Storia di una stufa
Sono una vecchia stufa economica a legna. Ormai in pensione.
Il mio lavoro, per tanti anni, è stato scaldare la casa e cucinare.
Ricordo ancora quando uscii dalla fabbrica, allineata con le altre mie compagne, tutte splendenti nel nostro smalto bianco porcellanato.
Mi portarono in un paese sulle colline, in un castello che ospitava molti appartamenti. In uno di questi viveva un giovane carabiniere con sottili baffetti neri. Aveva già comprato la legna adatta alla mia piccola camera di combustione, rivestita di mattoni refrattari. Mi accese subito: sento ancora l’ebbrezza di quella prima volta. Sapeva come si accendeva un fuoco. Sorrise, scaldandosi le mani sulle mie piastre di ghisa. Era contento, e lo ero anch’io.
Poco dopo il mio arrivo giunsero anche i mobili: una massiccia camera da letto di castagno in stile Chippendale, un tinello per la cucina con cassetti, cassettoni e una vetrina celeste incisa con uccelli in un giardino fiorito; un robusto tavolo dal ripiano di marmo; un delizioso sofà dai cuscini verdi con braccioli di legno.
Il mio padrone stava per sposarsi. Lo ricordò ad alcuni colleghi che invitò a casa prima di partire in licenza.
─ Mi raccomando: vi telefonerò in caserma quando tornerò con mia moglie. Fatemi trovare la stufa accesa.
Gli amici lo rassicurarono sorridendo.
Arrostirono castagne sulle mie piastre, accompagnandole con un bicchiere di vino.
Sua moglie era una ragazza alta e snella. Mi apprezzò subito, sedendosi accanto a me per scaldarsi: soffriva il freddo.
Lei e il mio padrone venivano da una terra calda, e qui, al nord, l’inverno era rigido.
Dopo un paio d’anni nacque un bambino. Sua madre gli faceva il bagno in un mastello di ferro usando l’acqua calda che scaldavo nella mia vaschetta laterale, mescolandola con quella fredda e controllando la temperatura col gomito.
Il bambino batteva le manine e riempiva la stanza con la sua risata argentina. A volte il mio padrone rientrava e li osservava sorridendo, lasciandosi stringere il dito dal piccolo. Era uno spettacolo vederli così felici.
Passarono anni di vita tranquilla. Io partecipavo a tutto. Lavoravo molto, ma ero contenta: mi sentivo parte della famiglia. Sulle mie piastre bollivano pentole di zuppe e lessi con verdure che profumavano la casa fino alla strada. Sul mio tubo si aprivano delle aste per stendere la biancheria: le goccioline d’acqua che cadevano sulle piastre calde sfrigolavano in modo delizioso.
In quella cucina si mangiava allegri, si ricevevano visite, si festeggiavano i compleanni del bambino, si leggevano le lettere da casa. Ma, dopo tanta serenità, avvertii un’ombra. Una tristezza leggera. La moglie del mio padrone, a volte, piangeva. Forse era nostalgia. Li sentivo discutere.
Un giorno avvertii un grande movimento. Degli uomini vennero a prendermi, insieme a tutti i mobili. Mi caricarono su un camion. Durante il lungo viaggio cercai invano di sapere qualcosa dai miei compagni: anche loro erano sbalorditi e scossi. Poi, dopo ore, salimmo su una nave. Il viaggio fu un incubo. Scricchiolai nelle mie giunture per tutta la notte, sballottata dalle onde.
E il mio padrone? Perché non era con noi? Mi aveva abbandonata?
Sbarcammo in una terra dal sole accecante. Il camion ci portò in un paesino circondato da colline diverse da quelle che conoscevo, e da filari di piante strane. Mi dissero che si chiamavano fichi d’India.
Nella nuova casa tutto era diverso. C’era un piccolo cortile circondato da alti muri, un giardino con piante da frutto. Mi sistemarono in cucina, e ripresi il mio lavoro. Al mio padrone nacquero altri due bambini, una femminuccia e un maschietto.
Cambiammo casa altre tre volte in quegli anni e, infine, anche paese. Mi ero un po’ abituata a questi spostamenti: dipendevano dal lavoro del mio padrone.
Alla fine arrivammo all’ultima destinazione: il piano superiore di una caserma dei carabinieri. Quel posto, con i suoi muri spessi e il cortile interno, mi ricordava un po’ il mio primo castello al nord. Qui vidi tutti e tre i figli crescere, andare a scuola, fare i compiti in cucina, riscaldandosi al mio fuoco nelle sere d’inverno.
Continuavo a scaldare e cucinare. Mi ero specializzata in teglie di pesce e anguille, spezzatini, stufati, bolliti. Avevano anche una cucina a gas, che spesso mi sostituiva, ma ai primi freddi tornavano sempre da me. Amavano il mio calore mentre guardavano la televisione, quel piccolo teatro in cui le persone si muovevano come in una stanza lontana.
Il mio padrone e sua moglie mi erano sempre affezionati. Anche il loro primogenito, quello che mi aveva conosciuta da bambino al nord, mi voleva bene: lo sentivo. Spesso, da ragazzo, accendeva il fuoco lui stesso e cambiava l’acqua nella vaschetta quando bolliva. Era un po’ maldestro, ma gentile. Lo seguivo con un’attenzione particolare: non che gli altri figli mi volessero meno bene, ma il primo figlio, si sa, è sempre un po’ speciale.
Dopo qualche anno si fecero dei lavori in casa. Degli operai montarono alle pareti dei pesanti radiatori in ghisa, che scaldavano le stanze con l’acqua calda che scorreva dentro di loro.
Ma in cucina non li misero, non c’era posto. E così continuarono a usare me.
Gli anni scorrevano tranquilli. Il più grande dei figli spesso faceva i compiti sul tavolo con il piano di marmo, posto proprio accanto a me. A tavola il suo posto era sempre il più vicino al mio calore.
Poi, ancora una volta, sentii che l’aria stava cambiando. Col tempo si diventa esperti in certe sensazioni: aria di trasferimento.
Ma questa volta capii che sarebbe stato l’ultimo per la famiglia. Il mio padrone era invecchiato: i suoi sottili baffetti neri erano diventati due baffoni grigi e bianchi. Il suo lavoro era finito. Era il momento della pensione.
Vennero amici a salutare. L’atmosfera era un po’ triste. Capivo che ancora una volta ci sarebbe stato un cambiamento.
Mi caricarono su un camion assieme ai mobili, e percorremmo una lunga strada che dalle pianure saliva verso le montagne. Poi scendeva su altre colline. Il grosso tavolo della cucina lamentò una sottile fenditura sul piano del suo marmo, dovuta agli scossoni. Dopo ore arrivammo a una nuova casa, appena finita di costruire, affacciata sul mare.
Pensai che, in fondo, non era un brutto posto. Ma nella nuova casa non c’era più spazio per me. Mi sistemarono nell’angolo di un grande stanzone, senza più collegamenti per i miei tubi. Nel corridoio venne messa una grande stufa che bruciava kerosene, non più legna. Aveva anche lei un tubo, e purtroppo in casa c’era un solo foro disponibile.
Mi chiesi spesso perché non avessero messo me al suo posto: mi sentivo efficiente, avrei saputo scaldare e cucinare ancora bene. Ma non me la presi. Un po’ di riposo, pensai, forse mi avrebbe fatto bene. O cercavo di convincermene.
Il mio padrone mi passava davanti ogni giorno, sfiorandomi con un tocco lieve. Un saluto, un ricordo. E io ero felice di questo: non si era dimenticato di me. Anche sua moglie, con lo stesso affetto, mi guardava con dolcezza.
Li sentivo parlare dei tempi passati, della loro giovinezza, quando scaldavo e cucinavo per loro. Sorridevano. La vita, pensai, dopotutto è fatta anche così.
Vidi il figlio primogenito lasciare la casa un giorno. Tutti lo salutarono piangendo mentre saliva sulla corriera che si fermava davanti a casa. Lo rividi molto tempo dopo: indossava una divisa come suo padre e aveva dei baffetti anche lui. Venne a salutarmi e, per un attimo, vidi i suoi occhi luccicare.
Andò via anche l’altro figlio. Poi la figlia.
Il mio padrone rimase solo con sua moglie. Diventavano vecchi. Poi, col tempo, due figli tornarono nelle vicinanze: lavoravano poco lontano e si vedevano spesso. Sembrava che la vita potesse riprendere, almeno in parte, quella di un tempo. Ma qualcosa, sotto la superficie, era cambiata: i vecchi tempi non volevano tornare davvero.
Alla casa fu aggiunto un piano, ci furono trasformazioni dov’ero io.
Questa volta mi portarono fuori, sotto la tettoia del garage. Prendevo vento e, quando pioveva, talvolta qualche goccia arrivava fino a me. Ma il mio smalto porcellanato bianco resisteva. Da quel punto dominavo l’ingresso della casa, la scalinata che portava al primo piano, dove il mio padrone e sua moglie si erano trasferiti. Il piano di sotto, diviso in due appartamenti, era passato ai figli.
Da sotto la tettoia vedevo il mio padrone salire le scale, sempre più piano. I capelli e i baffoni ormai bianchi, lo sguardo stanco. Ma non mancava mai di rivolgermi un cenno, una carezza.
Un giorno vidi salire da lui un uomo con una valigetta. Il giorno dopo vidi il mio padrone uscire in compagnia del figlio maggiore e della figlia. Avevano con sé un borsone.
Se ne andarono in macchina. Quando tornarono, lui non c’era.
Erano tutti tristi, anche sua moglie, che scese loro incontro con un passo incerto. Aveva gli occhi lucidi. Cosa era successo? Perché non era tornato con loro? Passarono alcuni mesi.
Poi, un giorno, il mio padrone tornò.
Ma era cambiato. Pallido, dimagrito, i capelli lunghi a ciuffi, camminava a stento, sorretto dal figlio maggiore. Ci mise un’eternità a salire le due rampe di scale, e così potei osservarlo bene. Penso che se ne accorse, perché si voltò e lanciò uno sguardo verso di me. Un brivido mi attraversò.
Passò un altro mese. Il mio vecchio padrone usciva raramente e sempre ben coperto. Vedevo più spesso i figli e sua moglie. Il figlio più piccolo sapevo che viveva all’estero: tornava una o due volte l’anno.
Un giorno la moglie del mio padrone scese lentamente le scale, sorreggendolo. Ogni gradino era un’impresa. Li guardai avvicinarsi.
Il mio padrone accelerò faticosamente il passo e, arrivato a me, posò le mani sui miei braccioli laterali, accarezzò gli sportelli. Sentii tutto il suo peso, la sua debolezza.
Aprì lo sportello della legna, come una volta: il gesto era lo stesso. Guardò dentro, annuì. Era come se dicesse che per lui ero ancora la stessa, che ero pronta da accendere. Anche sua moglie annuiva, con un sorriso triste.
Poi si staccò da me, facendo scorrere le mani sui miei fianchi, come una carezza lunga e lenta.
Il giorno dopo, mentre il figlio maggiore stava sistemando qualcosa vicino al garage, udì un urlo della madre. Lasciò tutto e salì di corsa le scale. Sentii altre grida. Poco dopo arrivò l’uomo con la valigetta. Uscì poco dopo, scuotendo il capo. Poi venne altra gente. Tanta.
Ero in allerta.
Quella notte, in casa, rimasero accese tutte le luci.
Il giorno dopo arrivarono uomini vestiti di nero, che portarono una cassa di legno lucido. Venne moltissima gente; non c’era più posto in casa, nel cortile, in strada. Dalla via laterale arrivavano molte macchine, parcheggiate in fila lungo la strada che scendeva al mare. Venne un uomo vestito di un abito lungo e viola; al suo passaggio tutti si facevano un segno sulla fronte.
Vidi la cassa uscire, portata dagli uomini in nero. Dietro c’era la moglie del mio padrone e i loro figli, tutti vestiti di nero. Piangevano.
Non vidi il mio padrone. Ma capii: era dentro quella cassa. Non poteva essere altrove.
Davanti al cancello c’erano diversi carabinieri. Accanto a loro dei vecchi con bandiere: alcuni portavano baffoni bianchi. Erano tristi. Al passaggio della cassa si levò un urlo, le bandiere si abbassarono, i carabinieri portarono la mano alla visiera del berretto con un gesto secco, solenne.
La cassa fu caricata su una lunga macchina che partì piano, seguita a piedi dalla famiglia e dalla folla.
Rimasi sola e in silenzio a lungo.
Il mio padrone se ne era andato.
Qualcosa in me si staccò, ma non ci feci caso. Soffiò un vento caldo e leggero. Alcune foglie si posarono su di me, poi scivolarono lungo i miei fianchi.
In quel momento capii che cosa fosse davvero un pianto. L’avevo visto tante volte, soprattutto nei bambini, e sapevo che nasceva dal dolore.
Io non potevo piangere.
Ma quelle foglie che scivolavano su di me erano il pianto che non potevo fare.
Il mio padrone se ne era andato per sempre.