeller Centre, pattinatori di diversa età ed abilità volteggiavano sull’esclusivo The Rink, probabilmente la pista più scenografica di New York.
Il taxi si arrestò ancora una volta, tristemente in coda.
«Fammi scendere qui, proseguo a piedi!» Tagliò corto.
Il concierge del Plaza era visibilmente disgustato. Certo la guancia tumefatta, certo il trucco approssimativo, ma più di ogni altra cosa sembrava infastidirlo la camicetta macchiata e strappata in più punti.
Allungò a Meg la chiave della stanza in formato tessera senza mai smettere di fissarla con visibile disappunto. «Mentre era fuori hanno portato un regalo per lei: lo troverà in stanza» disse quasi controvoglia.
«Grazie» rispose lei rivolgendogli una smorfia che doveva essere un sorriso.
Il pacco, con le insegne di una nota boutique di Manhattan, era sul letto.
Meg spense le luci della stanza, tirò le tende e lo aprì. Inforcò subito l’auricolare trovato al suo interno, poi cominciò ad estrarre e a montare i pezzi del fucile di precisione.
«Dov’eri finita? È da un’ora che aspettiamo!»
«Un piccolo contrattempo. Beh, non così piccolo, in effetti: almeno un metro e ottantacinque per novanta chili. Mike si è fatto vivo? Non vorrei che anche lui abbia fatto cattivi incontri».
Nella capsula si sentì più lontano un “mettiti in contatto con Mike”. Poi la voce tornò a rivolgersi a lei «Non c’è molto tempo, sbrigati!»
«Sì, sono pronta. La finestra è quella di fronte?»
L’altro confermò.
Proprio in quell’istante si accese la luce nella stanza osservata. All’interno, un uomo in smoking si era avvicinato alla finestra afferrando un lembo della tenda. Era stato allora che una donna, bionda, dalla generosa scollatura nell’abito da sera nero, si era avvinghiata a a lui.
Meg si mise in posizione, il calcio del fucile aderente alla spalla destra e l’occhio immerso nel grosso mirino telescopico.
«Contatto confermato. È in compagnia di una donna».
Una diversa ad ogni incontro. Ci sa fare per queste cose: niente da dire.
«Giratemi l’audio ambientale» chiese.
La donna si sciolse dall’abbraccio e si allontanò di qualche passo dal suo amante, il suo sguardo ancora immerso in quello di lui. Si chinò in avanti e sollevò la gonna scoprendo le gambe. Armeggiò per un momento, infine, agitò le mutandine prima di lanciarle verso di lui.
«Non farmi aspettare troppo».
Attraverso l’auricolare la voce vibrava di passione.
«Vengo subito».
«Non troppo presto, spero» ribatté quella ridendo.
Uno a zero per lei! Che ti prende oggi, campione? In altre occasioni sei stato più brillante… Comincia a stufarti lo spettacolino che metti in scena ogni sera, o lei non ti piace poi così tanto? Ad ogni modo sei arrivato al capolinea, lurido doppiogiochista che non sei altro. I tuoi amichetti dell’est si volatizzeranno dopo aver saputo della tua dipartita. Per un poco, almeno, poi il gioco riprenderà con altri interpreti. Come sempre. Adesso voltati, guarda da questa parte.
L’uomo si infilò le mutandine nella tasca dei pantaloni poi, guardò un’ultima volta fuori dalla finestra. Verso di lei.
Bingo.
Sotto la pressione del suo dito il grilletto cedette.
Era andata bene, dopotutto. La talpa era stata sistemata: gli agenti sotto copertura potevano dormire sonni tranquilli. Mike, il suo contatto a Chinatown, era stato rintracciato a casa e lei stessa se l’era cavata con appena qualche ammaccatura, il labbro inferiore spaccato e una manciata di capelli in meno. Eppure…
Si fermò e il rumore dei suoi passi si spense.
La strada era silenziosa e solitaria. Su ambo i lati, una lunga fila di automobili erano abbandonate alla quiete della notte. Solo le finestre delle palazzine in mattoni rossi del Queens (lei amava l’aspetto old style, da vecchia New York, di quei caseggiati) erano illuminate.
Avvertì il contrasto tra la via, fredda ed estranea e il calore intimo che sprigionava da quegli appartamenti e, d’un tratto, le venne voglia di “casa”. Non dell’appartamento nel quale tornava finito il lavoro, bensì di quel luogo ipotetico nel quale sarebbe stata parte di una comunità di affetti, di una... famiglia.
Scrollò il capo. Ho trentacinque anni e gli ormoni, ogni tanto danno i numeri. Specie dopo una giornata come questa.
Riprese a camminare. Ritrovò la sua Subaru Impreza dove l’aveva lasciata. Nella versione WRX sti, con alettoni e minigonne era a dir poco vistosa. L’auto giusta per lei, avevano concluso all’unisono i colleghi quando l’avevano vista. Ora, guardandola, non ne era più tanto sicura.
Ok, Mike, dove hai messo le chiavi?
Puntò il più vicino cassonetto, ne ispezionò la base con le dita, trovando quello che cercava.
Un fruscio poco lontano richiamò la sua attenzione. Alla luce tremolante di un albero di Natale, una bambina di una decina di anni la fissava da dietro la bassa recinzione dell’area condominiale.
«Oh, mi hai spaventato, sai? Non mi aspettavo di trovare qualcuno in giro, a quest’ora della notte».
La ragazzina, infagottata in un un gonfio piumino blu, fece spallucce. Poi sollevò lo sguardo facendo agitare la coda di capelli biondi.
«Come te lo sei fatta?» le chiese quella indicando il labbro tumefatto.
«Ah, questo? Un colpo di vento e la finestra mi ha tirato una sberla di quelle sonore». Meg le sorrise. «Che imbranata, vero?»
«Anche la mamma... sbatte. Spesso». La voce della bambina era inespressiva.
Ah, davvero?
«Sailor Moon!»
«Ah, sì» si riebbe Meg, sfilandosi lo zainetto dalle spalle per mostrarle il pupazzetto.
«Che carino!»
Proprio in quel momento, voci concitate proruppero dall’appartamento al primo piano.
Le urla dell’uomo erano talmente forti che chiunque avrebbe potuto sentire ciò che diceva. Accusava lei di essere una parassita insieme con la figlia. Che le aveva raccolte da una strada e dato loro una casa e la sicurezza economica ricevendone in cambio solo ingratitudine. Che lei l’aveva tradito e lo tradiva. Seguivano i classici improperi dell’uomo divorato dalla gelosia.
Una voce più flebile, femminile, negava ogni accusa; parlava piano ma si capiva che era terrorizzata. Poi, in concomitanza del rumore di mobilio che si rovesciava rumorosamente, prese a invocare aiuto a gran voce.
Non accadde niente. Qualche luce nel palazzo si spense. Nessuna sirena della Polizia si udì in lontananza.
I rumori di colluttazione continuarono così come gli strilli e i pianti della donna che crescevano e diminuivano d’intensità ad intervalli irregolari.
Meg guardò la bambina: si era ripiegata su sé stessa, le mani premute sulle orecchie.
«Da dove si entra?» le chiese. Dovette scostarle a forza le palme dalle tempie e ripetere la domanda prima di ricevere le indicazioni che cercava.
«Rimani qui. Non muoverti» la rassicurò.
Il suo scampanellare era stato insistente: diversi secondi di pressione ininterrotta alternati a un pestaggio veloce ed indiscriminato del pulsante. Era una richiesta improrogabile di attenzione e, allo stesso tempo, una minaccia per nulla velata.
Dall’appartamento, dove le grida erano cessate, Meg sentì provenire rumore di passi in avvicinamento.
L’uomo che si presentò alla porta era sulla quarantina, di statura media, dal viso anonimo (a parte la precoce stempiatura) e il ventre già prominente.
Tutto qui?
«E allora? Si può capire che vuoi?» l’aggredì quello. «Ti pare l’ora per disturbare le persone in casa loro? Vedi di sparire!»
«È così che tratti le donne, eh?»
Quello soffocò una bestemmia e fece per richiudere la porta ma Meg mise il piede tra la porta e il telaio, impedendoglielo.
«Che cazzo ti credi di fare? Togliti subito di qui...»
Non lo lasciò nemmeno finire: atteggiò ad una “U” pollice, indice e medio della mano destra e scattò.
Raggiunto alla gola, l’uomo stramazzò all’indietro, rantolando, mentre si teneva il collo e scalciava in preda al panico.
«Tranquillo, passerà. Piuttosto, stammi a sentire...» buttò l’occhio alla targhetta della porta. Diceva: “Ted Boyne e Sara Price”. «Considera quello di stasera un semplice avvertimento, ma sappi che se Sara dovesse riferirmi che continui a comportarti in maniera così... deplorevole tornerò e finirò il lavoro. Chiaro?»
L’altro gorgogliò qualcosa.
«Lo prendo per un sì».
Dietro una porta socchiusa intravide una massa di capelli scarmigliati. Sara stava osservando la scena. Fece finta di nulla, inforcò le scale e tornò di sotto.
La bambina era dove l’aveva lasciata.
«È tutto tranquillo, adesso. Puoi tornare a casa» le disse sedendo sui talloni per essere alla sua altezza.
Quella non si mosse.
«Hai ancora paura? Non preoccuparti, il tuo patrigno è una di quelle persone alle quali le cose vanno spiegate per bene, ma dopo capiscono». Le accarezzò i capelli biondi.
«Dimenticavo, questo è per te». Staccò la bambolina di Sailor Moon dallo zainetto e gliela porse. «Buon Natale!»
La bambina sembrò illuminarsi in viso: prese l’oggetto e d’istinto la strinse in un abbraccio timido ma sincero.
«Va tutto bene, tesoro. Tutto bene» l’accarezzò ancora per un poco «Torna a casa, adesso, la mamma avrà bisogno di te».
La vide avviarsi verso le scale poi voltarsi improvvisamente.
«Mi chiamo Ginnie».
«Io sono Meg» le rispose agitando la mano in segno di saluto e seguendola con lo sguardo finché non sparì nel portone.
Quant’è carina, proprio un amore. Si raddrizzò con uno sbuffo. Avanti, Meg, anche i salvatori del mondo devono riposare.
Tornò all’auto ma non si sedette subito al volante: aveva una curiosità da soddisfare. Aprì il bagagliaio e ciò che vide la vece ridacchiare: in fondo al baule c’erano ben due confezioni di croccantini per cani.
Non aveva avuto il tempo di fare compere, quel giorno, così aveva chiesto al suo collega preferito di farle questo favore.
Grazie, Mike. Sei sempre un tesoro con me.
Forse avrebbe dovuto dare una chance a Mike, dopotutto era anche belloccio.
Mise in moto e si avvio. Mentre percorreva il breve tragitto verso casa si disse che la giornata, iniziata sotto pessimi auspici, non avrebbe potuto concludersi in maniera più soddisfacente. Già pregustando il tepore che l'attendeva tra le pareti domestiche e l'accoglienza festosa che i tre demonietti le avrebbero riservato, iniziò a fischiettare "Jingle bells", forse per la prima volta in vita sua.