Una rosa per Martina - Pt. 1

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Primule sulla Luna - Costruttori di Mondi

Una rosa per Martina - Pt. 1

Lentamente un altro inverno era passato.
A gennaio era caduta una quantità di neve che non si ricordava da oltre cinquant’anni e, ancora a metà marzo, se ne trovava traccia in città.
Neve gelata, annerita dallo smog, persisteva ai bordi della via che costeggiava la massicciata ferroviaria e portava all’azienda in cui lavoravo.
Come la neve di quell’anno, dentro di me non si scioglieva un grumo amaro di nostalgia, un ricordo di lei.
Si chiamava Martina, lavorava nella stessa azienda: occhi dolci e mansueti, del colore dell’ambra quando il sole ne esalta le sfumature dorate.
Sul viso, la bellezza dei suoi venticinque anni, velata dall’ombra di chi ha perduto le illusioni della prima giovinezza, promesse negate nella prova della realtà.
Aveva una storia sbagliata alle spalle: un matrimonio finito anzitempo e un bimbo di sette anni che cresceva da sola.
Del padre di suo figlio non parlava mai.
Di certo doveva essere stato un bastardo, perché si era eclissato tre mesi dopo la nascita del bimbo, lasciandola ad arrangiarsi senza più dare segno di sé.
Martina aveva un’aria fragile, ma con la nobiltà di modi conferita dalla forza d’animo con cui affrontava le difficoltà del vivere.
Lavorare e allevare un figlio in solitudine non era cosa facile per nessuno.
Saperla in quelle difficoltà mi procurava una spina dolorosa nell’anima.
I nostri rapporti di lavoro, nei rispettivi ruoli, erano quotidiani: spesso compivamo insieme il giro della rete vendita, usando l’auto aziendale.
Io mi occupavo della pubblicità e dell’immagine dei nostri negozi in franchising, lei era responsabile del prodotto per la linea donna aziendale.

A sera si rientrava e sostavamo in macchina all’imbocco della via che portava all’azienda, regalandoci il tempo di fumare una sigaretta e scambiare qualche parola.
Si chiacchierava del lavoro e delle nostre vite, di cosa immaginavamo e desideravamo per il futuro.
Il sole che tramontava al fondo della strada riempiva il lunotto posteriore di bagliori dorati, creando una luce calda all’interno dell’abitacolo, donando una soffusa magia a quei momenti di amichevole relax.
Momenti che per me erano divenuti preziosi. La sentivo vicina, ma non per lo spazio esiguo dell’abitacolo: era la sensazione di un’intimità di anime a renderli speciali. Il suo profumo delicato, la sua voce morbida mi avvolgevano in un abbraccio soave.
Cadevo in una sorta di calda vertigine, perdendomi nel candore del suo sguardo, nel seguire il movimento morbido delle sue labbra. Mi lasciavo rapire da un totale abbandono al fluire delle sue parole, alla suadente empatia che si generava tra noi.
Mi capitava di indugiare nella fantasia, su come sarebbe stata una vita con lei.
Immaginavo lo svolgersi del nostro quotidiano: pensavo agli impegni del lavoro assolti insieme, i viaggi compiuti per seguire, ogni stagione, i saloni della moda: il Pitti Uomo a Firenze, il SEM a Parigi, le collezioni di stilisti italiani e internazionali nella settimana della moda milanese, le puntate annuali a Londra, Los Angeles o New York per catturare idee e tendenze.
Camminare insieme lungo le strade di quelle grandi città, per visitare i negozi più aggiornati del settore, i grandi magazzini del fashion, per trovare spunti su soluzioni espositive per l’arredo dei punti vendita o nella vetrinistica.
Fermarci a sera, dopo una giornata di faticoso peregrinare per i luoghi d’interesse, in qualche intimo ristorante del posto, per consumare una cena con piatti locali dal sapore esotico.
Le mie fantasie si fermavano a quel limite, senza contemplare i dopo cena. Delle notti che avremmo trascorso insieme preferivo non figurarmi nulla.

Era una sorta di strano pudore, un non volerla coinvolgere in una fantasia carnale che involgarisse quel desiderio che pure mi faceva fremere, quasi un rispetto verso di lei.
Sentivo un po’ ridicola quella premura: era come elevarne la figura fuori dalla dimensione fisica dell’amore, che pure era implicita nel desiderarla.
Ma, per un bizzarro meccanismo mentale, per la prima volta da quando avevo superato l’adolescenza, mi capitava di sentire il bisogno di un sentimento fatto di purezza, perfino casto.
Di certo, superata la soglia dei trent’anni, mi stavo rincoglionendo.
Pur subendo un costante turbamento, confinavo quella passione entro gli argini di un silenzio penoso che mi imponevo per il timore che anche un solo sguardo in eccesso potesse guastare quel delicato equilibrio di sentimenti.
Ero preso come un sedicenne alla prima cotta, ma non potevo rivelarlo a nessuno: ero un uomo sposato e con una figlia di cinque anni più grande del suo bimbo. Lei veniva da una storia disastrosa; che mai avrei potuto chiederle od offrirle in quella situazione?
Era evidente che non ci fosse possibilità di una storia tra noi, se non generando uno stravolgimento radicale delle nostre esistenze.
Non era certo una donna con cui vagheggiare una facile avventura: era limpida come un cristallo prezioso.
Una relazione clandestina mi ripugnava; lei meritava ben di più di una storia fatta di momenti rubati alle nostre vite regolari.
Incontri consumati in piccoli alberghi a ore della collina, o in auto con i finestrini appannati per la condensa, nel buio di una strada deserta al termine di una giornata di lavoro.
Con lei non poteva esistere un rapporto vissuto nello squallore di una continua menzogna. Non mi restava che vivere ciò che provavo nel silenzio.
E poi, cosa mi assicurava che ricambiasse quanto sentivo?
L’amicizia e la dolcezza che mi mostrava erano un segno troppo incerto; il rischio di scambiare il semplice affetto amicale per qualcosa di più profondo era altissimo.
Quante volte si era creata una pericolosa vicinanza dei nostri volti, con i respiri uniti nello scorrere delle parole, delle risate, degli sguardi d’intesa.
Quante volte, quando un attimo di silenzio fra le nostre frasi pareva divenire un’eternità, avevo pensato:
– Ora la bacio.
In quei momenti i nostri occhi si incontravano; entrambi parevamo consapevoli di ciò che stava per accadere, ineluttabile come il sole che lentamente si spegneva alle nostre spalle, cedendo alle ombre soffuse del tramonto, creando un’atmosfera intima e complice all’interno dell’auto.
Poi quell’attimo fuggiva e non accadeva nulla, si dissolveva come un pensiero sconveniente, di cui ci si pente nello stesso momento in cui sorge.
Restava in bocca la sensazione sgradita di una medicina dal sapore amaro, ingoiata controvoglia, sapendo di non poter fare diversamente.
Nel salutarci, lei mi sfiorava la guancia con un bacio rapido e innocente, o con la carezza lieve della mano, poi apriva la portiera e usciva per raggiungere la sua auto più avanti nella via.
Restavo a guardare la sua figurina allontanarsi, con l’ombra lunga della sera che anticipava i suoi passi.

Le tempie mi pulsavano:
– Ti amo, Martina – mi dicevo in silenzio, con dentro un languore dolente e freddo.
Rimasto solo, inspiravo a occhi chiusi la sua essenza, che ancora albergava in macchina nella fragranza calda lasciata dal suo profumo.



(Continua)

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