Il lago dei nomi perduti
Pioveva da giorni. Di quella pioggia fina, ostinata, che non lava via niente ma si insinua nelle crepe delle case, delle ossa, della memoria. Luca Calfiero, ragioniere in pensione da dieci anni e dimenticato da almeno venti, fissava la porta del suo appartamento da un tempo indefinito. Non guardava più l’orologio, da quando aveva smesso di avere appuntamenti. E persone. E giorni che valesse la pena distinguere l’uno dall’altro.
Davanti alla porta, appoggiato con cura, come un dono di compleanno, c’era un oggetto. Il terzo in tre notti. Un fischietto arrugginito. Non era uno qualunque. Lo riconobbe subito, con quel tremito vago che prende lo stomaco quando il corpo si ricorda prima della mente. Il metallo freddo e smangiato sembrava ancora portare l’eco di voci infantili, corse nei cortili, ordini gridati da educatori stanchi.
Era l’identico modello che usavano all’orfanotrofio. Un ricordo che non era mai andato via.
Lo prese tra due dita, come se bruciasse. Lo girò, lo osservò sotto la luce gialla del corridoio. Nessuna firma, nessun biglietto. Ma non servivano spiegazioni. Il messaggio era chiaro. Qualcuno scavava nel passato. Nel suo passato.
Rientrò in casa senza chiudere la porta del tutto. Sedette nella penombra, il fischietto in mano, la schiena rigida, il viso immobile come pietra antica. Lo poggiò accanto agli altri due oggetti: una cartolina turistica con la foto del lago di Jassen e una chiave arrugginita.
Tre notti, tre ricordi. Tre colpi di scalpello nella facciata che si era costruito per non vedere la crepa.
E poi, quella sera stessa, il quarto.
Lo trovò alle 2:13. Aveva aperto la porta per l’ennesima sigaretta, ormai fumatore notturno da quando aveva smesso di dormire davvero. Sullo zerbino, una busta nera, sottile. Dentro, un foglio. Nessuna intestazione. Una sola frase:
Perché hai ucciso Vittorio?
La calligrafia era incerta. Incerta ma decisa, come quella di un bambino che ha imparato da solo a scrivere, inciampando in ogni lettera ma senza mai fermarsi. Eppure, le parole erano chiare.
Vittorio.
Un nome che non sentiva pronunciare da… cinquant’anni? Sessanta?
Un nome che non esisteva più.
─ No... ─ , mormorò. Non era un’esclamazione, ma un rigetto istintivo. Un rifiuto viscerale, come sputare una medicina amara. Vittorio era esistito. Eccome se era esistito! Ma chi poteva saperlo, adesso, oltre a lui?
Rimise la lettera sul tavolo, accanto al fischietto, alla cartolina, alla chiave. Ogni oggetto un morso che si chiudeva lentamente intorno alla gola della sua vita. Ogni oggetto una fessura in quella prigione ben sigillata che era riuscito a farsi passare per una coscienza pulita.
Andò in cucina. Aprì il frigorifero. Bottiglie d’acqua, qualche avanzo scaduto, il vuoto. Nient’altro.
Si versò del whisky da una bottiglia nascosta dietro una fila di libri in una piccola libreria. Beveva solo quando le mani tremavano. E ora tremavano. Eccome se tremavano.
Sedette. Di nuovo. Come ogni notte. Il bicchiere tra le mani. Lo sguardo nel vuoto.
Quella voce che ogni tanto tornava, ora parlava forte. Un sussurro affilato:
─ Perché hai ucciso Vittorio?
Quel nome era sepolto. Sotto uno strato di burocrazia, documenti falsi, silenzi e sguardi bassi. Nessuno all’orfanotrofio se ne era occupato troppo, si era mai accorto. Nessuno aveva chiesto. Avevano dato per buona la sua versione del bambino che era allora: Vittorio era scivolato, annegato durante la gita. Niente da indagare. Niente sospetti. Solo un altro orfano morto, uno dei tanti che nessuno avrebbe mai cercato. Un funerale anonimo, pro forma. Solo un corteo di orfani vestiti di nero e un prete.
Ma lui lo sapeva. Lo aveva visto cadere. Lo aveva spinto.
Perché non poteva sopportare quell’amore rifiutato, quella voce limpida che rideva con gli altri, ma non con lui. Che non lo vedeva. Non lo voleva. E lui aveva tanto bisogno di qualcuno.
Ora, a distanza di una vita intera, qualcuno stava bussando.
No, non bussando. Spalancando.
Lago di Jassen, 1958
Le acque del lago erano ferme, immobili come uno specchio nero. Il cielo grigio piombo, greve d’umidità.
─ Non si può andare lì, è vietato ─, aveva detto Vittorio, posando la mano sulla spalla di Luca.
Aveva sorriso. Un sorriso gentile. Affettuoso. Ma non bastava. Non era mai bastato a Luca.
Luca ricordava perfettamente ogni dettaglio: le pietre scivolose, il respiro affannoso, le ginocchia che tremavano.
E poi quel pensiero. Breve. Acuto come un ago: ─ Se non vuoi stare con me, almeno nessun altro potrà.
La spinta fu un riflesso. Neanche un gesto. Solo una liberazione.
Il corpo cadde nel lago senza rumore. Nessun grido. Nessuna lotta. Solo un tonfo sordo e poi… il silenzio.
Adesso.
Luca, si svegliò sulla poltrona. Whisky finito. Il foglio ancora in mano.
Aprì la finestra. Il cielo era grigio. Sempre grigio per lui. Il quartiere silenzioso. Le case addormentate sembravano tombe.
Si accese una sigaretta con le mani ancora tremanti.
─ Chi sei? ─ sussurrò al vuoto. ─ Chi mi sta cercando?
Poi, come in risposta, notò qualcosa: una figura lontana, in fondo alla strada, ferma sotto un lampione. Immobile.
Forse era un’ombra. O forse no. Ma quando tornò a guardare… non c’era più.
Si tirò la vestaglia addosso. Guardò il tavolo.
Cartolina. Fischietto. Chiave. Lettera. E accanto, qualcosa che non c’era prima. Un braccialetto con perline colorate. Rosse, blu, gialle. Come quelli che facevano i bambini dell’orfanotrofio.
E Luca capì. Chiunque fosse là fuori... era stato anche lui all’orfanotrofio.
La luce del giorno filtrava dalla finestra in linee sottili e sporche. Il cielo era ancora piombo. Ottobre non voleva smettere di masticare i nervi.
Luca guardò la stanza come se fosse la prima volta. Tavolo, sedia, piatti nel lavandino. E quegli oggetti, sempre più numerosi. Il braccialetto giaceva lì, tra la chiave e la lettera. Le perline sembravano sorridergli con l’innocenza dei bambini. Di quando non sanno ancora quanto può fare male essere ignorati. Fece un passo indietro, istintivo. Come se l’oggetto potesse morderlo. Poi, lo vide. Un dettaglio che la sera prima non aveva notato.
Sotto il braccialetto, un bigliettino piegato in quattro. Lo aprì. Stessa calligrafia incerta:
Lui era luce.
Tu sei ombra.
Ma io ero invisibile.
Marco.
Luca sentì qualcosa stringergli lo stomaco. Una sensazione familiare. Marco.
Marco non lo voleva nessuno.
Marco. Un sussurro dimenticato. Marco, il ragazzino con il viso segnato da una malformazione, labbro leporino, forse qualcosa di più profondo, che viveva e si trascinava in silenzio tra i corridoi dell’orfanotrofio.
Non parlava quasi mai. Non giocava. Si aggirava tra gli altri come un’ombra. I bambini lo evitavano, i grandi lo ignoravano. Solo Vittorio gli rivolgeva la parola, ogni tanto. Un saluto, un sorriso. E lui, Marco, lo seguiva ovunque. Lo amava. Come Luca.
Luca si ricordò di una sera. Poco dopo la morte di Vittorio.
Marco lo fissava da lontano, con quegli occhi lucidi, sgranati, sbarrati dal dubbio. Pieni di lacrime. Non disse nulla. Ma sapeva.
Sapeva.
E non parlò mai.
Nell’appartamento, la luce era diventata opaca. Il tempo si era ritirato. Luca si passò una mano sul volto. Sentiva la pelle vecchia, la maschera della sua vita.
Andò verso l’armadio. Frugò nel fondo, sotto vecchi documenti, tra scatole dimenticate.
Ne tirò fuori una vecchia foto di un gruppo di bambini vestiti di nero. Tre figure in primo piano. Vittorio era in mezzo. Sorridente. Un sorriso pieno. Luca alla sua destra, che lo guardava. In un angolo, defilato, quasi nascosto dietro un albero, Marco.
La foto era sbiadita, ma il viso era riconoscibile. Deformato. E… pieno di dolore.
Luca fece cadere la foto. Il bicchiere si rovesciò. Si sentì osservato.
Si voltò di scatto verso la finestra.
Nulla. Solo pioggia.
Ma giurò di aver visto una figura oltre il vetro.
Bassa. Curva. Immobile.
Quella notte, non dormì.
Rimise in ordine gli oggetti sul tavolo, quasi fosse un altare. Cartolina. Fischietto. Chiave. Lettera. Braccialetto. Foto. E al centro, il nome: Marco. Il terzo angolo del triangolo.
Il fantasma ignorato.
Il testimone. In un luogo, l’orfanotrofio, uno spazio carico di fantasmi, dove il tempo si è fermato e i peccati restano incisi sui muri.
Ci mise un giorno intero a decidere. La notte, invece, non bastò per dormire. Quando alle prime luci dell’alba il sole filtrò tra i palazzi grigi come una lametta opaca, Luca era già in macchina, diretto verso la Casa San Michele, l’orfanotrofio dove tutto era cominciato, e finito.
Era chiuso da decenni, murato dopo uno scandalo dimenticato, eppure nessuno aveva mai osato buttarlo giù. Forse per dimenticanza, forse per paura. Alcuni luoghi non si distruggono: si lasciano marcire in pace.
Arrivò poco dopo le nove.
Nessuno in giro. Solo vento tra gli alberi e il cigolio di un cancello mezzo divelto.
Il tempo aveva mangiato tutto: la facciata era crepata, l’insegna scolorita. Ma l’odore era lo stesso. Polvere vecchia, muffa, ricordi che graffiavano la gola. Entrò da una finestra sfondata. Il corridoio era un labirinto di silenzi, pareti scrostate, vetri rotti, giocattoli dimenticati come ossa di infanzia.
Camminava piano, ma i passi sembravano urlare.
Poi, lo vide.
Una porta socchiusa. Una delle poche ancora intatte. Sul legno, inciso con un coltello o un chiodo, un nome:
“Luca + Vittorio”
E sotto, in un tratto più incerto, inciso a parte:
“Marco”
Luca si fermò.
Il cuore rallentò. Spinse piano la porta. Dentro, una stanza abitata. Brande improvvisate, coperte sporche, candele consumate. Un thermos. Libri.
E ovunque, oggetti del passato: fotografie, disegni infantili, medagliette. Reliquie. Al centro, un tavolo, con sopra tutti gli oggetti che Luca aveva ricevuto negli ultimi giorni. Identici. Come un doppio altarino.
Una sorta di museo del delitto e del silenzio.
Poi, una voce.
Bassa. Raschiata dal tempo.
─ Non pensavo saresti tornato.
Luca si voltò.
Marco.
Era più basso di quanto ricordasse, la schiena curva, il viso scavato dal tempo e dalla solitudine, ma la deformità era ancora lì, come un marchio. Il labbro superiore si sollevava in un mezzo sorriso perenne, storto, ma gli occhi… gli occhi erano lucidi, fermi. Occhi che avevano visto tutto, e taciuto tutto.
Marco si avvicinò, senza paura.
─ Pensavo avresti continuato a fingere. Come hai fatto per una vita.
Luca non rispose. Non subito.
Poi disse: ─ Perché adesso? Dopo tutto questo tempo?
Marco lo guardò come si guarda un insetto sotto vetro. ─ Perché sto morendo, Luca. E volevo sapere se tu… provavi qualcosa. Qualsiasi cosa.
Silenzio.
Poi, Marco aggiunse: ─ Perché lui me l’ha chiesto.
Luca aggrottò la fronte. ─ Chi?
Marco sorrise, ma senza allegria. Prese una scatola da sotto il letto. La aprì. Dentro, lettere. Pagine consumate. Un diario.
─ Vittorio scriveva. Ogni notte, sotto le coperte. Scriveva tutto. Anche di te, Luca.
Gli porse il diario, con un segnalibro. Luca lo aprì in quel punto.
"A volte Luca Calfiero mi guarda come se fossi l’unico al mondo. Ma io... io ho paura. Perché nei suoi occhi non c’è amore. C’è fame."
Luca abbassò lo sguardo. Tremava. Marco lo fissava. ─ Io l’amavo davvero. Non come te. Ma non ho fatto niente. Tu hai fatto troppo. Io… niente. E ora siamo due mostri, in modo diverso.
Luca richiuse lentamente la pagina del diario, le dita rigide come se tenesse in mano un oggetto contaminato.
Marco lo osservava in silenzio.
Il suo viso, deturpato, ma stranamente sereno, sembrava appartenere a un’altra specie. Uno che aveva già attraversato l’inferno, e ci si era fatto una tana.
─ Hai letto solo una delle sue pagine, ─ disse Marco. ─ Ce ne sono altre. Più dure. Più vere.
─ Basta, ─ sussurrò Luca. ─ Non serve.
Marco annuì. Ma senza compassione. Con un vago disprezzo.
─ Non serve, dici. Perché? Perché sei vecchio? Perché hai avuto il tuo tempo e ormai non c’è più nulla da salvare?
Luca lo guardò, svuotato.
─ Tu non capisci... ho vissuto tutta la mia vita per dimenticare quel giorno. Ma non ci sono riuscito.
─ Lo so. Hai vissuto come un ladro. Dentro una pelle non tua. Hai preso l’amore che io non ho mai avuto e l’hai fatto a pezzi.
─ Quale amore? ─ scattò Luca, alzando la voce per la prima volta. ─ Quello che non ti ha mai guardato? Che ti parlava per pietà? Lo amavamo entrambi. Ma tu hai taciuto. Io… io ho fatto quello che potevo.
─ Lo hai ucciso.
Il silenzio si fece pesante. Irrespirabile.
Luca si sedette sul bordo del letto. Le mani nei capelli.
─ Non l’ho voluto. Non era… premeditato. Ero solo… pieno. Di qualcosa che non sapevo come tenere dentro. Quando l’ho spinto… È successo. E poi… nessuno ha chiesto. Nessuno ha cercato. Lo sai.
Marco si avvicinò. Gli mise davanti una vecchia foto.
La stessa gita. Il lago. Loro tre fra gli altri.
─ Lo sai qual è la cosa peggiore? Non che tu l’abbia ucciso. Non che io non abbia parlato. La cosa peggiore è che… non ce lo ricordiamo più nemmeno bene. La sua voce. L’odore. Il modo in cui camminava. Tutto svanito. Abbiamo distrutto la cosa che amavamo.
Marco si lasciò cadere su una sedia traballante. Estrasse da sotto la giacca un flacone di pillole.
─ Ho un cancro, ─ disse. ─ Due mesi. Forse meno.
Luca lo guardò, senza espressione.
─ Per questo sei venuto a cercarmi? Per tormentarmi prima di andartene?
Marco rise. Una risata ruvida, senza gioia.
─ No, Luca. L’ho fatto perché non volevo morire da solo con tutto dentro. Tu sei la mia unica famiglia. L’unico altro mostro che sa di esserlo.
Restarono in silenzio per un tempo imprecisato. Fuori, il vento fischiava tra i corridoi dell’orfanotrofio, come un vecchio educatore che chiamava nomi che non esistono più.
Poi Marco si alzò.
─ Resta pure, se vuoi. Io non torno più qui. Tu sei bravo a nasconderti. Magari puoi diventare anche me, adesso.
Uscì dalla stanza, zoppicando, lasciando dietro l’eco dei suoi passi.
Luca rimase seduto.
Guardò le candele, le foto, gli oggetti. Un museo della colpa. E nessun visitatore.
Una settimana dopo, Marco morì. In un ospedale di provincia, solo. Nessun parente. Nessuna eredità. Nessun documento.
Luca, invece, non tornò più nella sua casa in città. La trovarono vuota, mesi dopo. Il frigorifero spento, la posta ammucchiata. Qualcuno disse di aver visto un vecchio barbone vivere tra le rovine dell’ex orfanotrofio, parlando da solo, accendendo candele davanti a una vecchia fotografia.
La polizia non indagò troppo. Era solo un vecchio pazzo in più.