commento: Sanguemadre
Reuven
Abigaille era rimasta vedova, abbandonata da tutti e con un bambino che si chiamava Reuven. Il bambino era nato con i piedi ed entrambe le mani atrofizzate e l’unica cosa che poteva fare era chiedere l’elemosina, trascinandosi con due stampelle di legno per le strade di Gerusalemme. Mostrava con pietosi lamenti le sue menomazioni alla gente, specie nei dintorni del Tempio, frequentato da uomini devoti che spesso elargivano qualche moneta.In quel periodo di Pesach le strade polverose, i mercati coperti da tende di vari colori, piene di ogni genere di mercanzia, di umanità vociante che andava e veniva indaffarata e sudata, che si recava a Gerusalemme per vendere, comprare o fare le offerte al Tempio, tutto questo era quello che Reuven credeva fosse il mondo.
Talvolta Reuven scendeva alla piscina di Siloe, dove gli uomini si recavano per le abluzioni prima di salire al Tempio. Gli piaceva quel luogo di frescura circondato da muri di pietra bianca sotto il sole. Scendeva trascinandosi sulle scale per bagnarsi, unendosi ad altri disgraziati come lui che speravano di ottenere un miracolo quando l’arcangelo Gabriele avesse increspato l’acqua con il movimento delle sue ali. Reuven non aveva mai assistito a un miracolo, ma sentiva dire che accadevano. Bisognava confidare nel Signore.
Si accontentava di levarsi a fatica la kefiah e immergere la testa nell’acqua per lavare i suoi capelli neri e arruffati.
A volte saliva al Tempio, dove sapeva che dimorava il Signore. Avrebbe voluto comprare una tortora o un piccione con dell’incenso da offrire in sacrificio perché il Signore lo prendesse in considerazione, ma gli veniva detto che viste le sue condizioni lui o i suoi genitori dovevano essere dei peccatori e il Signore non lo avrebbe esaudito. Alle sue insistenze veniva cacciato e talvolta deriso.
Allora andava a sedersi ai piedi della scalinata che portava alla fortezza Antonia, dove nella bella stagione risiedeva il procuratore romano e i suoi legionari. Lì veniva lasciato in pace perché gli ebrei non si avvicinavano per timore di contaminarsi, considerando quel luogo impuro per la presenza dei pagani, e uno scherno sacrilego per il fatto che la fortezza romana confinasse con il sacro Tempio.
I soldati romani guardavano Reuven con indifferenza. Solo una volta un legionario si era staccato dagli altri per dargli un calcio con le sue pesanti caligae e sputargli addosso rivolgendogli la parola in latino, che Reuven non capiva. Un altro soldato più anziano aveva detto qualcosa al suo compagno, lo aveva calmato e poi, rivolgendosi in ebraico a Reuven ─ Trovati un altro posto ragazzo. Dammi retta. Qui non è aria buona per te.
Reuven da allora aveva evitato di sedersi sotto le scale della fortezza Antonia.
Ma era Pesach, c’era tanta gente a Gerusalemme, perciò si mise in cammino; doveva portare qualche soldo a sua madre, nella piccola stanza di pietra che era la loro casa.
All’ingresso di una piccola piazza circondata da un mercato di tende cercò il suo angolo preferito, una nicchia formata da pietre accatastate all’ombra di un olivastro, dove poteva poggiare la schiena. Sistemò le stampelle da una parte per sedersi quando notò con disappunto alcuni escrementi di bue che ancora fumavano, emananti un forte odore di paglia fermentata che si mescolava agli odori del mercato e alla polvere sollevata dal passaggio di uomini e animali. Mentre guardava si avvicinarono alcuni ragazzi che giravano sfaccendati. Lo circondarono.
─ Salve pezzente castigato da Dio! Come mai non ti siedi al tuo posto? C’è qualcosa che non ti piace?
Reuven li conosceva: altre volte lo avevano dileggiato e picchiato per divertimento. Sapeva che qualunque risposta avrebbe dato lo avrebbero preso a calci. Quando gli ripeterono se c’era qualcosa che non gli piaceva chinò il capo scuotendolo lentamente, come per dire che tutto era bene, accennando anche un lieve sorriso.
─ Ma quanto è brutto! ─ disse un ragazzo.
─ Già! E anche poco civile! Rifiuta il nostro invito a sedersi!
─ Perché rifiuti un nostro invito, pezzente? Vuoi offenderci?
Reuven fece cenno di no, cercando di prendere le stampelle per spostarsi da quel luogo, ma un ragazzo le allontanò con un calcio. Un altro gli mise la mano sul petto e lo spinse facendolo cadere in mezzo agli escrementi, suscitando l’ilarità generale dei suoi compagni e di alcuni passanti che guardavano la scena divertiti.
─ Hai detto qualcosa, pezzente?
Reuven, attraverso un velo di lacrime fece cenno di no, che andava tutto bene. Gli diedero qualche calcio, stando attenti a non sporcarsi i piedi, insistendo perché parlasse. Reuven, sdraiato sul letame, tese verso di loro le mani rattrappite unite a formare una coppa, nel suo abituale gesto di richiesta di elemosina, altalenando il capo avanti e indietro e mugolando lamenti mischiati al pianto. Soddisfatti i ragazzi se ne andarono, ma Reuven non osava alzare la testa, continuando a tenere le mani tese, incurante dell’odore del letame. Poi, quando fu sicuro che erano lontani, stanco, abbassò le mani per riposarsi, tenendole aperte sul grembo, osservando le mosche azzurre e verdi che gli volteggiavano intorno posandosi sulle sue vesti sporche.
Qualcuno si fermò davanti a lui. Reuven guardò appena, senza alzare lo sguardo. Vide due sandali impolverati che avvolgevano i piedi di un ragazzo che stava fermo in silenzio, non se ne andava. Non lo distingueva bene perché aveva il sole alle spalle, vedeva la sua lunga tunica di lana chiara, chiusa in vita con una fune, la kefiah intorno alla testa le cui falde si muovevano appena al leggero e caldo vento di scirocco.
Forse era uno di quelli che lo avevano tormentato; era tornato indietro per vedere se era rimasto dove lo avevano spinto. Gli tese le mani in tono supplichevole di elemosina, muovendo la testa avanti e indietro.
Il ragazzo si chinò verso di lui. Aveva il viso cotto dal sole, occhi grigi. Allungò una mano verso Reuven e questi, convinto che volesse picchiarlo, chinò il capo posandolo sopra i suoi piedi, piagnucolando in segno di supplica.
─ No. ─ disse il ragazzo sollevandolo con dolcezza.
─ Non avere paura ─ ripeté con un sorriso dolce e triste, mettendogli una mano sul capo.
Il buio e il silenzio scesero su Reuven.
Reuven riaprì gli occhi. Era tutto come prima. Ma era tutto diverso. La polvere sollevata dallo scirocco e dalla gente nella piazza del mercato era di un giallo oro che saliva al cielo e il vociare e urlare delle persone in diverse lingue sembrava una musica che si mischiava al loro sudore, all’odore delle mercanzie e a quello degli animali.
Reuven non riusciva a capire perché le sue mani e i suoi piedi ora fossero come quelli degli altri, e si muovessero come voleva lui. Guardava affascinato le dita che affondavano nella terra, sollevandola e facendola scorrere fra i palmi; si toccava la tunica e i piedi non più rattrappiti, sussultando di gioia.
Cosa gli era successo? Non aveva mai fatto un bel sogno, ma questo era davvero troppo bello.
─ Alzati ─ disse il ragazzo.
─ Non posso… Mio signore, non posso!
─ Alzati.
Reuven allungò le mani verso le stampelle, ma il ragazzo mise la sua mano sopra le sue fermandolo. Era una mano così calda, come se avesse la febbre.
─ Devi alzarti.
Era un comando dolce, il suo sguardo era buono.
Lentamente Reuven si alzò e quando fu in piedi ansimava come dopo aver scalato un monte. Sorrideva.
─ Sei stato tu? Sei un angelo? Sei un mago?
Anche il ragazzo sorrise, un sorriso bellissimo, facendo cenno di no e invitandolo a seguirlo con un cenno della testa.
Reuven lo seguì, guardandosi i piedi mentre camminava, poi le mani. Si voltò e vide le stampelle dalle quali si stava allontanando. Voleva tornare indietro a riprenderle.
─ Non ne avrai più bisogno ─ disse il ragazzo.
Qualcuno si girava a guardarli, ma senza farci troppo caso. A Gerusalemme c’erano tante persone per Pesach e venivano da tutte le parti. Non c’era niente di strano in quei due ragazzi del popolo.
─ Dove mi porti?
─ Alla piscina di Siloe.
─ Non sono mai riuscito a toccare l’acqua mossa dall’angelo.
─ Non ne hai più bisogno.
─ Perché vuoi andare alla piscina di Siloe?
─ Dobbiamo lavarci prima di salire al Tempio. Tu non vorrai mica andarci con i vestiti sporchi di letame?
─ Al Tempio? Ma non mi faranno entrare!
─ Potrai entrare, invece.
Reuven provò una nuova gioia nel scendere i gradini che portavano alla piscina, nel toccare le pareti di pietra scaldata dal sole che gli facevano guizzare il sangue nelle vene. Per la prima volta apprezzava di essere vivo e tutte le cose che avrebbe potuto fare per aiutare sua madre. Ma chi era quel ragazzo misterioso che lo aveva guarito? Era un mago?
─ Non sono un mago ─ gli disse il ragazzo girandosi e fissando i suoi occhi dentro i suoi. Sembrava dispiaciuto. Reuven si rese conto che gli aveva letto nella mente, di essere la fonte di quel dispiacere. Si prostrò ai suoi piedi dicendo ─ Perdonami!
Il ragazzo lo fece rialzare scuotendo il capo e sorridendo.
Si tolsero le tuniche rimanendo con una fascia intorno ai fianchi e si bagnarono nella piscina. Quando il ragazzo misterioso entrò nell’acqua questa si increspò leggermente intorno a lui, rimanendo in quello stato senza acquietarsi, come se le ali dell’angelo l’agitassero in continuazione. La gente gridava al miracolo. Molti malati toccarono l’acqua e sanarono. Nessuno badò a quel ragazzo che era già in età di discernimento della Legge del Signore e che si purificava come tutti prima di salire al Tempio.
─ Ma questa non è la mia tunica, questa non è la mia kefiah!
Diceva Reuven stupito del fatto che i suoi poveri panni, che aveva lasciato in un angolo assieme a quelli del ragazzo, fossero così puliti.
─ Invece sì. Vestiti.
Salirono al Tempio.
─ Hai fame? ─ disse il ragazzo fermandosi davanti a una tenda dove si vendeva del cibo.
─ Tanto! ─ disse Reuven.
Il ragazzo comperò due pezzi di carne d’agnello arrosto dall’odore fragrante, avvolti in foglie di vite, e ne porse uno a Reuven che lo addentò con avidità.
─ Io mi chiamo Reuven ben Zakaria, ma non ho più mio padre. Solo mia madre Abigaille che mi aspetta a casa. Lei non sta bene.
─ Quando tornerai a casa starà bene.
─ Come puoi saperlo?
Il ragazzo sorrise, come il sorriso di un bambino felice che ha fatto uno scherzo lieve e piacevole.
Anche Reuven sorrise. Con la bocca piena chiese ─ Non mi hai detto come ti chiami.
─ Yehoshua ben Yosef.
─ Non sei di Gerusalemme. Non mi sembra dall’accento.
─ Sono di Nazareth.
─ Ah, ecco. Ma sei qui da solo?
─ No. Con mio padre e mia madre. Ma è il terzo giorno che sono solo. Oggi verranno a riportarmi a casa.
─ Ma perché ti hanno lasciato solo?
─ Loro non mi lascerebbero mai. Ma io devo visitare la casa di mio Padre.
Reuven scosse il capo sorridendo ─ Non ti capisco. Ma se abiti a Nazareth…
Yehoshua sorrise anche lui, avvicinandosi al viso di Reuven, scuotendo la testa e sospirando. Reuven sentì il suo alito caldo profumato di carne di agnello. Non capiva, ma intuiva che questo Yehoshua non era un qualsiasi ragazzo. Forse un angelo? Solo un angelo poteva fare i miracoli. E Dio.
Yehoshua fissò per un attimo Reuven. Sembrava averlo sentito proferire questi pensieri, anzi: Reuven ne era sicuro. Ma questa volta Yehoshua non disse niente e Reuven, senza sapere perché, tremò di gioia.
Entrarono nel cortile del Tempio.
─ Ora devo andare ─ disse Yehoshua. ─ Prendi queste monete. Compra una colomba e dell’incenso per le offerte. Ti lasceranno passare.
─ Sì, ora sì.
─ Quando avrai finito, torna da tua madre. Provvedi a lei fino a quando diventerà vecchia e tornerà alla casa del Signore.
─ Ma io… Yehoshua, tu mi lasci… io… Voglio stare con te!
Reuven si inginocchiò ma Yehoshua lo prese per le spalle rimettendolo in piedi.
─ Mio Padre si ricorderà di te…
─ Ma perché, che c’entra tuo padre?
Yehoshua si avvicinò e lo baciò sulle guance. ─ Vai e vivi la tua vita. Io ora devo andare.
Reuven lo vide avviarsi con calma verso le scalinate del Tempio senza voltarsi. Aveva il passo sicuro, come di uno che sa dove andare, che sa di essere aspettato.
Reuven si toccò le guance sentendo ancora il calore di quei baci; avrebbe voluto sentirlo per sempre, come il fluire del sangue scorrergli nelle vene, come un fiume desideroso di riversarsi nel mare.
Come vivere senza Yehoshua, che aveva fatto un miracolo, Yehoshua, che gli sembrava di conoscere da sempre?
Provò a seguirlo con circospezione, sentendo piacere nel camminare libero, sano.
All’ingresso del Tempio, sotto un immenso androne delimitato da alte e possenti colonne di marmo c’era un numeroso gruppo di sacerdoti dalle lunghe barbe bianche, avvolti nei loro mantelli da cerimonia e preghiera, attorniati da numerosi pellegrini.
Vide Yehoshua arrivare in mezzo a loro, chinare con rispetto il capo e cominciare a parlare. E i sacerdoti lo ascoltavano intenti, senza interromperlo, senza cacciarlo.
Chi sei tu, Yehoshua ben Yosef?