La scelta Pt. 14

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[MI 183] Si sta come d'autunno - Costruttori di Mondi



La scelta Pt. 14


Dopo quel nostro confronto di “chiarimento” che, per la franchezza con cui lei lo aveva affrontato, mi era parso di aver subito un rude processo senza possibilità d’appello, mi ritrovai con un senso di serio disagio.
Roberta mi aveva totalmente destabilizzato.
Mi ero sentito messo a nudo: lei aveva passato al setaccio ogni mia celata intenzione, mostrando di averla colta anche sul nascere, comprendendo ogni sua recondita finalità.
Mi aveva posto di fronte agli artifici impiegati per irretirla, alla mia falsa coscienza, per giustificare a me stesso un’innocenza che non possedevo.
Il quadro che ne era sorto non era edificante, mostrava crudamente ciò che ero: un pavido narcisista, ipocrita e disonesto anche con sé stesso, ma anche così maldestro da rendere leggibile la malafede.
Ciò che più mi turbava era constatare che, pur sapendo quale meschino individuo potessi essere, lei non mostrava disprezzo o rancore verso di me.
Al contrario, mi accettava così com’ero, senza provarne disgusto.
Questo mi procurava una spina interiore, perfino commozione per il suo sentimento, aumentando il mio disagio, perché era chiaro che lo facesse per un’unica ragione: mi amava a dispetto della mia pochezza d’uomo.

Non avevo osato farmi vivo per tre settimane, giustificando la mia latitanza con fantasiosi impegni di lavoro che mi portavano lontano dalla città.
In realtà, non avevo il cuore di affrontare il suo sguardo dopo quanto ci eravamo detti; necessitavo di tempo per restaurare la facciata dopo il crollo subito.
Più o meno ricostruito, ero tornato da lei una sera, con la coda tra le gambe, incerto e imbarazzato.
Mi si leggeva in viso la soggezione che provavo.
Roberta finse di non accorgersi di nulla: mi aveva accolto col consueto calore, mostrandosi felice di rivedermi, come se provenissi da un lungo viaggio.
Ci eravamo baciati con calore; lo slancio mostrato nel rivedermi era riuscito a sciogliere il nodo che avvertivo dentro.
Chiese se stessi bene, disse di vedermi smagrito e con un’aria inquieta, si preoccupò che mi alimentassi a sufficienza e che non mi ammazzassi di lavoro.
Mi offrì del caffè e dei dolcetti, mentre ci raccontavamo delle cose fatte durante la nostra separazione, poi mi aveva preso per mano per condurmi in camera da letto.
Ci eravamo amati con tenerezza per oltre un’ora.
Dopo il sesso, mentre sul letto ci rilassavamo e io fumavo, lei si era accoccolata sotto il mio braccio, adagiando la testa sul mio petto.
– Sai, ho temuto di non vederti più – aveva sussurrato piano.
– Perché? – avevo chiesto.
Non aveva risposto, ma avevo sentito le sue lacrime scivolarmi sul petto.

Dopo la doccia ed esserci rivestiti, aveva chiesto di darle uno strappo con l’auto perché aveva un invito a cena dai suoi.
Come al solito, mi ero fermato sul controviale all’angolo con la piccola via che costeggiava la ferrovia, presso l’abitazione dei genitori.
Era scesa dalla macchina compiendo la sua rituale circumnavigazione del veicolo, per venire a prendersi l’ultimo bacio di saluto al mio finestrino.
Glielo avevo corrisposto con calore, questa volta senza sorridere mentalmente del suo vezzo, ma con un moto di tenerezza.
Cosa avrei mai potuto fare per ripagare quella devozione, quel suo amore tanto tenace?
Tutto quanto era accaduto mi aveva toccato nel profondo; stentavo a riconoscermi.
Le cose ripresero a scorrere senza scosse; entrambi avevamo, o fingevamo di avere, rimosso il nostro difficile confronto.
Avevamo scoperto le nostre carte, ora sapevamo chi fossimo senza ombre nascoste o mezze verità a mascherarci; sentivamo l’animo leggero.
Era come rivedere un cielo sgombro da nuvole scure, dopo lo sfogo del temporale.
Arrivava la bella stagione: luce e colori infondevano nuova linfa vitale nei corpi, il buon clima tonificava i nostri umori, donandoci ottimismo e serenità.
Era come vivere in un continuo presente, godendo di ciò che ci donavamo, senza memoria del passato, senza idea del futuro, simile a una perenne vacanza.

I genitori di Roberta tenevano in affitto un alloggio ad Albenga per il periodo che andava da aprile a fine agosto, dividendone il costo con altri loro parenti per renderlo accessibile.
Lo occupavano a rotazione durante le festività o nel periodo delle vacanze estive.
Mi disse che le sarebbe piaciuto avere una piccola vacanza insieme lì, al mare.
Ma poiché mi era impossibile soddisfare il suo desiderio durante un weekend, avevamo deciso di farlo durante la settimana.
Presi due giorni di vacanza dall’ufficio, dichiarando a mia moglie che mi assentavo per l’allestimento stagionale di un nostro negozio ligure in franchising; lei fece altrettanto, ottenendo un permesso dal suo posto di lavoro.
Albenga è una delle più incantevoli città liguri; possiede una ricca storia che risale al tempo dell’Impero Romano e offre numerose attrazioni a disposizione dei visitatori.
Per la sua architettura medievale, è di gran fascino il centro storico, assai ben conservato, e per i tanti negozi e ristoranti dove gustare un ottimo pasto, bere una bibita o un caffè ammirando il paesaggio.
La città ha un lungo tratto di costa che offre sia spiagge sabbiose che di ciottoli; una delle spiagge più popolari è il Lungomare di Albenga: un passeggio che costeggia gli stabilimenti con gli arenili balneari, dotato di panchine su cui riposare all’ombra di palme centenarie.
Roberta era partita precedendomi in treno la sera prima.
Nella prima mattina aveva arieggiato la casa riordinandola, togliendo la polvere, spazzando e lavando i pavimenti per renderla linda e ospitale.
Come un’efficiente mogliettina, aveva approntato la camera da letto dove avremmo dormito e organizzato un gustoso pranzetto per il mio arrivo.

Amava molto fare queste cose, che le davano la sensazione di una nostra vita in comune: del sentirsi mia moglie anche solo per ventiquattro ore.
L’avevo raggiunta con la mia auto a fine mattina.
Per un viaggio lungo come quello, non era opportuno che viaggiassimo insieme sulla mia macchina.
Infatti, nel malaugurato evento di un incidente, non avrei saputo come giustificare a mia moglie la sua presenza al mio fianco.
Era una soluzione spiacevole, ma essere previdenti era una necessità.
Dopo il lauto pranzetto che mi aveva preparato, avevamo deciso di fare una passeggiata in giro per il centro.
Faceva caldo e, nonostante la giornata feriale e la stagione appena iniziata, vi era già un certo affollamento costituito da gente del posto e da visitatori in abbigliamento quasi estivo.
In un bar che affacciava sul lungomare avevamo consumato un gelato e preso un caffè, poi ci venne l’idea di scendere in spiaggia.
Gli stabilimenti non avevano ancora ospiti, ma erano in corso i lavori di manutenzione e allestimento; la sabbia mostrava i segni del rastrello con cui si era provveduto a spazzolare l’arenile da detriti, alghe secche, cartacce e rifiuti accumulati durante l’inverno.
Ci sedemmo in prossimità delle cabine di uno stabilimento a osservare la tavola placida di un mare in bonaccia; non tirava un filo di vento, la temperatura era confortevole e i gabbiani si inseguivano nel cielo, tuffandosi a tratti nell’instancabile ricerca di cibo.
Alcuni operai, a una trentina di metri da noi, erano impegnati nell’allestimento di gazebo e nel sistemare le passerelle in legno che solcavano la spiaggia, partendo dalla serie delle cabine fino a pochi metri dalla battigia.
Ci lasciavamo cullare da quella sensazione di soave pacatezza che il luogo conferiva; era un momento di pienezza dei sensi, di sentirsi felici e privi di ogni assillo; un nido di bambagia tiepida non avrebbe donato maggiore conforto, un momento di assoluta magia.
Ci eravamo baciati con dolcezza; ogni bacio ne richiedeva un altro e, in quel gioco sensuale, le labbra divenivano più smaniose e avide, in un crescendo di desiderio che si accendeva nei corpi.
– Ho voglia, toccami, sono bagnata – aveva chiesto ansimante.
– Vuoi che ti carezzi adesso, qui? – avevo chiesto.
Vestiva uno chemisier lungo con una fantasia di piccoli fiori viola e una fila di bottoncini sul davanti, sbottonati fino a metà coscia.
– Sì. Sotto non ho indossato le mutandine – disse con un sorriso esplicito.
I lavoranti a distanza non badavano a noi, ma ogni tanto notavo che buttavano lo sguardo verso di noi.
– Tesoro, ci sono quelli, non possiamo farlo con loro qui.
– Ma che te ne frega? Lascia che guardino.
Ero tentato; lo avevamo fatto altre volte, ma una cosa tanto sfacciata, con presenze di estranei così ravvicinate, mi metteva in crisi.
– No, dai, qui no, dai. Rischiamo che ci caccino. Piuttosto, torniamo a casa e scopiamo.
Aveva un’aria delusa, anche imbarazzata, come se l’avessi rimproverata per la sua proposta spudorata.
– Quanto sei diventato pudico ultimamente, amore. Non ti piace più giocare come una volta.
– Non abbiamo più bisogno di questi giochi, non sei d’accordo?
Avevo risposto cercando un tono neutro, ma la voce non mi aveva assecondato nel nascondere un inevitabile attrito.
Il momento idilliaco era finito; restammo in silenzio, ognuno nei suoi pensieri. Lei ombrosa per essersi sentita svilita dalla mia reazione, come se le avessi dato della poco di buono.
Io seccato con me stesso per aver sbagliato tono.
Il pomeriggio, iniziato nel migliore dei modi, era andato a rotoli.


(Continua)

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