L’incontro – Pt.15

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[CC25] La mano morta - Costruttori di Mondi



L’incontro – Pt.15


Alla metà della quarta settimana di ricerca si aprì finalmente uno spiraglio di speranza.
La mia esultanza schizzò alle stelle.
Non era il numero di casa di Patty, ma quello di una sua lontana parente che, alla mia descrizione, confermò di conoscere il numero della zia che l’ospitava.
Non sapeva dirmi se Patty fosse da lei, se fosse tornata in Veneto o chissà dove, ma in ogni caso era una traccia preziosa per la mia ricerca.
Fu anche una botta di fortuna, poiché mi disse che la zia non compariva sull’elenco telefonico con il suo cognome, ma con quello del marito; quindi, anche se avessi esaurito la lista dei nomi, non sarei riuscito a trovarla.
Felice, trascrissi il numero agognato, ma per quel giorno non ebbi il coraggio di chiamarla.
Sentivo dentro un tremito d’emozione che mi mozzava il fiato.
Nel resto della giornata fui assalito da pensieri dubbiosi: fremevo nell’ansia di essere vicino alla meta, ma temevo di scoprire che né la zia né i genitori di Patty sapessero più dove fosse finita.
Questa ipotesi mi agitava non poco.
Se così fosse stato, sarei precipitato nella disperazione più totale, sarebbe stata la fine di questa folle ricerca: in sostanza, non avrei più saputo dove sbattere la testa.
Mettendo da parte i pensieri cupi, cercavo di immaginare quale sarebbe stato il tenore del nostro futuro primo dialogo. Mi sentivo quasi in ansia da prestazione, come se dovessi affrontare un esame.
Avrei dovuto controllare il tono della voce per non far trasparire che, nell’uomo adulto, albergasse ancora la titubanza dell’adolescente.
Patty era ormai una donna che la vita aveva maturato; non potevo certo apparirle come un pivello mal cresciuto, avrebbe riso di me, classificandomi come un bamboccione irrisolto e infantile.
Dovevo approcciarmi alla donna di oggi, non al ricordo della ragazza che portavo nella memoria di dieci anni prima. Dovevo essere pronto anche a un insuccesso, all’eventualità che le risultassi indifferente, se non d’impiccio.
Per quanto ne sapevo, rivedermi poteva anche non interessarle minimamente.
I sogni erano una cosa, ma la realtà poteva essere tutt’altro.
Se così fosse stato, non avrei dovuto mostrarmi deluso o ferito, ma atteggiarmi a sereno; forse, in tal modo, non avrebbe perso interesse a risentirmi.
Avrei guadagnato la possibilità di riannodare il filo della nostra amicizia e, chissà, di ricostruire quanto c’era stato prima del distacco.
Sarebbe potuta rinascere la nostalgia di noi, se non fosse tutto morto per sempre.

Il giorno seguente, nel primo pomeriggio, chiamai il numero della zia.
Una voce matura con cadenza veneta, dal tono serio ma a suo modo disponibile, rispose.
Reputai che al telefono ci fosse una donna sulla cinquantina.
Non potendola vedere, me la figurai simile a mia suocera, originaria della zona di Padova.
Ovviamente, non conoscevo abbastanza la lingua veneta per cogliere le differenze d’intonazione tra chi era nato a Vicenza e chi a Padova, ma immaginarla come una persona conosciuta mi aiutava a essere più disinvolto.
Dopo essermi presentato e scusato per il disturbo, le dissi di essere un vecchio compagno di liceo di Patty.
Per giustificare la mia ricerca, inventai una fantomatica cena di vecchi compagni di classe che stavo cercando di organizzare.
La cosa sembrò funzionare: la zia divenne subito più cordiale, disse che le pareva una bella idea riuscire, a distanza di tanti anni, di riunire i vecchi compagni intorno a una grande tavolata.
Aggiunse, però, che Patty era molto impegnata e non era certa che potesse partecipare all’evento.
Preoccupato, le chiesi il motivo: mi spiegò che Patty viveva in Veneto, fuori Vicenza, e che veniva a Torino una volta al mese per sbrigare alcune faccende, fermandosi a casa sua per un paio di giorni.
Le chiesi se potesse fornirmi il recapito telefonico di Patty, così da contattarla direttamente.
Con tono gentile ma fermo, mi disse di avere pazienza: non conoscendomi personalmente, non si sentiva autorizzata a darmi il numero della nipote, ma l’avrebbe informata della mia chiamata e del fatto che la cercavo.
Mi annunciò, inoltre, che Patty sarebbe dovuta arrivare a Torino entro una decina di giorni per le sue consuete faccende; se avesse avuto piacere di risentirmi, mi avrebbe richiamato lei.
Le chiesi se conoscesse la data precisa dell’arrivo, così da poterla ricontattare, ma rispose che preferiva fosse Patty a farlo, se lo avesse ritenuto opportuno.
Non aggiunsi altro, ci salutammo, e con un sentimento sospeso tra la delusione di non poterla sentire subito e la speranza che mi richiamasse al più presto, restai in attesa del suo arrivo in città.
I dieci giorni si trasformarono nelle due settimane successive.
Ero quasi caduto in una funerea rassegnazione, convinto che Patty non avesse nessuna intenzione di contattarmi.
Che, in fondo, non le importasse più nulla di me.
Questo faceva male, ma se le cose stavano così, dovevo farmene una ragione.
Mi sarei finalmente convinto di quanto fossi stato sciocco.
Chi altro si sarebbe imbarcato in un’idea tanto assurda come cercarla, dopo dieci anni di silenzio, spinto da un bacio in un sogno surreale?

Per alleviare quella prostrazione ci sarebbe voluto un robusto spinello, come quelli dei tempi del liceo, ma avevo smesso di fumare canne da cinque anni, quando avevo dovuto scegliere tra continuare a essere un tardo freak, perennemente sballato, o un giovane manager con una carriera in ascesa.
Essere un giovane padre di famiglia mi aveva imposto di abbandonare le vecchie consuetudini e di concentrarmi seriamente sul lavoro.
Ero infatti entrato a far parte di un’azienda nel settore moda-abbigliamento, che ambiva a una rapida crescita attraverso un franchising con punti vendita monomarca, seguendo la formula commerciale e d’immagine dei quindici negozi di proprietà già esistenti.
All’epoca, con la prospettiva di un’espansione e di una sede adeguatamente ampia, era stato acquistato, nella vecchia zona industriale cittadina, un enorme edificio che vent’anni prima aveva ospitato una fabbrica di trafilati metallici.
La struttura era un vero rudere di archeologia industriale: l’esterno vetusto, l’interno, disabitato da quattro lustri, appariva disastrato e caotico, come scampato a un attentato dinamitardo.
Oltre a essere destinata a nuova sede aziendale, una sua parte, ristrutturata ad hoc, avrebbe ospitato un moderno “centro uffici” con innumerevoli servizi e una prestigiosa reception all’ingresso.
Un centro pensato per offrire al mondo delle imprese e dei professionisti una sorta di “hotel a cinque stelle” in cui svolgere le loro attività, corredato di servizi completi per il lavoro.
Si prevedevano spazi attrezzati: dal semplice ufficio alla showroom per riunioni di agenti o stage di formazione, saloni per conferenze o semplici business corner per incontri d’affari.
Ci sarebbe stata anche una “bar room” per colazioni e brunch di lavoro, con caffè, cappuccini, bibite e cocktail per aperitivi. Sarebbe stato un servizio efficiente e professionale, offerto allo stesso prezzo di un locale per vip di Porto Cervo. L’ideale per soddisfare le esigenze di un mercato dei servizi dinamico, come il tempo richiedeva, remunerato con un tariffario stellare.
A conti fatti, sarebbe stato meno dispendioso per i futuri clienti comprarsi cemento e mattoni per costruirsi personalmente un ufficio, piuttosto che noleggiarlo in quel posto.
Ma tant’è, i tempi erano rampanti, e sembrava che i soldi facili piovessero dal cielo, beneficiando chiunque facesse business.
Quando nacque l’iniziativa, a me, che mi occupavo della grafica commerciale dell’azienda, fu proposto, in attesa della ristrutturazione dell’edificio, di occupare alcuni vecchi uffici al piano terra, fronte strada.
Io e la mia squadra di grafici, composta da quattro elementi, avremmo avuto a disposizione tre ampi locali per le nostre scrivanie e i tavoli da lavoro, oltre a una sala di cinquanta metri quadri per allestire una camera oscura e un laboratorio tecnico per le scenografie vetrinistiche.
Così, fui condotto per la prima volta a visitare la vecchia fabbrica e gli spazi che ci sarebbero stati temporaneamente destinati.
Lo spettacolo che si presentò ai miei occhi fu subito drammatico.
Ovunque c’erano resti di arredi distrutti, materiali di scarto di ogni genere: calcinacci, laterizi di muri sfondati, polvere e muffe, frutto di vent’anni d’abbandono.
Agli occhi del visitatore, il posto appariva come un antro oscuro, desolato e sinistro: uno scenario postbellico o un dantesco girone infernale.
Il sentimento immediato, davanti a tale spettacolo, fu di totale repulsione. A ogni passo, migliaia di insetti di classificazione indefinita fuggivano, si percepivano ombre furtive di ratti correre a nascondersi negli anfratti, alcuni dei quali si palesavano mostrando dimensioni da Basset Hound.
Tutto lasciava presagire la presenza di comunità di crotali, dormienti nei mucchi di legname putrido accatastati nel capannone. Colonie di pipistrelli vampiro, li immaginavo appesi al sottotetto, in attesa del pasto notturno.
Il posto era lugubre e poco illuminato; una rada luce filtrava dagli abbaini sulla spianata del tetto, resi opachi da secoli di sporcizia.
Una caligine sottile e polverosa aggrediva la gola con miasmi di fogna; pozze d’acqua marcia, piovuta dal tetto sconnesso, stagnavano tra un proliferare di muschi in ampie buche del pavimento.
L’insieme conferiva all’ambiente un’atmosfera spettrale e un senso di forte inquietudine.
L’azienda, felice di offrirci in anteprima quegli ampi spazi di lavoro, si prodigò in complimenti al mio gruppo, che a suo dire mostrava un ardimentoso spirito pionieristico.
Tuttavia, coerente con i suoi principi di oculata parsimonia, non fornì alcun supporto logistico per i lavori di sgombro e pulizia dei locali, limitandosi a darci detergenti, scope, vernici e pennelli per imbiancare le pareti.
Così, prima ancora che il resto dell’azienda si trasferisse nella nuova sede, ottenemmo la nostra prima area di lavoro.
Per un anno vivemmo come un ente esterno, lavorando in totale autonomia operativa; il contatto con l’azienda si limitava alla ricezione delle commesse e alla loro consegna.
Lavoravamo in totale serenità: i miei ragazzi, tutti provenienti da studi artistici, erano in sintonia con il mio background culturale.
Eravamo un gruppo compatto e scanzonato di fricchettoni prestati alla grafica pubblicitaria e al fashion system.
Il nostro lavoro si accompagnava alla musica rock a volumi da rave party e al consumo di qualche canna che corroborava il nostro spirito creativo, aumentando la fantasia.
Fu in uno di quei fumosi pomeriggi che, terminata la canna che avevamo fatto girare tra i tavoli, mi avvicinai alla finestra che dava sul marciapiede dell’edificio per spegnere il mozzicone dello spinello sul davanzale esterno.
Mentre, allegramente fatto e molto concentrato, spegnevo il filtrino sul marmo dell’imposta, non mi accorsi della presenza che mi si era parata davanti.
Nell’alzare lentamente lo sguardo, incrociai gli occhi del Presidente dell’azienda, che osservava l’intera operazione.
Rimasi impietrito, sentii le gambe cedere, mentre lui esordiva con un:
    - Buongiorno. Come andiamo qui?

(Continua)

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