Poco dopo aver spedito il plico alla casa editrice, Caetano Sberleffi, postino, collassò sulla sua bicicletta, nel bel mezzo del giro di consegne. I suoi compaesani credevano si trattasse di una delle sue solite burle, sicché tardarono un poco nell’avvedersi che era invece stecchito. Quando i parenti e la moglie Dina organizzarono il modesto funerale, solo poche decine di persone si presentarono alla pieve di Fubigazzi per salutare il caro estinto.
Ma il plico fu consegnato regolarmente, e non appena l’editore Romancecco lo ricevette decise di dargli un’occhiata, incuriosito dal contenuto e dal titolo sull’involucro che recitava Genoveffo di Staburra. Alcuni suoi colleghi, testimoni dell’avvenimento, dissero che all’apertura del pacco egli sgranò gli occhi e una luce dorata si diffuse sul suo volto, come un cercatore che avesse schiuso un forziere di tesori. Durante quella prima, fatidica lettura, molti giurarono di averlo udito esplodere più e più volte in pianti incontrollati, alternati a episodi di risa genuine e fresche come quelle di un bambino. Si narra che rimase alla sua scrivania per tutta la notte per terminare l’opera, e che una volta finita la ricominciò daccapo. La donna delle pulizie dichiarò di averlo trovato ancora nel suo ufficio, alle sei del mattino, con il manoscritto in mano, in preda a convulsioni isteriche.
Era chiaro che si trattava di un capolavoro. Romancecco tentò di contattare l’autore, e prima ancora di ottenere una risposta annullò tutte le pubblicazioni pianificate e ordinò di far stampare quell’opera anche a costo di far fallire l’azienda. Pagò di tasca propria tutte le penali per i contratti cancellati, e ordinò ai grafici di dare al libro una veste degna del suo contenuto. Quando scoprì che Caetano Sberleffi era morto, rimase molto impressionato e annunciò che era uno scrittore come pochi altri.
– Egli dunque sapeva che l'autore dovrebbe morire dopo aver scritto, per non disturbare il cammino del testo – sentenziò con aria seria.
Dina, erede dei diritti, accettò con piacere e non poca sorpresa la generosa offerta di Romancecco. Anche perché, mentre Caetano era vivo e perdeva il suo tempo a preparare burle, a scrivere baggianate e a consegnare lettere sulla sua bicicletta scassata, lei passava le mattine con Girolamo, il figlio del panettiere, e ora che nessuno la manteneva era costretta a lavorare, e Girolamo lo poteva vedere solo una sera a settimana.
Come Romancecco aveva immaginato, la prima edizione fu un successo e andò esaurita nel giro di una settimana. La seconda nel giro di due giorni. La terza era prenotata prima ancora di arrivare in stamperia, tanto che il pubblico già chiedeva a gran voce una quarta e una quinta. Tutti volevano leggere il Genoveffo di Staburra, perché parlava all’anima, alla mente e perfino al corpo: divenne di moda offrirne una copia da leggere, rigorosamente legata con una catenella, in tutti i bagni pubblici.
Non era un romanzo, ma non era nemmeno un poema. Erano versi in prosa e frasi in poesia. Era leggero come gli scherzi del suo autore, e serio come doveva esserlo il suo spirito. Alcuni leggevano l’opera come se fosse una raccolta epistolare chiusa in una cornice, altri come se fosse divisa in scene, quasi si trattasse di un testo teatrale. C’erano perfino gruppi che proponevano di leggerla al contrario, perché solo così se ne poteva cogliere il vero significato. Presentava così tanti livelli di lettura che poteva essere apprezzata sia da scolaretti che da letterati. Anche gli scettici più accaniti la leggevano: “per poterla criticare con cognizione di causa”, dicevano. Eppure, mai nessuna contestazione si levava, e le uniche contese riguardavano la sua interpretazione.
I caetanini ritenevano che si trattasse di un testo autobiografico, fortemente ancorato al lavoro dell’autore e al contesto rurale di Fubigazzi, usati come ironica metafora del mondo. Gli spezzatini credevano di vedere nella frammentarietà del testo una feroce critica sociale alla modernità. I genoveffiani, forse i più numerosi, erano semplicemente affascinati dal personaggio eponimo, ed erano convinti che la chiave di lettura si celasse in quell’individuo, menzionato nel titolo ma mai mostrato, di cui non si faceva cenno se non attraverso velati riferimenti che solo i più attenti riuscivano a cogliere.
La popolarità del Genoveffo di Staburra crebbe in breve tempo, e la figura postuma di Caetano Sberleffi assurse all’empireo della letteratura. Il suo nome fu dapprima timidamente e poi prepotentemente associato ai più grandi: Dante, Shakespeare, Cervantes. Come lombrichi dopo la pioggia, spuntarono studi e analisi, ricerche e articoli, tesi e documentari. Si pubblicarono biografie, alcune incentrate sul suo lato più scherzoso e gioviale, altre sulla seria profondità della sua ironia.
Il paese di Fubigazzi, da insignificante puntino che talvolta nemmeno appariva sulle mappe, divenne meta di pellegrinaggi letterari. La sonnolenta economia di campagna si trasformò in vivace traffico turistico. Sorsero statue e monumenti. Nel cimitero la modesta tomba di Sberleffi fu sostituita da un maestoso mausoleo neoclassico, che era possibile visitare solo su prenotazione. La vedova Dina convertì la vecchia casa in un museo, e con i proventi dell’opera si comprò una villa con podere poco distante: finalmente poteva far all’amore tutti i giorni con Girolamo tra i pini della tenuta. Questo almeno finché entrambi non passarono a miglior vita, schiacciati dal tronco di uno degli alberi che, cadendo, li aveva sorpresi ancora nudi nel bel mezzo di un amplesso.
Il Genoveffo venne tradotto in centoquaranta lingue e cinquecentoventisei dialetti. La casa editrice Romancecco divenne la più rinomata al mondo, e a più riprese intervistarono l’editore, il quale ogni volta ricordava nuovi dettagli su come avesse scoperto quell’opera. Al termine di una di queste interviste, in cui aveva giurato che il manoscritto gli era stato presentato in uno scrigno dall’arcangelo Gabriele, Romancecco stramazzò al suolo, fulminato da un malore. La sua salma fu tosto traslata al cimitero di Fubigazzi, e tumulata con tutti gli onori ai piedi del mausoleo del Sommo, a eterna memoria di colui che aveva rivelato al mondo quel capolavoro.
Il piccolo Franchino ciondolava in piazza Sberleffi, diretto alla biblioteca pubblica. Soffiava e sbuffava, ma sapeva che non poteva mancare anche quella consegna, altrimenti la mamma gli avrebbe tolto i videogiochi per un mese. A lui, leggere, proprio non piaceva. Sì, vabbè, magari un fumetto di tanto in tanto, se glielo prestavano gli amici. Ma anche quelli diventavano presto noiosi.
E così sbuffava e soffiava, a passi svogliati, tirando calci ai tappi di bottiglia, finché non giunse davanti alla statua che svettava all’ingresso della biblioteca. Era di bronzo, e ritraeva Caetano Sberleffi sulla sua bicicletta, con la divisa da postino, e una manciata di lettere in mano sollevate sopra la testa. Per la verità l’artista s’era lasciato prendere un po’ la mano, perché la bicicletta era impennata come un cavallo in battaglia, e Caetano sembrava domarla come un generale, brandendo le lettere quasi fossero una spada. Perfino il cappello da postino ricordava un po’ il bicorno napoleonico.
A Franchino quella statua era sempre sembrata buffa, ma mai come quella, più piccola e defilata, di donna Dina e Gerolamo, abbarbicati nudi contro un tronco come scimmie. Per non parlare di quella di Romancecco, sul lato opposto della piazza, inginocchiato in preghiera e con gli occhi strabuzzati mentre un angelo gli apriva davanti un cofanetto. Ma Franchino sapeva che a Fubigazzi la storia di Caetano Sberleffi era motivo d’orgoglio, e tutto quello era parte della sua storia. Così come il compito che gli aveva assegnato la maestra.
– Sì, però che rottura –, si disse.
Passò davanti a un vecchio mendicante, con la pelle annerita e vestito di stracci, senza quasi farci caso. Aprì infine le porte a vetri.
– Benvenuto, piccolo –, lo accolse la voce chioccia della bibliotecaria da dietro il bancone. Era una vecchia con i capelli tinti di un arancione mandarino, le gote rosse di fard e lunghe ciglia finte su un viso pallido e cascante. – Come posso aiutarti?
– Devo leggere il Genoveffo e fare il resoconto per la scuola.
– Oh, ma che bel compito! Sei fortunato, abbiamo l’edizione illustrata. Otto volumi, con un’immagine per ogni frase.
– Ma io…
– Oh scusami, sei già un ometto, vero? Hai ragione, i libri illustrati sono per bambini. Allora lì puoi trovare l’ultima edizione commentata. Quaranta volumi, una parola per pagina, ciascuna accompagnata dalle note di Alberto Rimbombo. Ottima per chi si avvicina al testo per la prima volta.
– Ma ecco…
– Sei un lettore esigente, eh? Forse preferisci l’edizione curata dalla Congrega della Semola. La trovi là: duecentocinquanta volumi, una lettera per pagina, ognuna con le esegesi più autorevoli degli ultimi trent’anni.
– Ma veramente…
La bibliotecaria lo squadrò.
– Non sei un po’ troppo presuntuoso, figliolo? L’edizione definitiva con analisi molecolare occupa tutto il secondo piano. Forse è eccessiva anche per te.
– Io volevo solo il testo.
– Ma come? – si scandalizzò la bibliotecaria, – senza immagini? Senza commenti? Senza approfondimenti? E come pensi di comprendere da solo il Genoveffo di Staburra? Lo spirito, l’ironia? Alla tua età poi? Non dire sciocchezze! Qui ci teniamo alla cultura.
Franchino fece spallucce e si diresse all’uscita, mentre la bibliotecaria borbottava alle sue spalle.
– Tanto non avevo comunque voglia di leggerlo –, si disse.
Non appena richiuse la porta alle sue spalle, udì un bisbiglio.
– Psst! Ehi, bambino! Qui!
Si guardò intorno: era il vecchio mendicante con la pelle annerita.
– Ho quello che cerchi –, e mostrò un fascio di fogli sotto i cenci.
La mamma diceva sempre di non fidarsi degli sconosciuti. Ma in fondo anche la bibliotecaria era una sconosciuta e non gli aveva fatto niente di male. Si avvicinò.
– Non l’hai trovato, eh? Quella gente non capisce nulla. Se vuoi capire un libro, non devi farti influenzare dalle idee altrui, fidati solo di te stesso! Sono anni che lo dico, e mi cacciano sempre da tutti i circoli letterari.
– Lei è un professore? – chiese Franchino.
– No, sono il figlio di donna Dina. E di Caetano. Credo. Non lo so a dire il vero, non è mai stato molto chiaro. Infatti non ho mai visto un soldo dell’eredità. Forse è anche per questo che mi cacciano.
– E lei ha un Genoveffo senza commenti.
– Oh sì, sì –, e gli consegnò il fascio di fogli. Erano fotocopie sbiadite, di un testo composto come un mosaico o una lettera anonima, con caratteri e parole disallineati, il tutto tenuto insieme da una spirale di plasticaccia. Ma almeno era solo un volume.
– Posso tenerlo?
– Eh, bambino, io devo pur mangiare… – Strofinò il pollice e l’indice, con una scintilla negli occhi. – Qui la gente si ricorda di Caetano Sberleffi, ma si dimentica di chi sta ai margini della sua storia.
Franchino cercò in tasca e tirò fuori qualche spicciolo. Avrebbe potuto forse metterli da parte per comprarci un videogioco. Ma se non consegnava nemmeno quel compito la mamma l’avrebbe messo in castigo. Si strinse nelle spalle, diede il denaro al mendicante, e tornò a casa. Soffiava e sbuffava, tirando calci ai tappi di bottiglia, con in mano le sue fotocopie.
Lettura e commento – Genoveffo di Staburra
Franchino Sincerelli, classe 4a sezione A
A me questo Genoveffo di Staburra non mi è piaciuto tanto, non capisco perché è così famoso e cosa ci trova la gente che lo leggie.
Prima di tutto non si capiscie chi è il protagonista, Genoveffo non compare mai a parte il titolo, che poi anche quello non è che è granché, poteva scegliere un nome più bello.
Poi la storia non cè, sono pezzi messi a caso che non hanno senso e non centrano gnente. Certi personaggi saltano fuori qua e là, magari in delle lettere, ma molti spariscono e non si vedono più, e se riappariscono uno non ricorda più chi sono.
Insomma, per me questo libro è più scemo delle storie che raccontava nonno Ciccio quando che ci aveva preso la demenza.
Secondo me lo scrittore che era postino ci ha fatto uno scherzo a tutti e ha fatto stampare lettere a caso che portava in giro.
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Questa piccola facezia letteraria è dedicata a @Marcello, perché l'idea mi è venuta mentre discutevo con lui nel topic che ho aperto qualche giorno fa.
