Traccia di mezzogiorno: Dopo la battaglia
La notte dei cani soli
E la notte è caduta nel silenzio. È la notte dei cani soli, dei buchi alle finestre e sopra le lamiere pubblicitarie dell’Algida, nei bar ormai relitti. È la notte dei jeans stesi ad aspettare inutilmente e delle altalene fantasma, della gente persa e dei cocci sparsi da raccogliere.
La battaglia è finita, per ora, non c’è più nessuno da ammazzare.
Quello che sembra pace, stasera, è qualcuno che canta una canzone triste, da sopra i minareti e si riesce a sentirlo anche da qui, da questo buco, dove mi hanno detto di stare. Sicuramente è un cecchino ubriaco o un moribondo: canta in mezzo al fumo che ancora non si estingue, mentre l’immagine scura dei suoi contorni vola a sfogarsi contro le stelle.
Ora basta. Dorma, pure chi può dormire, domani sarà.
L’alba, con le sue ombre basse, trasforma i contorni delle cose. Dal mio nascondiglio, sopra un’altura vicino il parco giochi, vedo i ricami lasciati dalla guerra, sopra i muri: pezzi storti disseminati ovunque. Tra ciabatte di gomma abbandonate vicino alle baracche sventrate, i portoni divelti mostrano le gole scure, deserte, restano impresse testimonianze delle persone mancanti: gli stracci e i fagotti abbandonati in fretta sopra i divani, le tavole apparecchiate, i libri aperti. Tracce di qualcuno, mai stato indispensabile, tranne che per i cani che uggiolano ogni tanto, mentre cercano la mano dei loro padroni. Eppure, sembrano belli questo silenzio e quest’assenza di guerriglia: A sud i banani si stirano le foglie e gli uccelli fanno la spola dal nido alla preda. La bellezza non ha libri antichi sui quali giurare, non risente delle vesciche dei piedi scalzi, e delle pance vuote e dei territori da spartire e dei nostri tormenti umani.
La bellezza c’era ovunque anche ieri, quando si sparava e si moriva.
Oggi non si spara, oggi si cerca il cibo, l’acqua e le medicine; ci si arrende, sempre poco a poco, al tempo che passa? alla tregua? alla fine della guerra? Non si vede il rosso degli incendi nelle case e non si sentono più le grida dei feriti. È per questo motivo che la mia città stamattina sembra distratta. Non si combatte e Lei ha girato lo sguardo alle sue spalle, ferita, si è tutta accucciata, si è raccolta stretta stretta, dai tetti sfondati alle macerie sull’asfalto: poggia in mezzo allo sfacelo ma non lo vede. Eppure, a nord, le file dei profughi sono già grosse, le pale degli elicotteri la scuotono, la sorvegliano dal cielo. Passano in rassegna le strade e le campagne e Lei trema, girata verso sud. Anfibi e mitragliatori, ai posti di blocco, la fanno arrendere più di quanto non abbia già fatto, ma Lei guarda lontano, verso il lago e i banani che si piegano al vento, senza resistere: stanno al gioco, alle regole antiche che creano bellezza.
Adesso, l’ombra della moschea traccia il confine tra terra e acqua. Io da qui non riesco a immaginare.
È mezzogiorno, e io non so se aspettare, arrendermi o morire. Non so se, stare da una parte o dall’altra, abbia più un senso o se ne abbia mai avuto uno. Mi sembrava di sì, ma ieri ero giovane, avevo solo quindici anni e credevo alle storie di mio padre, come lui a quelle di suo padre; oggi la mia città volge le spalle e io ho guardato dalla stessa parte, forse non avrei dovuto. È mezzogiorno e io non so decidere se devo morire, arrendermi o aspettare. Non riesco a immaginare in quanti siamo rimasti, potrei essere solo, unico superstite a sostenere la causa, se decidessi di morire ora, potrei averlo fatto per nessuno, morire per niente sarebbe davvero stupido.
Potrei arrendermi nessuno lo saprebbe mai. “Non puoi mai arrenderti, morire per la causa è un privilegio”.
La bocca scura che mi protegge è fresca ma puzza di fogna, la cintura è pesante, dovrebbe passare un plotone qui vicino e potrei alleggerirmene con un botto che si sentirebbe fino all’altra sponda del lago. Ce ne sono molti come me, siamo nascosti nei tunnel, la battaglia è finita, ma venite a cercarci e vedrete quanto è grande il nostro Dio. Vedrete quanto è largo il confine che ci separa. Sentirete la nostra voce potente che vi farà tremare.
“Non puoi mai arrenderti, morire per la causa è un privilegio”.
Eppure, a volte tentenno, anche i gatti si stanno organizzando, sentono odore di topi e sono qui, sopra la botola appena sollevata che mi fa pure da ombrello: il sole, anche lui oggi sembra pieno di pace; scalda ma non tanto, riesco a sopportarlo. La fame invece no, non ci riesco, mi è rimasta soltanto una barretta, una di quelle che forniscono loro, quelli che ci hanno reclutato e addestrato, con quel libro antico e con le storie di mio padre e il padre di suo padre. Eppure a me piacevano i gatti, che adesso io debba farne una strage mi da la nausea. “Andate via, per favore, se mi scoprono per colpa vostra, io dovrò morire e voi con me!”
Anfibi e mitraglie, passi veloci e gesti eloquenti: ci stanno cercando! Sanno dove siamo, e io non posso arrendermi, anche se non è per niente un privilegio, morire in buco a quindici anni.