[Lab17] Il mio caro amico Mancini - Costruttori di Mondi
Atrax robustus – Parte 8
Il Golden Retriever come razza canina fu creato nel 1868 da Sir Dudley Coutts, in seguito divenuto Lord Tweedmouth.
Uomo d'affari scozzese, ma soprattutto appassionato di animali, di cani e della caccia.
Sir Dudley sognava un cane da riporto perfetto in acqua e a terra, soprattutto per la caccia alle anatre. Incrociò un Yellow Retriever con un Tweed Water Spaniel (oggi estinto), aggiungendo poi Setter Irlandese e Bloodhound.
Ne risultò un cane di taglia media-grande dal mantello doppio, impermeabile, con pelo esterno lungo, liscio o ondulato, in tutte le sfumature di oro e crema: dal chiaro al dorato intenso.
Coda lunga, portata alta ma non arrotolata, testa imponente, occhi scuri e dolci, orecchie pendenti.
Carattere mansueto, tra le razze più intelligenti e affidabili: estremamente socievole con persone e altri cani, di rara aggressività.
Paziente, fedele, ideale per famiglie numerose, amato dai bambini, perfetto compagno per gli anziani.
Leopoldo era il Golden Retriever di Luigi.
Il nome, ispirato dalla sua bellezza regale e dal portamento maestoso mostrato fin da cucciolo, era inevitabile: impossibile per chiunque non innamorarsene.
Luigi lo amava con un affetto paterno sconfinato.
Un figlio umano non avrebbe ricevuto maggiori attenzioni.
Con il diminutivo "Leo", Leopoldo non era solo un bel esemplare della sua razza, ma un vero campione.
All'apice della stazza, con una testa voluminosa incorniciata da una criniera lussureggiante, aveva l'aspetto fiero e suntuoso di un re della foresta.
Per Luigi, l'idea che qualcosa di male potesse capitare a Leo era insopportabile.
Avrebbe giocato l'anima ai dadi per quel cane.
Lorenzo Maria era certo che neppure l'amore che quel traditore provava per sua moglie Ginevra – benché se la scopasse ogni volta che lui veniva sedato con quell'espediente perfido – potesse eguagliare quello per il cane.
E poteva comprenderlo. Fin da cucciolo, Leo era un incanto: dolce, coccolone, una vera spugna di carezze. Te lo saresti mangiato di baci.
Anche lui e sua moglie amavano i cani. Quando si trovavano con Luigi e il cucciolo, non mancavano di portargli doni acquistati da Arcaplanet, un fornito negozio per animali di una catena commerciale appena aperto in città: frisbee in gomma morbida, ossi duri, palle Chuckit!
Duravano poche settimane: Leo le dilaniava a morsi nei suoi giochi vivaci.
Ricordava con nostalgia quei pomeriggi domenicali al parco de La Pellerina, in tre con Luigi e la bestiola che cresceva in dimensione e splendore.
Compivano lunghe passeggiate, Leo lasciato libero correva a perdifiato dietro la pallina che gli veniva lanciata, riscuotendo sempre l'ammirazione dei passanti incrociati.
Anche Lorenzo Maria gli era affezionato. In un certo senso, lo sentiva suo come un nipote acquisito, cresciuto e coccolato insieme.
Gli piangeva il cuore per ciò che stava per fare, ma la vita a volte impone scelte ripugnanti. Non sarebbe stato solo Luigi a soffrire, anche per lui sarebbe stata una prova dura, sapeva che avrebbe pianto per la fine del cane.
Leopoldo doveva morire per punire il suo padrone.
Come le colpe dei padri ricadono sui figli, così la colpa di Luigi sarebbe ricaduta sul suo animale adorato.
Ma lo strazio inflitto al padrone era necessario. Inevitabile.
Aveva deciso di distruggere Luigi: moralmente, socialmente, e infine fisicamente.
La morte di Leopoldo sarebbe stata solo il primo passo verso la tomba del suo padrone.
L'ufficio dell'avvocato Luigi Arcati si trovava nel centro storico di Torino, nella zona con la maggiore concentrazione di studi legali e notarili: una delle aree più prestigiose e accessibili della città, grazie alla vicinanza a Palazzo di Giustizia, a sedi istituzionali e attività commerciali.
Il suo studio era al primo piano di un palazzo d'epoca sulla via Avogadro, nell'isolato tra via Revel e corso Matteotti.
Il corso Matteotti, con il suo ampio viale alberato, dotato di panchine e il caratteristico "toretto" – fontanella in ghisa verde bottiglia, icona dell'arredo urbano torinese –, rappresentava un utile spazio, in mancanza d'un giardino pubblico nei pressi, dove condurre i propri cani ad assolvere ai propri bisogni fisiologici.
Nelle belle giornate diveniva anche meta di anziani che ne occupavano le panchine dedicandosi alla lettura del giornale o d'un libro, oppure alla conversazione tra loro.
Mentre i loro cani, ormai conoscenti di vecchia data, non attaccavano briga e scorrazzavano liberi su quella aiuola spartitraffico che costituiva una piccola oasi urbana fra gli antichi palazzi sabaudi.
Come altri professionisti, Luigi portava Leopoldo con sé in ufficio ogni mattina, intorno alle sette e mezza.
Dopo una sosta alla storica pasticceria Gerla in corso Vittorio Emanuele II, uno dei più affascinanti caffè storici di Torino, per consumare una ghiotta colazione a base di croissant ripieni di marmellata, crema o cioccolata, oppure tortine di pasta sfoglia con crema pasticciera e guarnizioni di frutta che accompagnavano un vellutato cappuccino spruzzato di cacao.
Quindi si fermava ad acquistare i quotidiani nell'edicola sotto i portici e fumare una sigaretta, vagliando i titoli della carta stampata, su una panchina del controviale di corso Matteotti.
Leo gironzolava tranquillo all'intorno, senza scendere dall'aiuola, annusando il territorio e sostando davanti a ogni albero di quel tratto, imponenti platani, regolarmente "benedetti" con la sua zampa posteriore sollevata.
Tranquillo, mansueto, intelligente: non occorreva badargli.
Leopoldo non infastidiva nessuno. Se incontrava un altro cane, scodinzolava felice e iniziava con l'altro il consueto rito dell'annusamento delle rispettive parti intime.
Terminata la sigaretta e la lettura, Luigi fischiava e Leo accorreva.
Riagganciato il guinzaglio, insieme si avviavano allo studio.
Un cliché metodico, ripetuto da anni.
Su quella routine – il cane in libertà, la distrazione di Luigi immerso nelle notizie e nei pensieri di lavoro – Lorenzo Maria faceva affidamento per attuare il suo piano.
I cani vanno matti per i dolci e Leo non faceva eccezione, ne era ghiotto.
Un plumcake intriso di antigelo per auto risultava dolce al gusto, sapeva di sciroppo.
Il paraflu contiene etilene glicole: incolore, viscoso, letale se ingerito. Bastano 5 ml per chilo di peso per uccidere un cane in 36–72 ore. Per un Golden Retriever di 34 kg, 170 ml sono più che sufficienti.
Ma Lorenzo Maria non voleva rischi, ne avrebbe usati 300.
Il plumcake era perfetto, ne aveva comprato una mezza dozzina da Gerla, la stessa pasticceria dove Luigi faceva colazione ogni mattina, quelli eccedenti li avrebbe distribuiti ai giovani del suo staff. Non era la prima volta che se li ingraziava portando in laboratorio un plateau di salatini o pasticcini freschi che riscuotevano un caloroso successo.
Luigi durante la sua colazione sovente allungava una brioche o un plumcake al cane accucciato ai suoi piedi, una scelta di familiarità in quel dolce. Di fiducia.
Aveva colmato di antigelo il plumcake, iniettandolo nella pasta frolla spugnosa con una siringa da 100 ml, dovette ripetere l'operazione col liquido verde fluorescente per tre volte, l'odore di vaniglia e mandorle copriva tutto.
Aveva fatto il lavoro nel suo ufficio, lontano da occhi indiscreti, con la porta chiusa a chiave per tutto il tempo, onde evitare che la propria assistente o qualche altro della sua équipe comparisse all'improvviso per qualche motivo.
Il dolce approntato l'aveva messo all'interno di una vaschetta in plastica per alimenti, di quelle usate in cucina, poi riposta all'interno dello stesso sacchetto d'asporto col logo della caffetteria, infine aveva occultato il tutto nel bagagliaio dell'auto, ulteriormente avvolto in un plaid che teneva sempre in quel vano.
La confezione col paraflu residuo aveva seguito la stessa sistemazione, ma all'interno di un vecchio shopper verde scuro di Ralph Lauren che aveva contenuto una sciarpa di cashmere: raffinato dono di sua moglie dell'inverno prima.
La mattina successiva di buon'ora avrebbe posto in atto il suo perverso progetto.
Provava disgusto per ciò che stava compiendo, ma doveva essere spietato e cinico come i due diabolici amanti si apprestavano a essere con lui.
Quella sera con sua moglie si concentrò per rimuovere ogni pensiero e senso di colpa dalla mente, doveva praticare l'esercizio full immersion dell'indifferenza, dalla totale noncuranza.
Era una cosa vitale per la sua autodifesa, uccidere per non essere ucciso.
Durante la cena Ginevra sembrava guardarlo con un'aria strana, uno sguardo diverso dal solito, lui avrebbe detto uno sguardo di sospetto, indagatore.
Ma si era detto che fosse tutto frutto della sua fantasia, stava proiettando su sua moglie il suo disagio interiore.
Poi lei gli chiese: – Ho visto che l'altro giorno hai gettato nel bidone dei rifiuti quelle bottigliette col tuo digestivo d'erbe. Mi pare che ci tenessi molto. Come mai?
Lui finì di masticare il boccone della cotoletta impanata di suino che stavano mangiando, pulì la bocca col tovagliolo e prese un sorso della birra rossa che aveva nel bicchiere.
Poi con un tono neutro rispose: – Quel digestivo ho idea che contenesse un qualche ingrediente al quale sono allergico e mi provoca questi improvvisi colpi di sonno.
– Capisco – disse lei con un tono serio – Ma non hai pensato che questo disturbo dipenda da una narcolessia di tipo nervoso? Forse sei stressato e non te ne rendi conto. Dovresti consultare il medico.
Lui avrebbe voluto riderle in faccia, ma si trattenne con uno sforzo di autocontrollo.
Che straordinaria commediante aveva sposato, la sgualdrina conosceva bene il motivo di quei suoi sonni, ma con quale disinvolto cinismo si mostrava interessata al suo benessere psicologico: degna di un Oscar per l'interpretazione.
Avesse seguito l'impulso del momento si sarebbe alzato e l'avrebbe ribaltata con tutta la sedia con un ceffone violento.
Ma preferì consumare in silenzio la birra che restava nel bicchiere.
– No, non credo sia una cosa da stress – aggiunse – Ho idea che si tratti di qualche componente dell'amaro. Sto già studiando una nuova ricetta, proverò con una nuova serie di erbe.
Le sorrise guardandola negli occhi, lei sostenne lo sguardo, indifferente, mostrando un'espressione impenetrabile simile a una sfinge.
(Continua)
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