L’incontro Pt.3
Benché fossi di natura taciturna, non mi ci volle molto per inserirmi tra i nuovi compagni. La classe era costituita da un variegato assortimento di giovani promesse per il futuro mondo dell’arte.
Molti di loro erano decisamente dotati di qualità artistiche e con personalità assai interessanti. Fraternizzai subito, dando vita a un vivace gruppo di “fulminati di testa” all’interno della classe.
Patty era una delle ragazze più carine del gruppo, semplice e spontanea nei modi, con un’aria genuina, acqua e sapone.
Appariva sensibile e con una sua dimensione interiore fatta di nobiltà d’animo e fiduciosa ingenuità verso il prossimo.
Fra le numerose “vampire” che si aggiravano nella scuola, come proterve e navigate dee del sesso, lei ricordava un giglio sbocciato per errore in un campo di graminacee.
Era assai distante dal tipo di ragazze che mi attraevano in quegli anni: la mia natura mi portava a preferire tipi femminili dalle forme più morbide, dalle psicologie più intriganti, dotate di una naturale sensualità.
In pratica, le qualità della ragazza a cui mi sarei unito alcuni mesi più tardi: Sampo.
Il forte rapporto d’amicizia che mi legava a Patty nasceva proprio dal fatto che, pur molto carina, mi ispirava un sentimento di protettiva tenerezza, piuttosto che l’idea di portarmela a letto.
Credo che il viatico di una buona amicizia tra uomo e donna si fondi, essenzialmente, sul fatto che nessuno dei due nutra l’intento di “scoparsi” l’altro.
Patty e la sua amica del cuore, Monica, facevano parte dell’allegra compagnia che si era creata all’interno della classe.
Certe mattine di “taglio” dalle lezioni o durante uno sciopero nell’istituto, ci si trovava tutti al bar “Le Due Salette”, posto in angolo su una traversa di via Po.
Un caffè frequentato da artisti, poeti e personaggi noti della vita torinese: poteva capitarti di prendere un cappuccino a fianco del filosofo Gianni Vattimo o del famoso sensitivo Rol, l’eminente mentalista dalle qualità paranormali.
Erano mattinate di mitico svago, ma anche di accese discussioni filosofiche e politiche, di musica fatta dai ragazzi che si portavano dietro chitarre, flauti traversi, armoniche o sax. Tra un caffè con panna, una Gauloises “papier maïs” senza filtro e una canna, si tirava l’ora di pranzo; diverse volte anche il mio amico Giulio ci raggiungeva e condivideva con noi quelle spensierate ore di giovanile, oziosa trasgressione.
Poiché si era quasi sempre squattrinati, per procacciarci il denaro delle consumazioni si ricorreva alla cosiddetta “questua proletaria”.
Attività che si attuava percorrendo su e giù, su entrambi i lati, via Po da piazza Castello a piazza Vittorio Veneto, chiedendo ai passanti un obolo di cento lire.
Famosa era divenuta la formula di richiesta: “Ce l’hai per caso cento lire?”.
Questa pratica, nel gergo freak, veniva chiamata “battere lira”.
Definizione che in qualche modo alludeva al mestiere più antico del mondo, ovviamente in senso ironico.
L’attività era praticata in ugual misura da maschi e femmine, ma andava da sé che a ottenere i maggiori successi nel far aprire i borsellini ai passanti fossero queste ultime.
Del resto, anche storicamente, agli albori della civiltà, le donne avevano svolto il ruolo di “raccoglitrici”, mentre i maschi erano addetti alla caccia e alla guerra.
La grazia e l’avvenenza delle nostre compagne di classe avevano la meglio sulle ritrosie degli uomini a cui si sollecitava il modesto contributo; non di rado, laddove un maschio riceveva un “Vaffanculo drogato, vai a lavorare!”, una di loro poteva ottenere generose elargizioni che ammontavano fino a cinquecento lire.
Da questo fatto nasceva tra noi maschi il concetto di “mandare a battere” le nostre donne, formulato, ovviamente, nell’ambito non offensivo di un goliardico umorismo.
Patty, nel battere lira, era una vera miniera d’oro: si dice che un battito di ciglia valga più di mille parole; se a quello lei aggiungeva un suo sorriso, tirava su pacchi di lire più di una cinquina al banco del lotto.
Qualche mese dopo che avevo iniziato a frequentare Sampo, Patty si era innamorata di un ragazzo di un’altra classe: uno di terza, più grande di noi di due anni.
Era il prototipo del “bello e maledetto” che, da Alain Delon in giù, andava per la maggiore tra i gusti femminili del momento.
Il diciottenne era belloccio, col labbro sensuale e l’occhio penetrante, lunghi capelli corvini e un’aria di perenne sufficienza concessa al resto del genere umano.
Pur essendo relativamente giovane, mostrava di essere parecchio navigato.
Nel conoscerlo, saltava presto agli occhi il sentore di una personalità venale, una mente spregiudicata e priva di ideali che non fossero rivolti a un qualche profitto immediato.
Alla sera lavorava come deejay in varie discoteche cittadine, attività che gli consentiva di spacciare piccole quantità di “fumo” e “pastiglie”, nonché di essere preda consenziente e ambita da numerose clienti dei locali.
Patty aveva subito il fascino del “bello e stronzo”, entrando in quel circuito masochistico di chi, fragile e dotato di sensibilità, si ritrovava ad amare un narcisista anaffettivo e dal cuore arido.
Da subito avevo visto male quel loro connubio: erano troppo diversi e ritenevo che lei meritasse di meglio di quell’amore tossico, nel quale aveva il ruolo svilente di una ruota di scorta, disponibile quando l’altro non aveva di meglio da fare e desiderava “scoparsela”. Quando Patty mi aveva chiesto la soffitta per andarci con lui, gliela avevo concessa con piacere per l’affetto che le portavo, né mi ero risentito per l’incidente del suo anello perso nel letto, benché per questo avessi subito una seria reprimenda da Sampo.
Mi faceva stare male vederla soffrire per quel rapporto fatto di amarezza e continui tradimenti; sovente la trovavo in lacrime, nascosta in qualche angolo della scuola.
Fu una fortuna quando lui ricevette una proposta di lavoro da una delle emergenti radio private milanesi: si sarebbe occupato di approntare le scalette dei brani musicali da mandare in onda.
Non ci pensò un attimo ad accettare l’offerta; senza un saluto, lasciò il liceo, eclissandosi e mettendo fine alla loro storia.
Lei cadde per un lungo periodo in una sorta di crisi depressiva: vagava come una sonnambula, si “stonava” di canne; difficile comprendere se gli occhi rossi e vacui fossero generati dalla “fattura” del fumo o da lacrime di pianto.
Avevo l’angoscia che, per lenire la ferita che portava dentro, passasse a sostanze più pesanti e letali.
I pusher in “piazzetta”, come veniva chiamata piazza Carlo Alberto, dove avveniva lo spaccio, avevano reso quasi introvabile lo shit, promuovendo invece la diffusione dell’“ero” a prezzi stracciati.
Non sarebbe stata né la prima, né l’ultima, a cercare in una siringa da insulina la via di fuga dal proprio malessere esistenziale.
Avevo chiesto alla sua inseparabile amica di starle dietro, soprattutto nel tempo extrascolastico, nel quale mi era impossibile esserle accanto, poiché i miei pomeriggi erano assorbiti dal mio rapporto con Sampo.
Inutile dire che Sampo non avrebbe apprezzato il ruolo di angelo custode che mi ero scelto verso Patty.
Cercai, per quanto possibile, di esserle vicino: parlandole e soprattutto ascoltandola, cercando di aiutarla a ricostruire un po’ di quell’autostima che quel rapporto sciagurato le aveva azzerato, nel quale s’era sentita alla stregua di una cosa da usare e gettare quando non era più utile.
Sensazione, per altro, amplificata dall’aver fatto, per la prima volta, l’amore proprio con quel “pezzo di sterco”.
In quel periodo, con una punta d’allarme, mi accorsi che un rapporto tanto affiatato e intimo stava mutando la percezione che avevo di lei.
Anche se razionalmente lo negavo a me stesso, mi accorsi che, in maniera incontrollata, mi stavo legando alla presenza continua di Patty nella mia vita.
Lei stava diventando una costante dei miei pensieri, mi era entrata dentro come un elemento significante del mio universo di affetti stretti.
Ne avevo timore, poiché la cosa mi mandava in confusione; non riuscivo a focalizzare ciò che realmente provavo: ero seriamente innamorato di Sampo, non potevo accettare di avere il cuore diviso in due.
Sampo era divenuta il centro della mia esistenza, della mia idea stessa di futuro.
Lei era stata la salvifica isola d’approdo, nel momento in cui la tempesta della morte di Giulio mi aveva gettato in un oceano di smarrimento, facendomi mancare la terra sotto i piedi.
Il primo serio segnale di questo problema lo avevo avuto in occasione del concerto di Elton John, che si era tenuto al palazzetto dello sport di Torino.
Un evento straordinario, essendo il primo concerto italiano del mitico artista inglese. Sampo, per un problema, non aveva potuto esserci, per cui vi ero andato con Alfio, un mio amico di vecchia data.
A noi si erano unite Patty e l’inseparabile amica Monica.
Alfio l’avevo presentato tempo prima a entrambe, sicché dalla conoscenza con Monica era nata tra loro una storia sentimentale.
Nel palasport gremito avevamo trovato posto sotto il palco, una posizione di platea affollata quanto una scatoletta di acciughe sotto sale.
Mentre Elton si lanciava nelle più famose hit, tratte dagli album Madman Across the Water e Honky Château, il pubblico in visibilio, sugli spalti e intorno a noi, si scatenava in danze travolgenti.
Nubi di fumo aromatico saturavano l’aria come fosse calata la nebbia.
Il profumo dello shit era penetrante e inesorabilmente mandava in palla chiunque fosse dotato di olfatto.
Noi quattro non eravamo da meno: Alfio aveva rollato dei corposi cannoni che ci eravamo scambiati, fino a fumarci i filtrini di confezione.
Come sovente avveniva, da Woodstock in avanti, in queste manifestazioni musicali, complice il buio diffuso, le coppie iniziavano a smaneggiarsi.
Totalmente indifferenti all’essere circondate da una folla, per tutta la durata del concerto il pudore veniva archiviato, e la passione scorreva in quei giovani corpi, uniti in un cosmico rito d’amore collettivo.
Alfio e Monica limonavano e ci davano dentro come dei bonobo in calore; solo Patty e io, in preda alle “planate” del fumo, benché partecipi di quell’eccitamento generale, restavamo seduti sul pavimento, lanciandoci sguardi di trattenuto languore.
Affiancati in modo stretto a causa dello spazio esiguo, sentivamo il reciproco calore dei corpi; stavamo avvinti con le braccia a cingere i fianchi, come due teneri innamorati.
I nostri sguardi, attratti da un magnetismo cinetico, ciclicamente si staccavano dallo spettacolo per incontrarsi e donarci un sorriso di complice rimpianto.
La voglia di baciarci trasudava dagli occhi, dai gesti, dal fremito del nostro contatto, ma sapevamo entrambi di non poter solcare quella sottile linea che divideva l’intimità amicale da un qualcosa di più profondo e diverso.
Sulle nostre labbra si ergeva il margine incerto di una diga; il loro incontro ne avrebbe provocato un crollo dagli effetti incalcolabili.
Non potevo baciarla, perché quel bacio non sarebbe stato una semplice unione di bocche e lingue, ma avrebbe avuto il significato di una profferta d’amore, di una promessa impossibile da mantenere.
Se l’avessi fatto, non avrei tradito solo Sampo, che amavo con tutto me stesso, ma avrei anche ingannato Patty, nel momento di maggiore fragilità e bisogno d’amore che stava attraversando.
Desideravo baciarla, ma non potevo, né era giusto che lo facessi.
Resistere era una sofferenza, la stessa che leggevo negli occhi di lei, che di certo capiva, ma sapeva rispettare quella mia impossibilità.
(Continua)