Come pupazzi caricati a molla
Il cielo si rischiarò all’improvviso e le stelle nella volta celeste si spensero a una a una. Mentre si aprivano le imposte della taverna, il lattaio transitò con il suo carretto tirato da una coppia di asini e rivolse un saluto al fabbro, già impegnato nella sua fucina.
Maria si chinò sulla mangiatoia e Gesù sollevò il capo verso di lei. A Manuel sfuggì un “Oh” di meraviglia; era la prima volta che vedeva un presepio meccanico.
Il presepe era stato portato in paese da una compagnia di giostrai e artisti ambulanti che lo avevano sistemato nella piazza del mercato per le festività del Natale. La gente guardava incuriosita e anche Manuel si era fermato, bighellonando qua e là.
Gli sembrava di vedere un paese in miniatura, con strade e case, pastori che portavano il gregge, contadini, osti, carrettieri e una piccola grotta con il bambino Gesù e i suoi genitori, circondati dagli angeli che muovevano le ali.
─ Come fanno a muoversi? Sono di legno! ─ domandò Manuel a un uomo che stava seduto nei paraggi riparando una statuina.
─ Oh! Non è difficile. Li costruisco da sempre!
─ E come?
─ Vedi ─ disse facendogli vedere una statuina aperta di dietro ─ Bastano alcuni giri di chiavetta sulle spalle e all’interno girano queste ruote dentate grandi, che fanno girare le piccole, che spostano le levette, muovono le funicelle collegate alle braccia, alle gambe, alle teste e i personaggi si muovono. Ti piace?
─ Moltissimo! E non si vede niente! È tutto nascosto dentro le persone!
─ Eh, certo!
─ Anche gli uomini veri hanno quelle ruote dentro?
L’uomo guardò Manuel ridendo bonario sotto i baffi ─ Non dovrebbero ─ rispose. ─ Gli uomini nascono senza ruote dentate e meccanismi, camminano, fanno delle cose, pensano da soli e molti vivono così per sempre e sono felici perché fanno quello che vogliono. Altri, durante la loro vita, si mettono dentro da soli tante ruote dentate, grandi e piccole un poco alla volta, e a un certo punto non riescono più a muoversi da soli: hanno bisogno di qualcuno che gli giri la chiavetta per continuare a camminare, fare delle cose, pensare. Se nessuno li carica non si muovono, non fanno niente. Nemmeno spostano una sedia per passare se non glielo dice un altro di farlo, ci inciampano sopra e cadono.
─ Ma è una cosa un po’ stupida, mi sembra!
─ Molto stupida, Manuel. Anche perché lo hanno voluto loro.
─ Come sai il mio nome?
─ Ti dirò la verità: io conosco il nome di tutti i bambini che spostano le sedie quando le hanno davanti.
─ Io faccio davvero così! A casa e anche a scuola!
─ Lo so.
Manuel si mise a pensare. Quell’uomo gli incuteva fiducia, sembrava leggere nei suoi pensieri.
─ Come ti chiami? ─ gli chiese fiducioso.
L’uomo fece un gesto a indicare tutto quello che li circondava.
─ … E sono sempre io… ─ disse guardando pensieroso.
─ E dove vivi?
─ Ovunque.
─ Come Dio? O come gli zingari?
L’uomo rise. ─ Fantastico Manuel! Questa non me l’avevano ancora detta! È bello respirare come gli uomini!
─ E dimmi signore: perché gli uomini si mettono dentro quelle ruote per muoversi?
─ Bada bene: non tutti. Quelli che lo fanno è perché non hanno mai imparato e non vogliono imparare a fare qualcosa da soli, nemmeno se ne hanno la possibilità. Non solo per camminare: hanno bisogno sempre di qualcuno che gli dice come vestirsi, cosa comprare, cosa mangiare, quale idea seguire, quale altra no. Hanno bisogno di qualcuno che gli dice cosa pensare, cosa credere, cosa è bene dire e non dire. E loro fanno come gli viene detto, come le ruote che si sono messi dentro un poco alla volta gli permettono di fare.
─ Perché lo fanno?
─ Perché secondo loro è più comodo vivere così.
─ Chi gli gira la chiavetta?
─ Quelli che comandano.
Manuel si mise a pensare. Poi disse: ─ Non metterò ruote dentate dentro di me, nessuno mi girerà la chiavetta. A me piace fare solo quello che voglio.
─ Mi piacciono i bambini che pensano così.
─ Però devo obbedire a mia mamma e mio papà. Forse ho anche io delle ruote dentro?
─ No carino. Bisogna ascoltare i buoni genitori per essere in grado di cavarsela da soli nella vita. Quelli non sono ruote che ti fanno muovere: sono comportamenti da imitare, anche migliorando i loro consigli, perché da genitori buoni nascono figli buoni che perfezionano sempre le cose che hanno imparato da loro.
─ Ah, bene! Cosa vuol dire?
─ Che mestiere fa il tuo papà?
─ È un bravo muratore! Ha costruito case bellissime! Anche le strade! ─ disse Manuel entusiasta, con un gran sorriso e allargando le braccia.
─ Ti piace fare il muratore?
─ Costruire è bello. Ma vorrei fare di più da grande.
─ Ecco vedi? Se hai la passione di costruire che ti ha dato tuo padre vorrai fare di più. Potrai studiare e diventare un grande architetto, se lo vorrai.
─ Ah, ecco! Adesso ho capito! Grazie. Mi piace molto il tuo presepio, però mi dispiace che gli uomini non sanno muoversi da soli!
L’uomo annuì. ─ Un'altra cosa, Manuel.
─ Dimmi.
─ Quando un giorno lascerai il tuo paese per andare in città, ricordati sempre dell’esempio dei tuoi genitori e ricorda anche l’incontro di questo giorno.
─ Non me lo dimenticherò. Grazie signore.
Passarono gli anni e quando Manuel fu grande lasciò il paese e andò in città per continuare i suoi studi, promettendo di ritornare quando sarebbe stato qualcuno.
Ma nella scuola entrò quasi subito in contrasto su come veniva data l’istruzione, come se fosse un dogma sia sacro che laico, unico e indiscutibile. E lui voleva invece porre domande, discutere, controribattere. Non si trovò bene. Abbandonò la scuola. Non poté proseguire negli studi di architettura, pur essendone capace ma non avendo i titoli che servivano. Si aggirava infreddolito nella città illuminata per il Natale, ma lui non vedeva niente, non voleva tornare sconfitto al suo paese. Girovagò cercando un lavoro senza riuscirci e si ritrovò sbandato a mendicare nelle strade e dormire sotto i ponti. Suo malgrado e senza aver fatto nulla di male fu fermato dalla polizia. Capitò da un commissario che, intuendo che non proveniva dal mondo dei ladri, gli pose due alternative: finire in galera, dove si sarebbe perso per sempre, o arruolarsi nell’esercito imperiale, dove avrebbe avuto qualche possibilità di vivere meglio. Manuel guardò quell’uomo dall’aspetto gioviale per quanto severo e se lo immaginò placido a casa sua sotto l’albero di Natale, con sua moglie e i suoi bambini. Per un attimo lo invidiò mentre firmava il modulo di arruolamento.
All’inizio fu messo nelle cucine del suo reggimento, lavorando assieme ad altri come uno schiavo tutto il giorno, finendo per puzzare di olio rancido e di fritto da lontano, tanto che tutti lo scansavano.
La cucina sembrava l’inferno in terra, scura e lurida, con i superiori corrotti e ladri che urlavano e punivano ad ogni minima mancanza. Si accorse che i responsabili rubavano viveri e materiali di pulizia per venderli al mercato e ricavarne profitto personale: erano la causa di tutto quel disordine che nascondevano con la disciplina. Si organizzò con alcuni soldati per dirottare viveri e materiali in luoghi sicuri e nascosti, per poterli utilizzare. Il vitto e la pulizia migliorarono, i superiori non capivano perché, ma siccome andava a loro favore non approfondirono i motivi. Un giorno lo misero al lavoro in sostituzione del cuoco e cucinò in maniera magistrale gli scarti che venivano dati ai soldati. In poco tempo si sparse la voce che nella mensa truppa si mangiava come in trattoria.
Il colonnello comandante volle accertarsene e si recò in incognito nella mensa.
Constatò che era vero e volle conoscere il cuoco. Poiché era evidente che dalla venuta del soldato Manuel quella sorta di luogo di pena era diventato un posto desiderabile, si convinse che era un ragazzo con delle doti organizzative e meritava di meglio. Lo fece entrare a una scuola sottufficiali.
Manuel si mise d’impegno e nel giro di un anno riuscì a diventare sergente.
Fu trasferito nello stesso reggimento da cui proveniva e il comandante, non avendolo dimenticato e riconoscendo la sua onestà lo mandò a lavorare nel casermaggio, alquanto fatiscente e compromesso dalla corruzione. Pur dipendendo da ufficiali Manuel, con l’ausilio dei soldati che sapeva motivare prima di comandare, riorganizzò quel settore. Le officine dei mezzi furono rifornite di pezzi di ricambio prima dirottati altrove per essere venduti, i mezzi divennero tutti efficienti e operativi. I soldati ebbero divise e stivali nuovi, le loro camerate furono imbiancate a calce, spuntarono brande nuove, materassi puliti con lana cardata di fresco, coperte calde e pulite, bagni e docce efficienti, acqua calda tutti i giorni, materiale di pulizia in abbondanza. I corpi di guardia in caserma e quelli isolati furono dotati di cucine e riscaldamento, i servizi divennero meno gravosi. Avanzarono fondi per tinteggiare tutte le camerate, gli uffici e le facciate dei battaglioni, nonché pavimentare a nuovo il piazzale d’armi. Il comandante ricevette un encomio solenne e una citazione di merito da parte dell’imperatore in persona, che era venuto per una cerimonia, lodando l’aspetto florido della caserma e dei suoi soldati nei minimi particolari.
Il comandante si rese conto che il merito era dello spirito organizzativo di Manuel, ma non poteva ammetterlo per non squalificare sé stesso e i suoi ufficiali perciò pensò bene di premiare Manuel raccomandandolo per un corso ufficiali e al contempo allontanandolo.
Manuel entrò dunque in un’accademia dove andavano i figli dei nobili e dell’alta borghesia. La sua misera provenienza sociale e il suo basso grado militare erano invisi ai cadetti che si coalizzarono per farlo cacciare. Era in uso che gli allievi ufficiali che accumulavano un certo numero di note di demerito, superato un certo limite dovevano essere espulsi con disonore. Queste note consistevano nel verificare la prontezza di memoria e la dedizione dei cadetti, in ogni momento della giornata e con le domande più improbabili e assurde. Manuel memorizzò tutte le domande che avrebbero potuto fargli e tutte le risposte. Nessuno sapeva che aveva una memoria di ferro, ricordava tutto, era una cosa naturale per lui. Quando lo fermavano nel bel mezzo del piazzale mettendolo sull’attenti e gli chiedevano quante mattonelle ci fossero nel marciapiede principale del 147° battaglione cadetti ufficiali lui diceva il numero esatto. E quante nel marciapiede nord? Lui lo sapeva. Nel marciapiede sud? Lo sapeva. I nomi dei comandanti della scuola dai primordi a oggi? Li sapeva. E anche le loro biografie. I nomi dei cadetti primi classificati degli ultimi cinquant’anni? Li sapeva. Quanti fucili per compagnia? Li sapeva. I numeri di matricola delle armi? Li sapeva. I nomi di ogni singolo pezzo di ogni singola arma? Li sapeva. I nomi degli allievi del corso suddivisi per plotoni? Li conosceva tutti. La loro provenienza? La sapeva.
Non gli riscontrarono mai un errore, non fu possibile assegnarli neanche una nota di demerito. Nemmeno quando svolgeva i servizi, sempre impeccabile. Nemmeno quando doveva pulire le camerate. Passando la mano guantata di bianco non si riusciva a trovare un granello di polvere sui pavimenti, sugli infissi delle finestre, delle porte, sui vetri, sulle scale. Interrogato alle lezioni sapeva ripetere parola per parola quanto era stato detto, sapeva spiegare e sintetizzare il senso di quanto aveva memorizzato. Conosceva i regolamenti a memoria, pur non condividendoli. Questo non lo entusiasmava, ma era in grado di non palesarlo pur rendendosi conto di aver accettato di mettersi dentro le prime ruote dentate per adeguarsi a quanto gli stava intorno. Diceva a sé stesso di esserne consapevole, di averlo fatto per non sprofondare e andava avanti. Lo fece così bene che non se ne accorse nessuno. Alla fine l’obbedienza cieca avrebbe potuto risultare un’arma a doppio taglio, pensò. Bisognava vedere dove avrebbe colpito. Un giorno si credette di coglierlo in fallo almeno con due note di demerito perché elencò un fucile in meno nell’armeria e una mattonella in meno davanti all’ingresso del battaglione.
Ma lui espose al cadetto anziano che lo interrogava:
─ Signore! Il fucile in meno è in riparazione in armeria; la mattonella in meno si è spezzata per la caduta del fucile. Signore! Il fucile appartiene a voi, signore! Siete caduto due giorni fa durante le prove di parata, signore!
Essendo un battaglione di cadetti ogni loro passo era registrato e documentato. Nessuno poteva negarlo.
Manuel, non è il caso di dirlo, fu il primo del suo corso. Dentro di sé non ne fu fiero però: era stato fin troppo facile ingannare i suoi simili, fingere di essere come loro, simulare che non avrebbe preso nessuna iniziativa se non codificata, esaminata, approvata. Divenne tenente. Fu mandato a prestare servizio in varie località dell’impero. Negli anni percorse tutti i gradi con obbedienza, dedizione e onore ma, per quanto venisse encomiato e lodato ci si rese ben presto conto che era famigerato per trascendere gli ordini. Non che li trascurasse o non eseguisse, tuttaltro: andava oltre il dovuto e questo, pur creando problemi e imbarazzi, non gli poteva essere imputato.
Se gli ordinavano di sgominare predatori e ribelli che abbondavano nell’impero andava oltre: non li uccideva, li catturava tutti e li consegnava alle galere, quando invece gli si chiedeva fra le righe di sterminarli, affinché non pesassero sulle tasche dei contribuenti.
Badava sempre che i suoi soldati mangiassero bene, fossero puliti e indossassero divise nuove e in ordine.
Ai colleghi che lo rimproveravano di queste sue eccessive attenzioni rispondeva che se si vuole conquistare un impero è necessario un esercito ben vestito e ben nutrito. Era la dottrina di alcuni dittatori del passato, ma a lui non interessavano dittatori e potere. Si intestardiva nel suo compito, cercava di andare sempre al cuore delle cose, trasformava gli ordini adattandoli ai suoi pensieri e desideri, per sentirsi libero. Era Natale. Ma non era felice.
Passarono altri anni. Un giorno, ormai diventato colonnello, per toglierselo di mezzo perché c’era il serio rischio che diventasse generale e poi capo di stato maggiore, gli assegnarono il compito di risalire il corso inesplorato del fiume a Sud dell’impero per sgominare i nativi ostili che non volevano assoggettarsi. Gli diedero il comando di un reggimento rinforzato e partì con una piccola flottiglia di navi cariche di soldati, armi e vettovaglie.
Passarono alcuni anni senza notizie. L’esercito mandò una spedizione di ricerca lungo il fiume. Quando lo risalirono non furono attaccati dai nativi, anzi: trovarono cittadine e paesi, non capanne come si aspettavano. Entrarono nelle piazze e si stupirono, essendo il periodo di Natale, di trovare dappertutto alberi decorati con frutti, pani e statuette, piccoli presepi con rudimentali congegni che muovevano i personaggi. Venivano accolti ovunque festosamente. L’esercito chiese di parlare con il loro capo e gli dissero che era un re, il colonnello Manuel. Non aveva combattuto contro nessuno, aveva messo a disposizione dei nativi le sue attrezzature insegnando loro a costruire case, sistemi fognari, dighe, serbatoi per l’acqua. Aveva insegnato a coltivare, a scrivere, a credere in Dio. Sotto la sua guida i suoi soldati erano diventati dei maestri, ingegneri, muratori, istruttori. I nativi non erano più nemici, ardevano dal desiderio di collaborare con l'impero, pensavano che ci fossero altri come il colonnello Manuel e i suoi soldati. Ma si sbagliavano.
I reggimenti allertati e mandati in soccorso penetrarono facilmente nei territori dei nativi pacificati e civilizzati e li sterminarono.
Manuel fu incarcerato. Quando, davanti al plotone d’esecuzione, gli fu chiesto quale fosse il suo ultimo desiderio lui, osservando con tristezza i morti, le rovine intorno, il presepio distrutto all'angolo del piazzale, con un sorriso sprezzante si staccò le spalline da colonnello e le gettò scuotendo il capo come a dire: Tanto è inutile che ve lo dica. Procedete. Come pupazzi caricati a molla.