[Lab15] Otaktay guarda lontano
1“Molte lune sono passate e tanta erba è seccata tra queste praterie. Ancora il richiamo dei nostri avi raggiunge il cuore di Otaktay. Lui guarda lontano inseguendo il passato, oltre la lunga corsa del bisonte, il volo dell’avvoltoio. Troppo alta è la sua fronte. Dritto è il capo. Ma così facendo non vede l’insidia vicina ai sandali, l’inciampo sotto ai suoi piedi, il burrone sul suo cammino.”
Otaktay non si scompose alle parole del vecchio Piska. All’interno del tepee tutti lo ascoltavano in silenzio.
“Tutto il rispetto per te, Piska. Ma i tuoi pensieri sono corsa di lepre, facile preda dei lupi. I tuoi ricordi come sabbia del deserto che nulla rimane tra il palmo delle mani, tanto sfuggono portati via dal vento. Sono accusato di fomentare la rivolta e tirare fuori parole seppellite da tempo.
Aveva ragione Tatanka nel dire “Vi consegno questo mio fucile per mezzo di mio figlio, sperando che almeno lui impari a vivere come i bianchi.”
“Ancora con queste storie?” inveì qualcuno. “Tu parli come se fossimo ai tempi delle carovane degli uomini bianchi. Siamo stanchi, Otaktay. Stanchi di averti tra i piedi e di rovinarci il lavoro. Ogni volta che arrivano i turisti metti loro paura.”
“E se non lo facessi?” ribatté sprezzante.
“Lo vedrai!” rispose l’altro livido di rabbia.
Il vecchio Piska intervenne: “Vedo che la rabbia è come un fiume in piena e farà danni”. Poi si rivolse a Otaktay: “Giovane che guarda lontano. Il dolore ha rotto il tuo cuore. La strada per la serenità è lunga e difficile. Cerca di capire quale mostro vuoi combattere prima di lanciarti contro i tuoi fratelli”.
Otaktay si alzò di scatto e puntò il dito: “Per cosa stiamo mostrando ad annoiati turisti le nostre tradizioni? I vostri balli non hanno niente a che vedere con quelli dei nostri avi. State barattando la vostra dignità per quattro dollari in tasca. Per loro siete un gruppo di uomini vestiti di stracci che fanno danze ridicole tra una bevuta e l’altra.” Detto questo, li abbandonò.
A poca distanza, sul piazzale del villaggio, era appena arrivato il bus con i turisti: si fermò a guardarli scendere. Li osservò mentre con i loro smartphone riprendevano quello che ritenevano interessante: parti del villaggio, i nativi in costume venuti ad accoglierli. La loro guida fu l’ultima a scendere: Winona, una ragazza mora, dai lunghissimi capelli raccolti in treccia. Quando la vide la scrutò. Lei, accortasi di lui, lo salutò con alzata di mano. Vi era un banchetto per i rinfreschi vicino a dove si sarebbe svolta la danza del sole; Winona invitò la comitiva a rinfrescarsi prima della manifestazione. “Non sarai venuto per dare fastidio, spero!” chiese lei. “Stai tranquilla, oggi no. Devo capire qual è il mostro che devo combattere” rispose lui allontanandosi.
Intanto dal tepee erano usciti i componenti in costume sioux; Tokala portava con sé il tamburo sciamano lakota. Prese a ritmare i passi e a intonare: “hea hea hea hea” . Raggiunsero la piazza e si distribuirono in cerchio. Winona chiese un attimo d’attenzione e prese a spiegare il significato della danza del sole: il rituale di purificazione collettiva ricorrente nel solstizio d’estate.
“Oh! Grande spirito, concedimi la serenità di accettare le cose che non posso cambiare, il coraggio di cambiare le cose che posso cambiare, e la saggezza di capirne la differenza” intonò il vecchio Piska al centro del cerchio, dando inizio alla danza.
Non lontano da lì, Otaktay camminava spedito verso casa, attraversando gli ultimi stabili del villaggio, tra cui il locale di Tepo che assieme a Sinuhel e Wapama erano alle prese con una bottiglia di whisky. Arrivato a casa, andò nel recinto dove custodiva il suo cavallo; senza mettergli la sella, con un balzo ci si mise sopra e lo lanciò al galoppo. Una lunga scia di polvere si sollevò dietro alla folle corsa per la valle arida. “Ah! Ah!” urlava Otaktay, mentre dietro loro un’altra scia di polvere li seguiva: quella della Nissan Patrol dello sceriffo indiano Dakota.
Questo lo affiancò intimandogli di fermarsi. Lui cercò di seminarlo, ma lo sceriffo prese una scorciatoia tagliandoli la strada.
“Per tutti i diavoli! Quante volte devo ripeterti che non puoi correre all’impazzata dove ti pare! Qui ci sono le fattorie dei Redford e quando passi tu disperdi le loro mandrie” sbraitò l’uomo aggiustandosi il berretto appena sceso dall’auto.
“Questa è la nostra terra, sceriffo! Abbiamo sempre cavalcato lungo queste terre. È un nostro diritto” disse lui in sella al cavallo che nervosamente girava su se stesso.
“Tieni fermo il cavallo e ascoltami bene, ragazzo! Cominci a diventare un problema per tutti. Posso capire cosa stai attraversando con la morte dei tuoi ma l’atteggiamento che hai contro alcuni non sta bene. Qui ci vivono anche persone oneste che la terra ve l’hanno pagata.”
“Mio padre e mio fratello sono stati uccisi dall’alcool. E io dovrei stare sereno? Ma sì! Grazie popolo americano per queste misere case di legno in cui ci avete imprigionato. Per i sussidi per non morire di fame e dell’abbondante whisky cura dei nostri mali” sbraitò.
“Se pensi di subire delle ingiustizie sai dove rivolgerti. E potresti fare come tanti, andartene in altri posti. Non sei obbligato a stare qui” disse ammonendolo.
“Ma certo! Io dovrei lasciare la mia terra a questi invasori?” replicò Otaktay.
“Le guerre sono finite a Little Big Horn, lo hai scordato? Quando sarai pronto a morire sarai grande abbastanza per vivere. Se continui così non l’avrai questa possibilità. Lascia stare questo attaccamento morboso alla terra. Tutto il mondo può essere casa tua. Cerca di ragionare e di non metterti nei guai” disse Dakota risalendo in macchina per andarsene. Otaktay scese da cavallo e rimase per ore a contemplare il villaggio dall’alto e perdersi tra i pensieri. Verso il tramonto si mise in cammino verso casa. All’ingresso della riserva Winona lo aspettava ansiosa seduta sopra la staccionata: “Dove sei stato?” chiese, “pensavo che saremo stati assieme nel pomeriggio” aggiunse.
“I tuoi turisti sono andati via soddisfatti?” chiese beffardo.
“Ancora con questa storia?” rispose, “mi avevi promesso che avresti pensato alla proposta che ti avevo fatto. Invece vedo che continui a rivendicare una terra senza gli uomini bianchi. Sei ottuso e non vuoi guardare in faccia la realtà. Svegliati una volta per tutte”.
Otaktay la guardò, questa volta teneramente: “Ho avuto una visione sopra l’altipiano. Forse ho solo sognato. Ma gli spiriti mi hanno detto cosa devo fare della mia vita”.
“Ah! Bene. Cosa ti avrebbero detto?” chiese divertita.
“Domani se verrai con me ti dirò, e avrai pure la risposta che attendi.”
Winona non riuscì a dormire quella notte. La mattina prese la jeep e passò a prenderlo sotto casa. Lui caricò lo zaino strapieno attirando la curiosità di lei. Poi si diressero verso nord passando per le strade sterrate. Dopo qualche ora li intercettò lo sceriffo Dakota nel suo giro di controllo.
“Adesso tuo padre ti darà una lavata di capo!” disse Otaktay.”
Lo sceriffo scese dalla macchina, fece segno di abbassare il finestrino. Lei ubbidì.
“Siete a trenta miglia dal confine, dove diavolo state andando?” chiese senza rinunciare di squadrare Otaktay, che per niente intimorito non abbassò lo sguardo. “Andiamo sui monti sacri” disse. “Per fare cosa? E lui? Cosa ci fa con te?”
“Papà che risposta chiedi?”
Lo sceriffo la guardò e senza fare ulteriori domande le fece cenno di andare. Winona con un tenero sorriso, ingranò la marcia: “Non mi aspettare stasera: torniamo domani”.
L’uomo, con una stretta al cuore, guardò la jeep allontanarsi. Pensò che anche lui, alla età di Otaktay, era stato tale e quale. Idealista e attaccato alle tradizioni, alla terra. Anche lui aveva provato quello sconforto nel vedere troppi amici morire alcolizzati, senza prospettive, rinchiusi nella riserva. Conosceva bene quella frustrazione e la confusione mentale che lo aveva portato sul piede di guerra. Di quella necessità forte di attaccarsi alla fiera storia del suo popolo per sopravvivere. “Che gli spiriti vi siano propizi” disse tra sé.
*****
I due erano arrivati al luogo previsto, il sole calava tra le montagne: l’aria si era fatta pungente. Accesero un fuoco e ci si accovacciarono accanto.
“Tuo padre ci ha lasciati andare senza fare storie!” esordì Otaktay.
“Che doveva dire? Lui sa che stiamo insieme da tempo!”
“Ah sì? Credevo di no.”
“Io non ho segreti per mio padre! Beh! Basta con le parole inutili. Siamo qui e adesso mi dai risposte.”
“Quella sera, sull’altipiano, ho sentito la voce di mio padre… Vai a chiedere agli spiriti: la loro benedizione apparirà nel cielo della notte se la tua decisione è giusta.”
“E quale sarebbe?” chiese incuriosita.
“Di venire con te e lasciare la riserva.”
“Ti sei deciso, finalmente. Ma vedo che hai bisogno di una conferma, e l’aspetti dal cielo?”
“Sì! Se ci appariranno i verdi spiriti danzanti!”
“Ti riferisci all’aurora boreale?” sbottò pensando al raro evento.
“E va bene!” disse Winona rompendo gli indugi. “Se la nostra esistenza assieme è nelle mani loro, che decinano per noi. Dai, mettiti in piedi!”
“Che vuoi fare?” chiese lui.
“Chiediamo agli spiriti la loro benedizione, a questo punto. Sai come si fa, o te lo devo ricordare? Siamo sioux o no? Facciamo questo rito propiziatorio che sia a loro gradito.”
“Vuoi fare la danza del fuoco?” chiese sorpreso.
“Sì! Ma a modo mio. Alzati e balliamo attorno al fuoco” disse decisa. Poi accese lo stereo della jeep: I will always love you si diffuse per l’aria.
Winona si avvinghiò a lui, le lingue di fuoco si unirono alla danza.
Come per magia, anche i bagliori boreali apparvero prendendo a guizzare nel cielo. Winona e Otaktay si strinsero ancora più forte nella notte magica; sotto la benedizione ricevuta dagli spiriti e dal fuoco. Entrambi sapevano che non li avrebbero traditi. Si scambiarono un appassionato bacio con cui suggellarono il loro progetto di vita fuori dalle terre aride della riserva: ma senza un vero addio.
Tratti di pioggia sopra Auschwitz. Tra oblio e orgoglio