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Oltre i nostri confini
Era una piccola galleria d’arte, nascosta in una viuzza laterale tra le più antiche della città. Esponeva un’insegna d’altri tempi: uno stemma di ferro arrugginito con un nome curioso: Spazi Vuoti.
Antonio non sapeva spiegare perché tornasse sempre lì. Forse per il silenzio. O per quell’odore di pareti appena tinte, mescolato al profumo del legno vecchio. Nessuna delle opere aveva un titolo, nessun autore era citato, nessuna spiegazione accompagnava le tele. Solo scatole di legno ai piedi dei quadri, contenenti blocchetti e matite. Una richiesta semplice: “Lascia qualcosa di tuo”.
Non si era mai fermato a scrivere. Non era il tipo da condividere pensieri, men che meno emozioni. Ma un giorno si bloccò davanti a una nuova tela, più ampia del solito, dipinta con una cura quasi crudele nei dettagli: un cielo grigio, quasi nero; sulla sinistra, un muro bianco interminabile, che pareva dissolversi nell’orizzonte. A fianco, un sentiero sterrato scendeva lentamente verso un mare agitato, scuro, impietoso. Nessuna figura umana. Nessun animale. Solo il muro, il sentiero, il mare.
Antonio si sedette su una panca, rimanendo a lungo a fissare il quadro, con il respiro affannoso. Il muro lo affascinava. Non per la sua bellezza, non era bello, anzi: spoglio, persino banale, ma sembrava custodire qualcosa. Un confine, forse. Un limite che conosceva fin troppo bene. Era cresciuto in cortili simili. In un piccolo paese di pietra bianca, calcinata dal sole; in una casa vicino al mare, circondata da vigne e uliveti, con il vento che urlava tra i cardini delle finestre e muri odorosi di sale e muffa. Un luogo senza bambini, senza giochi, solo il suono del vento, il rumore delle onde e le voci degli adulti che parlavano sottovoce. Non gli era mai stato vietato uscire, ma nessuno lo aveva mai invitato a farlo.
E lui aveva imparato a restare dentro. Aveva fatto del muro un alleato, un rifugio. Ma col tempo quel confine era diventato una prigione sottile, una paura senza nome: quella di attraversarlo. Di vedere cosa ci fosse oltre.
Davanti a quel quadro, Antonio sentì qualcosa muoversi dentro di sé. Come se il muro gli parlasse. Come se lo sfidasse. Prese la matita e scrisse, per la prima volta: “Sono cresciuto dentro un muro. Liscio, bianco, silenzioso. Il mare era fuori, e mi faceva paura. Avrei voluto qualcuno accanto per attraversarlo. Io sono Antonio”.
Piegò il foglio e lo lasciò nella scatola. Mentre usciva dalla galleria, una leggera pioggia batteva sulle strade, portando con sé quasi l’odore della salsedine sul catrame bagnato. Sentì che qualcosa dentro di lui, qualcosa di vecchio e chiuso, si era finalmente aperto.
Passarono alcuni giorni prima che Antonio tornasse alla galleria. Era rimasto con una sensazione inesprimibile addosso, come una febbre sottile, una nostalgia senza oggetto. Camminava per le strade con la testa piena di pensieri che non riusciva a scrollarsi di dosso. Il muro del quadro lo seguiva ovunque: nei sogni, nei riflessi delle vetrine, nei rumori del mare che percepiva anche a chilometri dalla costa. Entrò in galleria un venerdì pomeriggio.
L’aria era più calda, come se l’estate avesse deciso di affacciarsi in punta di piedi. Si avvicinò al quadro. Qualcosa nella scatola dei biglietti era cambiato. Un foglietto piegato, color crema e diverso dalla carta standard della galleria, attirò la sua attenzione. Lo prese con mani tremanti, come se si aspettasse qualcosa scritto solo per lui. Le dita gli tremavano mentre lo apriva. Il cuore gli batteva forte, ancora prima di leggere.
“Anch’io ho conosciuto muri. Ma li ho scalati per fuggire, non per restare. Il mare mi ha sempre fatto paura, perché mi ricorda quanto siamo piccoli. Ma a volte essere piccoli insieme è la cosa più grande che possiamo fare. Sono Eleonora”.
Passarono alcuni giorni. Antonio nutriva delle remore a tornare in galleria, non sapeva spiegarsi bene il motivo, ma ci tornò comunque, sempre di venerdì. Vide una donna leggere i biglietti davanti a quel quadro. Vestita come tante ragazze di oggi, ma con un’aria d’altri tempi nel taglio dei capelli, nella forma del viso, nella piega austera delle labbra, persino nel modo in cui teneva i foglietti tra le mani. Antonio sentì un impulso strano. Non la conosceva. Eppure...
— Anche tu pensi che sia il mare… Eleonora? — chiese quasi senza volerlo, stupito dalla propria sfacciataggine. Lei si voltò. Occhi profondi, scuri, intensi. Un sorriso incerto. — O il cielo. O l’anima. Dipende dal giorno... Antonio?
Iniziarono a parlare. Del quadro, dei messaggi, di tutto ciò che non veniva detto. Eleonora era un’insegnante di sostegno, amante dei silenzi e delle cose che non si spiegano. Tornarono insieme più volte. Guardavano il quadro in silenzio, rimanendo vicini. Eleonora gli raccontò di un padre e di un fratello morti in un incidente d’auto. Lui, di una madre svanita lentamente dietro una malattia che l’aveva resa un’ombra, e di un padre che si era lasciato andare per il dolore. Gli parlò della sua infanzia solitaria. Dietro un muro. Poi, Eleonora smise di farsi vedere. Una, due, tre settimane. La scatola accanto al quadro restava vuota.
Antonio continuava a tornare, sperando di trovarla. Nulla. Pensò a ogni possibilità: che fosse partita, che avesse cambiato idea, che tutto fosse stato solo una casuale intersezione di solitudini, e niente più.
Un giorno, Antonio la rivide. Sempre davanti al quadro. Le si avvicinò piano alle spalle, ma lei non sussultò: sembrava aspettarlo. Eleonora gli sorrise, un sorriso triste, uno sguardo che gli attraversava l’anima. — Sai — gli disse — ho pensato che i muri si attraversano in due. Se andassimo a vedere la tua vecchia casa? Quella vicino al mare?
Un vuoto improvviso attraversò Antonio. La guardò come se parlasse una lingua che non conosceva. Scosse la testa, per riflesso. Fra tutte le possibilità del mondo, non aveva mai preso in considerazione quella di mostrare a qualcuno i luoghi della sua sofferenza.
— Ti farò sapere — le aveva detto, poi, stringendole le mani con tenerezza: — Scusami. Ti farò sapere. Devo andare.
Qualche giorno dopo, rientrò in galleria. Si guardò attorno con cautela, sperando che non ci fosse. E infatti non c’era: di solito veniva il venerdì.
Scrisse un messaggio breve: “Va bene. Ma non entrare se non te la senti”.
La casa di Antonio si trovava alla periferia di un piccolo paese costiero, mezza abbandonata, con le persiane chiuse da anni e la ruggine che divorava il cancello. Quando arrivarono, il vento portava con sé l’odore di alghe e paglia marina. Eleonora lo aiutò ad aprire il cancello, ostacolato dalle erbacce cresciute tutt’intorno. Poi lo osservò mentre rimaneva immobile, quasi rapito, a guardare quel cortile che da bambino gli era sembrato immenso: il suo mondo, ora soffocato dalla gramigna e incredibilmente piccolo. Eppure, il muro esterno, quello vero, era ancora lì: bianco, consumato dal sale, alto abbastanza da impedire lo sguardo oltre. Antonio si avvicinò piano, affondando nell’erba alta fino alle ginocchia, e toccò il muro con delicatezza, come se temesse di svegliare un severo e inesorabile guardiano addormentato. Poi si voltò verso Eleonora.
— Qui ci parlavo, da piccolo. A bassa voce. Credevo che dall’altra parte ci fosse qualcuno ad ascoltarmi. Sai... Una specie di amico immaginario, qualcuno, insomma.
Eleonora si avvicinò e gli prese la mano.
— Magari c’era davvero qualcuno. Solo che ci ha messo un po’ a trovarti.
Antonio sorrise. Un sorriso stanco, ma sincero. Rimasero lì, in silenzio, per qualche minuto.
Poi, senza dire nulla, si avviarono verso la casa.
All’interno, tutto era rimasto come lo ricordava: i mobili coperti, la polvere ovunque, la luce filtrata dai vetri opachi. Salì lentamente le scale, seguito da Eleonora, e si fermò davanti alla stanza che un tempo era stata la sua. Il letto, il comodino. Una finestra affacciata sul mare, che da lì non si vedeva, ma si sentiva. Aprì il cassetto cigolante di un tavolino, prese una piccola tartaruga di gesso colorato, sorrise, poi la ripose. Aprì finalmente l’anta. Il vento entrò come un respiro trattenuto per anni.
— È strano — disse — per tanto tempo ho avuto paura di tornare. Ma ora... non fa più male.
Eleonora gli si avvicinò e gli posò una mano sulla schiena, con dolcezza. Leggera, come si fa con chi ha appena corso a lungo.
— Forse perché non sei più solo.
Antonio la guardò. E fu lì, in quella stanza spoglia, che capì davvero cosa aveva trovato. Non solo l’amore. Ma qualcuno capace di stare in silenzio accanto a lui, di ascoltare il suo silenzio, e di leggere i suoi muri senza giudicarli.
Prima di andare via, Eleonora tirò fuori dalla borsa una piccola scatola di legno, simile a quelle della galleria. Ne avevano parlato tempo prima: raccogliere le loro parole, i pensieri lasciati lungo il cammino. La posò sul davanzale della finestra e, su un foglietto color crema, scrisse: “Non ti ho trovato dall’altra parte del muro. Ti ho trovato vicino a me. E questo basta”.
Antonio sorrise. Poi ne scrisse uno anche lui: “Non ho più paura di uscire. Non perché il mondo sia cambiato. Ma perché ora so che tu ci sei”.
Poi prese con delicatezza le mani di Eleonora e avvicinò il suo viso al suo. Si baciarono. E Antonio sentì, per la prima volta nella sua vita, che poteva essere come gli altri: felice, leggero, libero. Con la forza di poter fare qualsiasi cosa al mondo. Aveva trovato la sua donna, la sua casa.
Chiusero la scatola. Non per nascondere. Ma per custodire.