Pacco n°9
Colpo di scena
«Questo lo offre la casa, Ernesto, ma è l’ultimo. Stiamo per chiudere.»«Ma sono solo le sette e domani è festa.»
«Appunto, è la vigilia di Natale e vogliamo passarla in famiglia anche noi. E poi, a che servirebbe tenere aperto? La gente sarà tutta in casa per il veglione.»
«Non tutta: io vorrei starmene qui.»
Il barista sospirò asciugando gli ultimi bicchieri estratti dalla lavastoviglie per riporli a uno a uno nello scaffale.
«Pazienza, non si possono fare contenti tutti, bevi in fretta, per cortesia, fallo per me.»
Ernesto prese il bicchiere e si sforzò di centellinarne il contenuto il più a lungo possibile. Ma non era capace di bere lentamente e nel giro di pochi minuti finì anche l’ultima goccia. S’alzò con cautela dallo sgabello, infilò berretto e giaccone e si diresse alla porta, massaggiandosi la schiena intorpidita dalla lunga immobilità.
«Ciao Ernesto, buon Natale!» lanciò il barista, ottenendo in risposta un mezzo grugnito.
Sul marciapiedi si fece largo tra i capannelli di gente che scambiavano baci, auguri e smancerie.
Buon Natale, Buon Natale, e gne gne gne… Ve lo darei io il buon Natale e tutto il resto. Spintonò a colpi di gomitate e finse d’inciampare per pestare un piede qui e là. Avrebbe voluto avere un sasso da lanciare agli stupidi altoparlanti che continuavano a vomitare ginglebells e silentnights. Da settimane quelle canzoncine lagnose e ossessive lo assediavano ovunque andasse. Un’istigazione al suicidio.
Ma col cavolo che gli faccio questo piacere! Immaginò la reazione di suo fratello se si fosse levato dai piedi. Sarebbe corso a recuperare la casa a cadavere ancora tiepido. «No, resto qui a maledire ogni stupido giorno in Terra, con almeno la soddisfazione di sapere che gli do fastidio. A lui, e a quegli stronzi della moglie e figli suoi.»
Strappò una ghirlanda argentata da un lampione e con un calcio rovesciò un finto abete in cartone davanti alla libreria chiusa. Non lo sopportava, il Natale, con quel buonismo imposto e pseudo-amore per il prossimo un tanto al chilo, tutti quei volemosi bene e anche a te e famiglia… la famiglia, ne sapeva qualcosa, lui. Una truffa, proprio come il Natale!
Doveva trovare un bar che se ne fregasse e restasse aperto per chi come lui voleva bere in pace pensando ai fatti suoi. C’è quello in via Verdi, è qui a due passi e il padrone è un algerino ebreo, – lo si vede anche dai prezzi! – di sicuro lui se ne sbatte, del Natale… e invece: chiuso per ferie fino al 7 gennaio. Se le poteva permettere, le vacanze, con quel che chiedeva per il suo vino annacquato! Ladro!
Restava il baraccio dietro la stazione. Una bettola sozza, piena di ubriaconi, extracomunitari e senzatetto di ogni tipo, ma quando hai sete non puoi fare troppo il difficile. Era una bella scarpinata, fin là, e non aveva pensato a chiedere una birra in lattina a Carlo, prima di farsi sbattere fuori. Avrebbe almeno potuto regalargliela – vista la sua passione per il Natale – se non era un cliente fedele lui…
Si strinse nel giaccone, il freddo era intenso e penetrava dai polsini e dal colletto. Aveva fretta d’arrivare e riscaldarsi con un goccio. Per abbreviare, decise di attraversare il vecchio parco giochi. Era in disuso da anni, ridotto a una sorta di discarica, frequentato dai tossici per godersi la dose e dai migranti più sfigati, o quelli appena arrivati in città, che non avevano posti migliori in cui cercare riparo. Una brutta zona, soprattutto di sera, ma lui non era una ragazzina e sapeva badare a sé stesso. E ci avrebbe guadagnato almeno un quarto d’ora.
Rifiuti ovunque, i resti lugubri di una giostra, nell’ombra fantasmi a cui di umano restava solo la forma raggomitolati su sé stessi, ignari del freddo e di tutto… lo spettacolo era così desolante che persino lui, che non aveva certo la commozione facile, sentì una punta di tristezza bucargli lo stomaco. Tanto più che ricordava l’epoca in cui il parco era tutto colorato e brulicante di bambini, di risate, di urla, di giochi. Era il preferito di Alessia da piccola, andava matta per l’altalena rossa.
“Spingimi papà, spingi più forte, voglio toccare il cielo!” Alessia… non voleva pensare a lei. La serata faceva già abbastanza schifo.
Accelerò. All’ingresso del sottopassaggio che portava alla stazione inciampò in qualcosa e si puntellò al muro con le mani per non finire bocconi.
«Cosa cazzo hanno ancora buttato, ‘sti porci?»
Non che gli interessasse davvero, ma meglio appurare, in caso fosse qualcosa di arrugginito che esigesse il pronto soccorso e un’antitetanica. La cosa per terra era malandata, ma non arrugginita. E nemmeno una cosa a propriamente parlare: era un corpo umano.
«Ma mannaggia la miseria! Non pretendo la magia del Natale, ma un cadavere?»
Si guardò intorno: nessuno l’aveva visto, poteva fare finta di niente, tanto più che non aveva nemmeno un telefonino, – doveva essere l’unico cristiano nel raggio di 20 km a non averlo – non era la persona più adatta per chiamare i soccorsi. Esitò, si guardò ancora intorno, alzò le spalle e riprese il cammino. Un passo, due, tre… un gemito lo fece sussultare. Si fermò in ascolto. Un altro gemito.
L’istinto gli suggeriva di fregarsene, ma quei lamenti sembravano chiamarlo. Era da tanto che nessuno aveva avuto bisogno di lui. Si disse che poteva essere un diversivo, nel nulla della sua vita. Sbuffò e fece dietro-front in direzione del corpo, non più immobile. L’uomo tentava di mettersi a sedere, ma i gesti erano confusi e inefficaci. Ernesto s’inginocchiò ed esaminò la situazione: il tipo era più vecchio di lui, difficile dire di quanto, aveva una folta barba bianca sporca, una massa di capelli ricci e arruffati – privilegiato! – dello stesso colore e un bozzo sormontato da un taglio sulla fronte rugosa.
«Dove sono? Puoi darmi una mano?» mormorò lo sconosciuto tendendo la sinistra.
Ernesto ignorò la mano tesa, afferrò l’uomo per le spalle senza cautele e lo tirò fino a metterlo a sedere, la schiena appoggiata al muro del tunnel.
«Sei in un posto di merda di una città di merda. Perché e cosa ti è successo non lo so.»
L’uomo si massaggiò le tempie, tastò il bozzo sanguinolento, estrasse un fazzoletto dalla tasca della felpa e ci asciugò gli occhi prima di tamponare la ferita. «Ero sceso dalla slitta per una pausa pipì – la vescica, alla mia età… – ho trovato un angolo appartato, ma non ho fatto in tempo ad abbassare i pantaloni che qualcuno mi ha dato una botta alla base del collo, qui.» Con la mano si toccò la nuca. «Sono finito in avanti e devo aver sbattuto la testa.»
«Non hai scelto il posto migliore per pisciare, in questa cloaca c’è sempre qualcuno in cerca di un piccione da spennare… Avevi molti soldi addosso? Chiavi? Documenti?» interrogò Ernesto.
«No. Niente di niente, mi piace volare leggero… Per tutto il vischio! Che ore sono? Devo essere in ritardo mostruoso!»
Ernesto guardò l’orologio: «Le nove e mezza, non so dove devi andare, ma in genere nei cenoni a quest’ora sono sì e no agli antipasti, credo che tu sia in tempo.»
L’uomo si massaggiò i muscoli indolenziti e raddrizzò la schiena.
«Niente cenoni, devo lavorare e sono in grave ritardo sulla tabella di marcia, dovrò raddoppiare la velocità della s… La slitta! Non ricordo dove l’ho lasciata!»
Ernesto ridacchiò. «La slitta? Mi stai dicendo che sei Babbo Natale?»
«Per servirla, signor?» Lo sconosciuto chinò la testa, prima di massaggiarsi il bozzo con una smorfia di dolore.
«Ernesto. La botta dev’essere stata forte. Forse ti serve un dottore.»
«Non c’è tempo, e sono di tempra solida… forte come un abete! Devo solo ritrovare la slitta.»
«Certo, e come la ritrovi, hai la geolocalizzazione sul telefono?»
«No, sul tablet nel mio studio… devo solo chiamare gli elfi e il gioco è fatto.»
«Gli elfi, la slitta. E le renne volanti ti aspettano parcheggiate in doppia fila?»
«Abbiamo smesso lo sfruttamento animale da parecchi anni, ormai, la slitta ha un motore elettrico. Un gioiello di tecnologia elfica.»
Ernesto si chiese se avesse davanti un pazzo, un alcolizzato delirante o entrambe le cose.
«Senti, ma lo sai che Babbo Natale è un’invenzione della Coca-Cola, vero? Cosa saresti, una trovata pubblicitaria incarnata?»
L’uomo sorrise, si pettinò la barba con le dita e, puntellandosi al muro e con grande cautela, s’alzò in piedi.
«Hanno inventato solo il completo rosso e tutto il tralala. Come vedi, il mio look è molto meno appariscente.» Indicò la tuta di felpa grigia e le sneakers bianche che indossava. «Quanto al nome, puoi chiamarmi come vuoi: Santa, Nonno Gelo, Sinterklaas, Nicolas… Poco importa, sono lo spirito natalizio, se preferisci, e porto…»
«I regali a tutti i bambini del mondo, sì. E io sono la Fata Turchina, piacere.»
«No, sei Ernesto, me lo hai detto prima. Non ho perso la memoria, è solo dove ho lasciato la slitta che…»
«Va bene, senti, a quanto pare stai meglio, sei in piedi, farneticante ma non si può avere tutto… se non hai più bisogno di me, io andrei che m’aspettano.»
«Ma certo, scusami, devi aver fretta di raggiungere i tuoi cari, è la notte di Natale. Sei stato davvero gentile a fermarti per me. Ti chiedo solo un’ultima cortesia: mi serve un telefono.»
Ernesto fece no con la testa. «Spiacente, hai beccato l’ultimo uomo sulla Terra a non avere una di quelle diavolerie tascabili…»
«Ma non mi serve uno smartphone, una buona vecchia cabina andrà benissimo. Sai dove posso trovarne una?»
Una cabina telefonica? Questo è proprio matto. O allora è una candid camera… Ma chi sceglierebbe me… o questo posto, per una gag televisiva? Ernesto era sempre più perplesso.
«So dove ce n’è una, ma non ho idea se funzioni… E, in ogni caso, dove li troveresti i gettoni o la scheda? Non so se prenda gli euro.»
L’uomo batté le mani.
«Perfetto! Dimmi dov’è! Non preoccuparti del resto: non mi servono soldi e nemmeno che ci sia la linea. Le comunicazioni elfiche hanno un funzionamento tutto loro. Ho solo bisogno d’una cornetta.»
Ernesto si arrese: il tizio aveva una risposta, delirante, a tutto.
«D’accordo, ti porto alla cabina e poi me ne vado per la mia strada. Puoi camminare?»
«Certo, sono forte come…»
«Un abete, lo hai già detto. Andiamo.»
S’incamminarono, Ernesto davanti, a testa bassa e mani in tasca; lo sconosciuto dietro, un berretto, uscito dalla stessa tasca del fazzoletto, a coprire la ferita e la chioma ingombrante. Mormorava parole strane contando sulle dita. Ernesto gli lanciava occhiate furtive e scuoteva la testa.
«Eccoci!»
La piazzetta era deserta, ma i lampioni, le ghirlande natalizie e le finestre illuminate ai piani dei palazzi accendevano la notte come se fosse luna piena. La cabina era nell’angolo in basso a destra della piazza. Le mancavano due dei quattro vetri, il terzo era incrinato nella metà inferiore, l’ultimo integro e ricoperto di graffiti sconci. La cornetta era al suo posto, ma le due metà del filo reciso pendevano inutili.
«Ti avevo avvertito…» iniziò Ernesto, ma l’altro strillò come un bambino che scopre i pacchi sotto l’albero e corse alla cabina.
«Grazie! Hai salvato il Natale, grazie!» urlò agitando una mano mentre con l’altra portava l’inutile cornetta all’orecchio.
Ernesto esitò. Sarebbe dovuto restare? Verificare che non gli succedesse niente? Andare a cercare aiuto? L’osservò parlare e gesticolare al telefono, la metà di cavo che pendeva dalla cornetta danzava al ritmo dei suoi gesti.
Poveraccio! Una parte di lui però un po’ lo invidiava: sembrava così contento, convinto di avere una missione, uno scopo. Ernesto aveva quasi scordato la sensazione di sentirsi utili a qualcuno. A tutta l’umanità, poi…
Ma malinconie e paturnie non gli si addicevano. E aveva freddo. Aveva ben meritato un goccio di vino e un posto caldo al bancone di un bar. Era ora di tornare ai suoi progetti iniziali. Guardò un’ultima volta verso la cabina: Babbo Natale usciva dalla porta a soffietto, un enorme sorriso sulla faccia.
«Tutto a posto! Gli elfi arrivano per riportarmi alla slitta. Grazie ancora!»
Ernesto rispose con un mezzo grugnito e gli voltò le spalle. Le mani in tasca, riprese la direzione della stazione a passo deciso. Il freddo era ancora aumentato, e un vento fastidioso gli soffiava contro rendendo più difficile la marcia. Dovette fermarsi due volte ad asciugare gli occhi e il naso a causa dell’aria gelida. Pensò brevemente al vecchio matto, vestito solo d’una tuta di felpa, in attesa dei suoi fantomatici elfi, ma si riscosse: non poteva preoccuparsi di tutti i mali del mondo, gli bastavano i suoi. Si fermò per riprendere le forze, appoggiò la schiena a un lampione spento e si strofino le braccia con le mani per riscaldarle. Chiuse gli occhi, fantasticando di riaprirli per trovarsi già nel tepore del bar, trasportato come per magia. Ma una nuova folata di vento freddo lo schiaffeggiò riportandolo alla realtà. Sollevò lo sguardo quasi per caso, per quell'improvviso colpo di vento gelido, e lo vide. Non poteva esistere. Non era logico, eppure era là, in quella porzione di cielo tra Aldebaran e le Pleiadi. Anche a quella distanza, nel chiarore degli astri, la chioma da Napo Orso Capo e l’imponente barba erano inconfondibili: lo sconosciuto farneticante. In cielo, alla guida di un’enorme slitta volante.
Scosse la testa per l’ennesima volta di quella strana sera. Sprofondò ancor più le mani nelle tasche e riprese a camminare, ben deciso a non fermarsi prima d’essere arrivato al bar. «Ho le allucinazioni. Ora vado a farmi un paio di bicchieri perché ho bisogno di scaldarmi, ma da domani smetto di bere. È deciso!»
Il bar dietro la stazione era effettivamente aperto. Almeno una cosa che va come voglio, stasera, pensò Ernesto entrando nella saletta mal illuminata. Andò a sedersi al bancone, lasciando due sgabelli vuoti tra lui e un gruppetto di tizi che dovevano bere già da qualche ora e conversavano ad alta voce e grandi gesti. Girò loro le spalle e chiese un bicchiere di bianco al barista.
Bevve il primo sorso come un naufrago nel deserto arrivato infine all’oasi. Gustò il calore del liquido che scendeva nella gola e risaliva a rimettergli in sesto i pensieri. La slitta, gli elfi… Dannate canzoncine di Natale, e dannata idea di giocare al Buon Samaritano! Finì il bicchiere e ne chiese un secondo. Pensò che forse avrebbe dovuto mangiare qualcosa: a casa il frigo era più vuoto del solito. Negli ultimi tempi aveva evitato negozi e supermercati, per non doversi sorbire auguri, musichette, pacchetti, commessi con berretti da gnomo e corna di renna in peluche. Se non aveva da mangiare, almeno poteva bere, pensò, e portò alle labbra il bicchiere.
«E tu, che ne pensi? Le hai viste anche tu?»
Ernesto si girò. Non aveva capito subito che le domande erano rivolte a lui, non prima che il tizio iniziasse a scuotergli il braccio per attirare la sua attenzione. Lo guardò: era uno del gruppetto di bevitori vocianti che aveva circumnavigato entrando. Era più giovane di lui, ma le vene sgargianti sul naso indicavano che non era di primo pelo nel bere.
«Dici a me? Cosa penso di che? Cosa dovrei aver visto?» bofonchiò nel tono più scontroso che poté, per frenare sul nascere gli ardori di socializzazione dell’altro. Ma quello non si formalizzò.
«Le strane forme nel cielo. Le hai viste? Noi le abbiamo viste e non somigliavano a niente di, di… mai visto!»
Ernesto reagì con una smorfia. «E a cosa somigliavano, allora?»
L’altro fece spallucce e si voltò verso gli amici. Uno di loro, con le palpebre a mezz’asta, agitò il bicchiere semivuoto e rispose, a voce troppo alta e poco stabile: «A delle forme estra, estranee, no: estraterrene… cioè, si muovevano ma non come gli aerei o le stelle cadenti. Cioè, si muovevano…»
«Come degli alieni,» finì un altro, in maniche corte ma con un berretto calato fino alle sopracciglia. «Sono sicuro! Erano delle asrto… atsro… astronavi aliene. Piccole, ma tante. E se sono venuti per invacer… invadrec… invaderci?»
Ernesto scoppiò a ridere. «Gli alieni, come no! E perché non Babbo Natale con gli elfi, già che ci siete. Almeno è di stagione.»
Alzò la mano in direzione del barman. «Un altro, e fallo raso.»