[MI183] Il Dottore - Costruttori di Mondi
La scelta Pt.18 - Fine
Le scostai i capelli intrisi d'acqua dalla fronte.
Aveva la bocca piena di sangue filamentoso, forse per le labbra spaccate nella caduta o per i denti rotti.
Speravo ardentemente che quella fosse la causa e non il segno di una lesione interna.
Era immobile, pareva non respirare; l’idea del peggio mi atterriva.
“Dio, no! Ti prego, Dio, questo no!”, pregavo.
- Roberta! – la chiamavo, sfiorandole il capo, tremante.
- Roberta, respira, ti prego.
Aveva emesso un gemito soffocato: “È viva – pensavo – Dio, ti ringrazio. È un miracolo.”
- Roberta, parlami, come ti senti?
Respirava con fatica, sputò un grumo vivido di sangue.
- Ho male. Al petto, al braccio, al fianco – bisbigliò dolorante.
- Amore, sono qui. Non muoverti, ti prego. Ora chiamo un’ambulanza.
- Ho paura, non lasciarmi – tornò a biascicare disperata.
- No, amore, sono qui.
Uno degli uomini mi aveva detto che uno di loro, dal bar, stava chiamando il 118.
Lo ringraziai; ero in panico, pioveva a dirotto.
Ricordavo che nel bagagliaio dell’auto tenevo un plaid e un telo di plastica, utile se avessi dovuto inginocchiarmi per cambiare una gomma forata.
Corsi a recuperarli, accesi i blinker per segnalare la sosta e posizionai il triangolo d’emergenza alcuni metri dietro la macchina.
Mi tolsi la giacca, piegandola, per farne una sorta di cuscino da posare sotto il capo di lei.
L’avevo coperta col plaid e steso il telo su di lei per ripararla dall’acqua.
Mi ero rannicchiato accanto, tenendole la mano sul capo per farle sentire che c’ero.
Avevo pensieri lugubri, temevo avesse un’emorragia interna o una lesione spinale; ogni secondo trascorso pareva un’eternità.
L’uomo di poco prima mi aveva dato il suo biglietto da visita:
- Tenga – aveva detto – le lascio il mio nominativo e il telefono. Sul retro ho appuntato la targa di quel criminale. Mi chiami per la denuncia, se servirà un testimone.
Ringraziandolo, avevo messo in tasca il biglietto.
- Quella bestia andava a ottanta all’ora sul controviale – aveva detto. – Chissà dove guardava quel pazzo.
Erano trascorsi una decina di minuti quando la sirena dell’ambulanza si era udita alle nostre spalle.
Oltre il corso sorgeva l’Ospedale Mauriziano; facile provenisse da lì, avevamo avuto fortuna.
- Amore, c’è l’ambulanza. Coraggio, ora finisce tutto.
Dall’ambulanza erano scesi due sanitari che, con efficienza, si erano apprestati al corpo di lei.
Con perizia avevano rilevato i parametri vitali, l’avevano dotata di una mascherina per l’ossigeno e di un collare rigido, a scanso di lesioni cervicali.
L’avevano adagiata su una tavola spinale e sulla barella mobile.
Aveva risposto con fatica alle domande di procedura per accertarsi che fosse vigile.
A loro avevo lasciato i dati necessari e il numero telefonico dei genitori, per avvisarli dell’incidente e del luogo di ricovero.
Prima che partissero, mi ero avvicinato a lei sulla lettiga del veicolo.
- Amore, ti portano all’ospedale e tutto andrà bene – l’avevo rassicurata.
- Ho paura. Non lasciarmi sola – aveva risposto.
- Non ti lascio, amore. Ti portano al Mauriziano. Ho chiesto di avvisare i tuoi.
- Vieni anche tu – invocò con un filo di voce.
- Ti seguo, amore. Prendo l'auto e vengo al pronto soccorso.
L’ambulanza, con sirena e lampeggianti accesi, era ripartita, alzando scie d’acqua sul controviale.
Il tipo del biglietto da visita si era fermato; eravamo fradici d’acqua come due naufraghi.
- Denunci quella bestia e mi chiami per testimoniare – aveva ribadito. – Deve finire in galera per quello che ha fatto alla sua ragazza.
Credeva che Roberta fosse la mia ragazza; mi aveva udito chiamarla più volte “amore”, ovvio lo pensasse.
L’avevo ringraziato con una stretta di mano nel salutarci.
Avevo recuperato la giacca, il plaid e il telo di plastica, riposto il triangolo d’emergenza in macchina.
Tremante di freddo e dello shock subito, avevo avviato il motore.
Per ritrovare il controllo e calmarmi, mi ero acceso mezzo sigaro.
Ero uno straccio; quel mio stato e il ritardo nel rientro a casa mi assillavano.
Pensai che, anche al pronto soccorso, non sarebbe stata una cosa rapida: radiografie, TAC, magari necessitava di ingessature, o che non dovesse subire un intervento chirurgico.
Che casino. Mi colse lo sconforto.
E se fosse morta, per qualche grave danno subito o durante l’intervento?
Tutto, al momento, era drammaticamente possibile.
Iniziarono a scendermi lacrime di tensione e dolore.
Quel bastardo l’aveva investita mentre veniva a prendersi il mio ultimo bacio.
Pazza ossessione di una bambina innamorata, giocarsi la vita per un mio bacio.
Piangevo per essere stato la ragione di questo tragico orrore.
Se fosse morta, sarei stato il suo carnefice.
Il sigaro si era consumato tra le dita; mi riscossi.
Presi il biglietto da visita, lessi il nominativo dell’uomo e la targa: non era una macchina della regione.
Se fossi andato all’ospedale, avrei dovuto passarci la notte.
Non era facile inventarmi qualcosa così, all’improvviso, per un’assenza del genere.
All’ospedale sarebbe venuto fuori che avevo visto l’incidente; avrei dovuto firmare un verbale dei vigili urbani o della polizia stradale.
C’era un ferito grave, una fuga con omissione di soccorso, un reato serio; la cosa entrava nel giudiziario.
In caso di processo e di pratiche di risarcimento, sarei stato chiamato in causa come testimone principale.
Tutta la dinamica della cosa sarebbe stata resa pubblica; mia moglie ne sarebbe stata informata nei dettagli.
Sarebbe venuto fuori che Roberta era in macchina con me a quell’ora, che eravamo intimi; mi avevano sentito chiamarla “amore”.
La notizia, forse, sarebbe apparsa sulla cronaca cittadina.
A maggior ragione, che Dio non lo volesse, se fosse morta.
Si sarebbero informati su come erano andate le cose; avrebbero sentito i testimoni del bar e i tre uomini.
Nel bar ero conosciuto, lo frequentavo da anni.
Sapevano chi fossi e della mia azienda al di là della ferrovia.
Conoscevano il mio ruolo, il mio nome e la mia macchina.
Qualcuno avrebbe certo ricordato di avermi visto lì davanti con Roberta diverse volte.
Lei in macchina con me, a quell’ora di sera, non potevo giustificarla.
In ospedale, non avrei potuto sostenere di averla soccorsa senza conoscerla.
Era un casino serio; se fossi restato a farle compagnia, trovando una scusa convincente con mia moglie, alla fine, la storia sarebbe comunque venuta fuori.
Restare con Roberta quella sera significava rinunciare a mia moglie, a mia figlia, al matrimonio.
Tutta la mia esistenza era un castello di menzogne che crollava; mi sentivo un topo in trappola.
Posai il biglietto da visita sul sedile accanto.
Avviai la macchina per raggiungere l’incrocio e immettermi sul corso; dovevo scegliere se svoltare verso l’ospedale o proseguire verso casa.
Le lacrime riempivano gli occhi, quasi non vedevo la strada.
Il semaforo era rosso.
Il tetto dell’auto tamburellava per l’acqua battente.
Roberta o mia moglie e la mia famiglia.
Svegliandosi dai narcotici, mi avrebbe cercato.
Cercandomi, avrebbe compreso che non l’avevo seguita.
L’avevo lasciata sola, abbandonata.
Si sarebbe sentita devastata dal dolore e dalla delusione.
Avrebbe pensato che fossi uno stronzo, un bastardo.
E questo era quello che ero sempre stato.
Presi il biglietto da visita.
Nel calare il finestrino, una sferzata di pioggia gelida mi investì il volto.
Per il ritardo e gli abiti fradici, avrei detto di essermi fermato per cambiare una gomma forata.
Il biglietto appallottolato giaceva sulla strada.
Al verde, avevo svoltato lungo il corso.
Fine
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