L'attesa della Madonna

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Questo è un estratto del mio manoscritto, per il quale cerco betareaders
La zanzara tigre comune è indigena dei paesi tropicali e subtropicali. Giunta in Europa meridionale intorno al millenovecentottanta, ha saputo adattarsi e proliferare nelle aree umide. Fra queste, uno dei più virtuosi esempi d’integrazione è la Pianura Padana. Qui come in altre parti del mondo, tuttavia, l’animale è generalmente esposto ad azioni di bonifica preventive e a rappresaglie feroci. Proprio l’intervento antropico è uno dei fattori che più condiziona le stime sulla vita media dell’insetto che, generalmente, si attesta a circa ventuno giorni. Il dato vale praticamente dappertutto, dalla Foresta Trung Bo fino alle risaie del Pavese. L’unica eccezione è il complesso residenziale della Fichera, luogo in cui si racconta di esemplari che hanno superato i quindici anni di età. Chiaramente, si tratta di leggende che non trovano conferme empiriche ma, di sicuro, la densità di zanzare tigri comuni da queste parti è di molto superiore rispetto alle altre zone di diffusione occidentali.
La ragione principale della presenza straordinaria di zanzare tigre è che le cause di decesso di cui sopra non hanno praticamente rilevanza statistica. Sebbene possa capitare che a qualche inquilino scappi una sberla stizzita o una ciabattata letale, le misure strutturali sono più che tenui e, in definitiva, inefficaci. Pochissimi sono coloro che attrezzano l’abitazione con zanzariere, ancora meno quelli che adottano fornelletti, zampironi e altri dispositivi per la fumigazione dell’insetto. Anche se non proibite dal regolamento, poi, le attività di disinfestazione non vengono attuate da più di un decennio, aprendo inevitabilmente la parentesi delle lacune sistemiche. Il fatto è che, in questo particolarissimo contesto urbano, sono in tanti a trovare delle ragioni etiche, spirituali o affettive per non far la guerra alle zanzare.
A fronte di questo atteggiamento in armonia con l’ecosistema, negli anni si sono contati tre piccoli focolai di Dengue, una morte sospetta e decine di infezioni modeste. Addirittura, ritiene un eminente studioso, le punture ripetute nei mesi estivi sono state una concausa di alcuni brevi episodi di disturbo psicotico. Nonostante tutto, però, i residenti lasciano perdere, preferiscono non arrecare danno, corrono il rischio e, anzi, nutrono la colonia. In quel modo si comportano quasi tutti: bambini, adulti, anziani e giovani. In quel modo si comporta anche Matilde.
Allungata sul materasso umido, la ragazza osserva la sua personale zanzara tigre che attacca la caviglia. Quella buca con lo stiletto l’epidermide e fa colazione in tutta comodità. Lei, la giovane, rimane impassibile, guarda e sembra non provare alcun fastidio. Allora, forse per sublimare il prurito, rimane sdraiata ancora po'. Nel mentre, gira le pupille per la camera appesantita dalla penombra delle tende, riprende famigliarità con l’appartamento. Scorge la macchia buia dell'armadio, la spia aguzza del condizionatore, le pareti spoglie e, poi, il tappetto, uno stagno violaceo su cui galleggiano i resti di una cena vegana.
Quella roba, la zanzara e la scenografia decadente che deperisce nel caldo afoso, non è ancora nulla, uno scherzo rispetto all’incubo che la osserva notte e giorno dall'angolo più lontano della camera. Là, sul fondo del soppalco, luccicano i dettagli di una scultura lasciata a metà, gli occhi dell’ennesima Madonna incompleta. È quella la causa del piagnisteo, è da cercare nella statuetta l'origine del malessere che la ragazza va volentieri raccontando a chi trova il tempo di ascoltarla.
La storia di Matilde e della Vergine Maria è una vicenda tutta borghese che si trascina da un paio d’anni, dal tempo in cui la poveretta terminava l’Accademia. Ancora studentessa, la ragazza si era trovata ad affrontare  un periodo di spese straordinarie, tali per cui non le poteva essere sufficiente il vitalizio che dall’età di tredici anni tutti i membri della sua casata percepiscono regolarmente. Emerso il problema nel corso di una rinunione familiare, molti parenti avevano promesso il loro supporto ma, fra questi, solo nonna si era concretamente messa a disposizione. «Ti aiuto io, cara Matilde», era iniziata. «Ma non posso accettare», le aveva risposto. «Ma ti dico che mi fa piacere… mi regalerai una delle tue sculture, se proprio ti vorrai sdebitare…». Così era stata convinta, è in quel modo che Matilde ha iniziato a intascare la generosa rendita, è promettendo la più espressiva delle Vergini che è stata avviata la prima procedura di pagamento.
Il regalo, la possibilità di benefiniciare di somme denaro regolari, può sicuramente essere invidiabile ma, a quanto racconta Matilde, «l’accumulo di ‘pagherò’ strangola l’autonomia dell’artista», «inibisce lo spunto creativo e lo trascina in un baratro d’irrisolti». Questo peso deve risultare ancor più insopportabile con l’avvicinarsi delle scadenze, come nella circostanza specifica. In meno di due ore, nonna farà visita alla nipote, passeggerà per la casa e si sincererà che, anche questa volta, la scultura non è pronta. Scorgerà l'insoddisfazione negli occhi di Matilde, il disagio di chi non sa terminare alcun lavoro. Probabilmente, sarà rammaricata ma, dicono i maligni, proverà ugualmente un’ebrezza animale: quella di rimanere nella posizione dominante, come il burattinaio, il capitano della nave, il capo-branco, la matriarca e così via. Mica dirà niente di ché, si concederà solo un impercettibile sospiro, un ghigno abbozzato. Poi, con disinvoltura, tirerà fuori la busta del contante e la porgerà nella mano di quell’altra. Infine, saluterà, senza inviti per pranzo, senza abbracci o altre inopportune elargizioni affettive e materiali.
Il momento della visita Matilde lo vive con una pena tale che un cane non ci crederebbe. Quel gesto di allungare il braccio e prendere la sua mensilità è il più pesante di una vita intera. La signora potrebbe semplicemente appoggiare la mancia sul tavolo appena prima di lasciare l’appartamento, oppure potrebbe mandare qualcun altro a sbrigare la commissione o, ancora, potrebbe fare un bonifico. Di modi per evitare l’impaccio ce ne sarebbero diversi ma lei — dice la ragazza nei momenti in cui è più esasperata — sembra volerla guardare in faccia la sconfitta, sembra pretenderlo di persona il suo inchino.
Alcuni sono inclini a suggerire che questo giudizio sia troppo severo, che la nonna incontra la nipote con piacere, magari conta addirittura i giorni che mancano alla visita. Forse è vero, ma per Matilde, quel rituale è un tormento lungo una settimana. D'altro canto, è la stessa ragazza a riferirlo, «alternative ce ne sono poche». Non che sia stupida, lo sa che esistono «persone non hanno questioni aperte con la Madonna». Per parafrasare, che si alzano relativamente presto la mattina e vanno a lavorare, e quello è tutto e non devono chiedere niente a nessuno. A tratti dice di invidiare le amiche che hanno scelto l’ufficio, dalle nove alle diciotto. Non sono mica «impegnate per una vita», non devono mandar giù «banconote e delusioni». A loro è chiesta una fatica a tempo, è tutto. Poi, dormono felici come fosse successo niente. Al contrario, lei non può che pensarci a tutte le ore, deve «creare malgrado il senso d’incompletezza» che le si attacca alla cervicale. «L’arte è nella mia natura», spiega. «La ricerca dei significati, la mia croce».
Al di là degli stati emotivi e della narrazione personale, il problema concreto è che, ogni qualvolta che quella crede di essere sulla strada giusta per risolvere il suo pegno, l'occhio le inciampa negli sbagli. Dunque, il risultato finale le va mai bene. Può capitare che i veli della tunica siano troppo marcati, o il viso inespressivo, o i capelli grossolani e via di seguito. Insomma, Matilde deve crucciarsi così tanto che non le resta nemmeno l'energia per mettersi a scolpire con la disciplina che occorrerebbe. Finisce sempre che la santissima rimane lì così, incompleta per l’appunto.
La ragazza può vederlo in forma plastica il suo fallimento, è tutto accatastato contro la parete del bagno. Là, nascoste sotto una coperta di lana, ha riunito le sue sette Madonne mutilate, un piccolo monastero di Marie abortite. Abbandonate nell’angolo, le sculture ingrassano una massa informe che contribuisce al caos dell’ambiente, un tumore che cresce di delusione in delusione. I pensieri — lo sostengono in tanti — possono atterrire, possono finire per trasmettere un’irrisolvibile sensazione di stanchezza. Infatti, Matilde non si muove dal materasso, continua a guardarsi attorno e lascia che l'attesa del peggio la logori ancora un po’. Aspetta che il sabato mattina si guasti da sé, senza provare a lottare contro gli eventi, senza tentare una fuga pagliaccesca né simulare un malore imminente. Resta inerme e si lagna.
Rimane in quel modo, allungata nel caldo, per un paio d’ore. Poi, senza che accada nulla di straordinario, decide di alzarsi e terminare il quinto pianto di giornata. Quindi, scosta i drappi pesanti che coprono la finestra e un fascio di polvere luminoso investe in obliquo l’ambiente. Alla luce del sole, la camera appare più aggrovigliata e meno patetica, ha perso le pose grevi, è diventata una fontana di colori vispi, dei più brillanti toni estivi. Matilde avvicina la scrivania e allunga la mano verso una tazza lasciata lì due notti prima. Quindi, sorseggia i resti di un tè tiepido e guarda la Fichera che tarda a svegliarsi.
Al di là della finestra, sotto lo sguardo indolente della ragazza, si apre lo spiazzo della vecchia fabbrica. È una di quelle architetture industriali costruite a metà dell’Ottocento, un perimetro rettangolare di bassi edifici in cotto che circondano un piazzale di ciottoli rossi e grigi. In mezzo alla corte, molto tempo dopo la data di fondazione, hanno piantato un fico, messo un po' così, infilato alla buona in un buco non troppo profondo. L’albero dà il nome a tutta struttura anche se la sua principale funzione è quella di ombreggiare il giaciglio del gatto adottivo dell'intero condominio, un randagio che sfugge alle attenzioni di centinaia inquilini. Alla Fichera, infatti, abitano moltissime persone e delle più pittoresche.
Lì, sul perimetro del cortile, sorgevano in passato alcune officine meccaniche e, prima ancora, una conceria. Poi, con la delocalizzazione delle settore manifatturiero, un ignoto impresario ha immaginato la nuova alba dell'abitare urbano. Mica si sbagliava. Il visionario ha ripulito i capannoni, li ha riassestati, riqualificati, rigenerati, venduti o affittati a prezzi ben superiori a quelli di mercato. Grazie a una fortunata strategia di marketing, ha finito per accumulare là una buona quantità di ricchezza. Malgrado la ristrutturazione lacunosa, infatti, la Fichera è un posto per benestanti, una reggia decadente per soggetti dall’incontestabile spessore culturale, il contesto perfetto per rampolli in cerca d’identità.
La pianta del complesso è delle più semplici e rimanda alla sua funzione industriale. Al pian terreno dell’ala est, si trovano gli appartamenti con il giardino privato in cui vivono i nuclei famigliari e tutti coloro che possono contare stabilmente su entrate cospicue. Di fronte, nell’ala ovest, ci sono altre unità molto simili, ma con uno spazio esterno ben più limitato. Il primo piano, invece, è stato progettato per ospitare degli appartamenti modesti, con ampie finestre addobbate di fiori e luci. Salendo fin sotto il tetto, si trovano le mansarde — ‘loft’ ancora più angusti, occupati prevalentemente da ragazze madri e studenti facoltosi. A questo nucleo centrale, si accede attraverso un grande arco al di là del quale sorge una torre color avorio leggermente più alta del resto degli edifici. Là si trovano gli inquilini più anziani: ottuagenari di fama discreta, chiarissimi professori, artisti e intellettuali. Loro, ‘i saggi’, raramente partecipano alle numerosissime iniziative comunitarie ma, di contro, dispensano consigli e prestigio.
L’intero fabbricato — compreso un vasto parcheggio e un piccolo bar — è protetto da una cinta d’acciaio il cui ingresso è sempre aperto. Mantre Matilde guarda dalla finestra, proprio da là transita il furgone bianco di una ditta di traslochi. Immediatamente dietro, la berlina color ghiaccio di nonna. Tirata a lucido come sempre, l'auto schiaccia il binario del cancello. Piano piano passa sotto l'arco, lentamente sballottola sul pavimento irregolare del piazzale. Alla fine, si ferma di fronte alla porta dell’appartamento della ragazza. Quindi, Matilde beve l'ultimo sorso, guarda verso il basso, sorride e saluta con un cenno della mano arreso. Poi, fa una giravolta, si tuffa nel caftano stirato di fresco e corre al piano di sotto, dritta verso le sue angosce. Ancora scalza, attraversa la zona giorno e apre la porta.

Re: L'attesa della Madonna

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Un racconto ben scritto che però non è un racconto.

Il titolo è molto bello, anche se a mio giudizio non aderisce benissimo alla trama del romanzo: ho subito pensato a gente raccolta in preghiera che sta aspettando da una vita "la comparsa"; non è esattamente l'aspettativa giusta vista la trama che hai confezionato.
L'attacco è un vero e proprio pezzo scientifico sulle zanzare: ben scritto, preciso, perfino molto interessante. Avrei continuato, se non mi fossi interrogato per tutto il tempo su cosa cavolo c'entri un incipit del genere in un racconto di questo tipo.
Trattandosi dell'estratto di un romanzo dal quale hai ricavato un racconto, si capisce che l'incipit, lo sviluppo della trama, e il finale, non siano perfettamente autonomi e facciano fatica a vivere di vita propria, è fisiologico, e non mi pare il caso quindi di fare appunti sul finale scontato. Inoltre, mi auguro che l'estratto che hai proposto non sia il primo capitolo del tuo romanzo. Il titolo, il documentario, la ragazza indigente, rappresentano una sequenza di narrazioni a mio gusto incongrue. 
Un'altra cosa che non condivido della trama è la scarsa presa sulla realtà. Una ragazza in difficoltà non si crea tutti questi patemi d'animo solo perché la nonna gli passa un aiuto economico necessario al vitale sostentamento. Mi pare una cosa alla quale il lettore difficilmente si possa appassionare.
A mio giudizio il racconto è ben scritto, mi piace molto l'uso che fai della punteggiatura, e la descrizione degli ambienti è efficace. 
La trama non mi convince, temo possa essere noioso per il lettore indagare indagare sui dolori di una ragazza che accetta i soldi dalla nonna e sulle ragioni di questa statua mai costruita. 
Per un giudizio più onesto il manoscritto andrebbe letto tutto.
Grazie per aver postato il tuo racconto.
Ettore.

Re: L'attesa della Madonna

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@Ettore Navarra Grazie mille per il commento. Sono d'accordo su quasi tutto quello che hai scritto. Effettivamente, il "racconto" non regge in sé. Spero regga come incipit del romanzo invece (il cui titolo non è quello che trovi qui). Non sono tanto convinto del giudizio sull'atteggiamento inverosimile della protagonista ma magari ho tratteggiato male io i contorni della sua condizione. Non può essere definita una persona indigente e nemmeno ha un reale bisogno di soldi, è la rampolla di una famiglia molto benestante che riceve il suo vitalizio e che rintraccia in quella condizione l'origine della sua insoddisfazione. Per semplificare, è viziata. Forse ho davvero delineato io male la questione.

Se ti può interessare dare una letta al manoscritto (una volta terminato), mi farebbe molto piacere.

Grazie

Buona giornata,
Antonio

Re: L'attesa della Madonna

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@Antonio Alberti

Benvenuto, Antonio Alberti!

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