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Mattinata qualunque per Giorgio Battero. Era in pensione da molti anni ormai e conosceva a memoria i particolari delle sue giornate tutte uguali, tutte da solo. Scendendo le scale del suo condomino, solo tre piani, l’ascensore non funzionava da un po’ ma sempre una certa fatica doveva fare, avvertì una sensazione nuova. Doveva essere la primavera alle porte, il sole che entrava a fiotti dai finestroni delle scale illuminava le pareti dell’androne di una luce particolare, nuova, che dava aria di festa. Ma quale festa, pensò contrariato. Poi si pentì; si rendeva conto di essere diventato scorbutico, ma sapeva di non essere cattivo. Questa consapevolezza gli fece inumidire gli occhi, le lenti degli occhiali si appannarono.
Quel giorno non aveva voglia di leggere il giornale ma lo comprò lo stesso: era una vecchia abitudine. Lo mise nella tasca del cappotto e con in una mano la sua inseparabile borsa di cuoio ricordo dei vecchi tempi e nell’altra un ombrello da vecchio gentiluomo, si incamminò verso i giardini pubblici.
Il suo piano era il solito: far colazione in un piccolo bar nei pressi, poi sedersi sulla sua panchina e… Vabbè avrebbe letto il giornale e soprattutto si sarebbe guardato intorno, era molto curioso. Avvertì di nuovo quella strana sensazione. Adesso si sentiva osservato. Guardò in giro ma non vide nessuno che lo guardasse direttamente; alcuni uomini e donne correvano in tuta ginnica, un gruppo di studenti, un paio di vigili che discutevano con qualcuno, nessuno si occupava di lui. Si sistemò meglio nella panchina, avvertì una sorta di bruciore allo stomaco forse la colazione, chissà.
Si alzò per andare a bere un po’ d’acqua da una fontanella vicina il cui scroscio d’acqua gli faceva compagnia e si sentì rinfrancato. Nel voltare la testa gli parve di vedere un’ombra sparire dietro la sua panchina. Si avvicinò, ispezionò ma non c’era nessuno.
Eppure… Guardò nel viale alberato a fianco del parco, gli alberi tutti verdi che andavano all’infinito li preferiva d’autunno con le foglie colore arancio luminose al sole tiepido, ma andavano bene anche adesso e poi… Il viale era lungo un paio di chilometri, che idea gli stava venendo di farseli a piedi? Non che gli avrebbe fatto male, si sentiva ancora abbastanza in forze ma non ne sentiva il bisogno. Però come tornava verso la panchina avvertiva il bruciore allo stomaco, camminando stava meglio, molto meglio. Una camminata allora, eventualmente al ritorno avrebbe preso il bus, così avrebbe passato la mattina e sarebbe tornato a casa in tempo per il pranzo. Gli occhi gli si inumidirono di nuovo. Era solo, era sempre solo davanti al suo pranzo che si preparava da solo.
Il fondo del viale appariva luminoso, come se stesse sorgendo il sole anche se era sorto dalla parte opposta. Giorgio camminava tranquillo, ma ogni tanto si voltava avvertendo qualcosa, ma non sapeva cosa. Aveva notato che come riprendeva a camminare un lieve soffio di vento alitava alle sue spalle smuovendo qualche foglia, cosa strana perché non c’era vento anzi: abitava nella città meno ventosa d’Italia.
In lontananza cime di monti innevati gli mandavano aria pura. Per quanto ci fosse un sole primaverile si era ancora in inverno, annuiva a sé stesso Giorgio. In fondo amava l’inverno e le camminate sotto i portici, con le vedute dei negozi e delle librerie. Si voltò di scatto convinto che avrebbe preso in fallo chi lo pedinava: aveva sentito chiaramente dei passi. Ma non vide nessuno. Però era strano: alle sue spalle il giorno sembrava appena più cupo di quanto non lo fosse davanti a lui. Più guardava avanti e più vedeva chiaro mentre alle sue spalle il cielo sembrava prepararsi a un acquazzone. Meno male che aveva l’ombrello e se la cosa fosse diventata grave si sarebbe fermato sotto una pensilina d’autobus.
Camminava da una mezzoretta e si chiedeva qual’ era lo scopo. Aveva smesso di guardarsi alle spalle, nonostante alcuni fruscii, spostamenti d’aria e rumori di passi. Si sentiva meglio andando avanti, non gli accadeva da molto. Vide un pullman d’altri tempi fermo davanti a una fermata. Era bianco e celeste, aveva una forma che non si usava più, bombato, come quelli della sua infanzia. Interessante, forse era stato ristrutturato per usi turistici. Si avvicinò e vide che avevano fatto un buon lavoro, il pullman era nuovo fiammante eppure apparteneva ad almeno ottanta anni prima. La targa era di quelle vecchie, con ancora pochi numeri, i cerchioni delle gomme sembravano opere d’arte, un forte odore di nafta aleggiava. La porta a fianco dell’autista era aperta, ma non c’era nessun passeggero che salisse.
Giorgio si avvicinò e vide un uomo d’altri tempi in uniforme azzurra da autista, con tanto di berretto e baffetti sottili che si voltò a guardarlo in silenzio.
Giorgio decise di salire, aveva tutto il tempo che voleva.
—Scusi, per il biglietto come faccio?— domandò spaesato.
—Già pagato— rispose l’autista. E aggiunse —Chiudete la porta, per piacere.
Già pagato da chi? Ma Giorgio non ci fece caso e chiuse la portiera. Si sedette ai primi posti, familiarizzando con il rumore del motore, con l’odore di pelle dei sedili. Non aveva idea di dove stessero andando, proseguiva sempre dritto fuori città, verso la campagna. Guardò attraverso il finestrino appannato una sequenza di ville sparse che si diradavano sempre più per dar luogo a una zona collinosa cosparsa di alti filari di vigne appena potate che si ergevano come pianure infinite di crocefissi grigi.
Calò una nebbia repentina. Quando si diradò c’era il sole, intorno numerose case basse. L’autista fermò, si alzò, aprì la portiera.
—Siamo arrivati— disse con un sorriso.
—Dove siamo? Non ricordo…
—Troverete facilmente la strada.
—Ma chi ha pagato il biglietto?
—La vita.
Giorgio scese, vide il pullman allontanarsi e sparire dietro una curva. Si guardò attorno, la strada era sterrata, larga e pulita, a un lato un filare di alberi, all’altro una sequenza di case inframmezzate da larghi spazi vuoti, bambini che si rincorrevano festosi, qualche rara macchina d’epoca parcheggiata, addirittura dei carretti con cavalli che passavano placidi. Ma che posto era quello? Forse uno di quei villaggi turistici a tema storico pensò Giorgio, non sapeva che ce ne fossero intorno alla città, ci sarebbe venuto prima perché… Era incredibile che quel luogo gli ricordasse il borgo della sua infanzia e quei bambini…
Uno gli si avvicinò correndo, aveva il fiatone, pantaloncini corti e maglione rappezzato.
—Giorgio! Ti cerca tua madre!
Ma era Vittorino!
—Cosa?
—Tua madre! È ora di mangiare!— disse allegro il bambino tornando a correre verso il gruppo di case.
Ma perché tutto sembrava diventato così grande? Camminò, camminò attento a non inciampare.
—Ma puoi tornare a correre Giorgio!— disse una voce alle sue spalle. Si girò e non vide nessuno. Abbassò lo sguardo e vide che aveva gambe bianche da bambino uscire da pantaloncini corti di velluto azzurro che ricordava gli fece sua madre tanto tempo fa e i piedi calzavano sandali consumati dall’uso… Ma ora?
Un’ombra lo sovrastò. Sua madre, giovane e sorridente che lo chiamava. Giorgio sentì il cuore scoppiargli di felicità. Mi verrà un infarto, pensò. No. Sono un bambino. Mamma! Mamma! Le corse incontro e l’abbracciò rendendosi conto che le arrivava appena alla vita. Ma andava bene, andava davvero tutto bene. La madre sorrise —È tutto il giorno che non ti vedo! Mi stavo preoccupando!
—Anche io non ti vedevo da molto, da molto sai?
Giorgio, senza mollare l’abbraccio, chiuse gli occhi immergendosi in tutto. Qualunque cosa stesse succedendo non voleva saperlo. Non ancora. Gli bastava essere con sua mamma. Non voleva sapere cosa fosse successo. Non ancora.
—Questo povero vecchio sta male, chiamate un’ambulanza!
—Mi sa che è andato, poveretto!
Una piccola folla si era radunata davanti a una panchina dei giardini, dove un vecchietto elegantemente vestito con una borsa di pelle al fianco sembrava dormire, la testa reclinata, un sorriso dolce sul volto.