Traccia di mezzogiorno. “Padrone del tempo”
Il difficile non è iniziare ma finire ciò che abbiamo avviato. Certi processi, una volta attivati, paiono respirare di vita propria. Senza rendercene conto si conficcano nella testa e banchettano col nostro corpo e coi pensieri.
«Nellie, venga nel mio ufficio.»
Dopo anni di gavetta sono approdata al New York World. Joseph Pulitzer ha apprezzato la mia schiettezza: non tollererò un giorno in più di sprecare il tempo in articoli di giardinaggio e moda femminile. Le casalinghe di New York dovranno fare a meno dei consigli di Nellie Bly.
Mi siedo, mentre lui non distoglie un attimo lo sguardo. Mi fissa dritto negli occhi e, a bruciapelo, esordisce:
«Ho in mente un‘inchiesta che farà tremare i polsi a parecchia gente.»
«Di cosa si tratta?»
«Il manicomio femminile nell’isola di Blackwell.»
Una stilettata mi arriva dritta nel cervello. Avrei bisogno di bere, in un attimo sono rimasta senza saliva.
«Dieci giorni, Nellie. Avrà dieci giorni per documentare ciò che accade tra quelle mura.Voleva parlare della condizione delle donne, no?»
«Nessuna parlerà con me se sapranno che lavoro per il giornale.»
«Certo, è per questo che dovrà agire sotto copertura. Finga un esaurimento, vedrà che sarà facile entrare nella struttura. Questa è la sua occasione, si faccia valere e scriva l’articolo più cazzuto che abbia mai pubblicato.»
Si sentono dire molte cose riguardo ai trattamenti eseguiti in quell’istituto. Negli ultimi anni il numero delle pazienti ricoverate è aumentato in modo considerevole. Mi fa piacere che Pulitzer mi abbia affidato l’incarico.
Torno alla scrivania, prendo il blocco degli appunti e qualche penna infilo tutto nella borsetta, indosso il cappotto e, sotto lo sguardo attonito dei colleghi, mi avvio verso l’uscita.
Attraverso la strada, entro nel primo bar e ordino un doppio bourbon.
Inizia lo show. Comincio a gridare e a fissare i clienti del locale come fossi in preda a una crisi isterica. Non ci vuole molto prima che mi trasportino all’ospedale.
Di fronte a un medico costernato e incompetente resto muta e non rispondo ad alcuna sollecitazione. Risultato: nel giro di ventiquattro ore vengo trasferita al manicomio. Paranoia dovuta a stress da lavoro. Del resto è risaputo: le donne dovrebbero occuparsi della casa, non fare i reporter.
Appena arrivata, mi fanno spogliare e mi infilano sotto una doccia gelata. Poi, senza farmi asciugare mi ordinano di indossare una camicia da notte leggera e piena di buchi.
Ho le unghie blu e non riuscirei ad articolare una parola neppure se volessi. Non riesco a fermare il tremito e il rumore dei denti che battono tra loro fa da colonna sonora a quello che resta dei miei pensieri.
A piedi nudi raggiungo la camera dove sono ricoverate almeno una trentina di donne. O quello che ne resta.
Si avvicinano e mi circondano. In altri momenti avrei avuto paura, ma ora quel calore umano mi conforta. Una di loro mi prende per i capelli e mi annusa. Vorrei reagire, ma cerco di restare tranquilla. Devono imparare a fidarsi di me.
«È una nuova.» dice quella che pare essere la più anziana del gruppo.
È come se avesse dato il via a una litania. Una dopo l’altra ripetono quelle parole in modo ossessivo. «È una nuova. È una nuova...»
All’improvviso entra un medico. Le donne si raggomitolano in silenzio ciascuna nel proprio letto. L’uomo mi scruta da capo a piedi.
«Domattina alle cinque inizieremo il trattamento.»
Mi rannicchio come posso nel letto. Non ci sono coperte, solo un lenzuolo ruvido e maleodorante. Col freddo non riesco né a pensare né a dormire. Non passa molto tempo che una di loro si avvicina e mi sussurra:
«Ciao. Mi chiamo Helen. Posso dormire insieme a te?»
Avere un corpo accanto è quanto di meglio potessi sperare. Forse riusciremo a scaldarci un po’.
«Ciao Helen, sono Elisabeth, ma chiamami Nellie. Vieni pure.»
«Grazie. Ho portato anche il mio lenzuolo, così ci possiamo riparare meglio dal freddo.»
«Ma non ci sono delle coperte?»
«Ci sarebbero, ma non ce le danno. Fa parte della cura.»
«Rimarrò qui con te per un po’, poi dovrò tornare nel mio letto. Non possiamo rischiare di essere punite.»
«Da quanto tempo sei qui?»
«Non ne ho idea.»
«Cosa ti ė successo?»
«È stato quel lurido di mio marito. Ha detto che andavo a letto con ogni uomo che incontravo. I dottori mi hanno diagnosticato non so più quale disturbo e mi hanno spedita all’inferno.»
«Ma tu non pensi di essere pazza...»
«Fino a oggi no. Ma domani chi può dirlo? Qui diventiamo tutte pazze.»
«Ce ne sono altre come te?»
«Che intendi?»
«Che non sono davvero malate.»
«Quando arriviamo siamo quasi sempre sane. Ce n’è una che l’hanno ricoverata perché non capisce la nostra lingua. Dicono che è una specie di demente, ma io credo che sia solo una straniera.»
Il fetore di urina appesta l’aria. C’è un solo bagno per cinquanta donne e molte pisciano in terra. Alcune strillano, altre digrignano i denti. È impossibile prendere sonno.
Il mattino arriva comunque.
La colazione consiste in una tazza di liquido lattiginoso e due biscotti ammuffiti.
Le infermiere ci vengono a prelevare e strattonandoci ci conducono nella stanza della terapia.
In quel buco non ci sono finestre, solo delle panche su cui ci fanno sedere a suon di calci e offese.
Dobbiamo stare ferme e zitte dalle sei del mattino fino alle otto di sera.
Non ci possiamo alzare neppure per i nostri bisogni e se qualcuna si lamenta viene picchiata senza troppi riguardi.
Sinceramente non so se riuscirò a portare a termine l’incarico restando sana di mente. Faccio appello a tutta la mia forza. Devo dare un aiuto a queste donne. Tutti devono sapere. Denuncerò medici, infermieri e arriverò fino al gran giurì se sarà necessario.
Questa specie di zoo deve essere chiuso. Aveva ragione Pulitzer, salteranno delle teste per questo. Non sono mai stata più felice di aver lottato per il mio lavoro. Sono una cazzo di giornalista con gli attributi.
I miei dieci giorni all’inferno non saranno spesi invano.