Avamposto lunare, 23 aprile 2133
Non gli avrebbero mai creduto, a stento ci credeva lui. Appena si era risvegliato, scostando la coperta sintetica, aveva creduto di aver sognato tutto. Era la sua ultima fiammella di speranza a giocargli un miraggio onirico? Speranza, pensava di non averne più da tempo. Tempo, altra cosa in esaurimento.Da sei mesi Karlson era ospite dell’Avamposto, insieme ad altri dodici esuli. Non c’era nessun’altro, nessuno che loro potessero sapere o sperare fosse sopravvissuto . Un gruppo di tredici astronauti, provenienti da ogni parte del pianeta, che dopo qualche mese di girovagare per la galassia , si erano dati appuntamento sulla Luna. Erano stati tutti migranti climatici, come li etichettava il governo, prima di fiondarli nello spazio in cerca di un nuovo Eden.
Loro erano la seconda ondata. I primi migranti climatici risalivano a più di un secolo fa, quando in pochissimi anni erano apparse le calamità su scala mondiale. Le popolazioni si erano spostate verso le zone meno a rischio del pianeta, meno impattate dai cataclismi che loro stessi avevano scatenato. Alluvioni, tornado, venti devastanti, maree fuori controllo, incendi inarrestabili, pestilenze, siccità, carestie.
Meno violento, ma dagli effetti geologici, l’innalzamento delle acque.
L’oceano si era preso tutto ciò che solo cinquant’anni prima stava sotto i mille metri d’altitudine, nessuna previsione era mai giunta a uno scenario tanto catastrofico. Neppure l’amplificazione del feedback albedo-ghiaccio lo giustificava, eppure era accaduto. L’avevano chiamata Big flood.
Proprio come ratti erano finiti : in miliardi su zolle di terra ancora emerse.
Poi la furia si era placata, la natura era caduta su un nuovo punto di equilibrio, non certo grazie al contributo dell’umanità. Nella seconda metà del secolo homo sapiens viveva su un pianeta infuocato, umido e instabile, ma i cataclismi d’ordine apocalittico avevano dato tregua.
In questa nuova stabilità, dopo aver scartato per un soffio l’estinzione, l’umanità si era riorganizzata. Niente più nazioni, niente più egoismi. Un unico governo globale, eletto all’unico scopo di amministrare la sopravvivenza. Allo scattare del nuovo secolo, si erano conquistati traguardi che neppure all’apice della cultura novecentesca si potevano immaginare: zero emissioni dannose, energia libera per tutti e da sole fonti rinnovabili, acqua potabile in quantità da desalinatori efficienti, great green walls ovunque contro la desertificazione, nessuna produzione di nuovo materiale superfluo o dannoso. Infine il patto di conservazione, garantiva che in nessun continente la popolazione potesse crescere più di quanto fosse sostenibile.
Karlson fu strappato dai suoi pensieri dal beep del suo convocatore. Lo portavano tutti nell’Avamposto, suonava solo quando era indetto un incontro.
Gli altri dodici dovevano sapere, quella informazione doveva essere scaricata dalla sua coscienza, nel buon vecchio modo, condividendola.
“È stato un brusio, da principio, sembrava rumore di fondo” aveva esordito, gli altri ventiquattro occhi e orecchie pendevano dalle sue labbra. “Ma ora lo posso affermare con certezza: questa notte un essere umano ha trasmesso un messaggio via radio, dalla Terra, e la sua voce ci ha raggiunti”.
Silenzio di tomba. Fu Leila, la più anziana tra loro, a irrompere assertivamente “Stanotte? 22 aprile 2133? Guarda caso ad un anno esatto dalla Tempesta zero? Dopo un intero anno di silenzio assoluto, qualcuno ha deciso di farsi vivo? Non ti credo Karlson”. Il rifiuto, la più plausibile delle reazioni. Karlson sapeva che sarebbe successo, lui stesso non credeva alle proprie orecchie. Per questo aveva conservato un file del messaggio. “Vi farò sentire la sua voce, che io stesso ho sentito” rivelò ai dodici “Ma vorrei che da subito venga presa in considerazione la mia candidatura, per una missione esplorativa”. Brusio di diniego, ma non avrebbe lasciato loro scelta.
Capsula FR525, orbita lunare, 25 aprile 2133
Non c’erano stati altri messaggi radio nei due giorni a seguire la fatidica notte, così lo avevano lasciato partire. Eccolo lì, unico esule in rientro sul pianeta Terra, dopo più di un anno. Unico che avesse un motivo, una missione, per impiegare una delle capsule e rischiare la vita di uno dei tredici.
Mentre Karlson prendeva velocità sull’orbita lunare e innescava la manovra di rientro, pensava proprio all’operazione contraria, al suo passato allunaggio. Riportava alla memoria tutte le persone incontrate sul loro satellite, gli altri migranti climatici della seconda ondata. Erano in tanti, un centinaio almeno. A partire dal 2030 erano stati mandati a raggera, in ogni direzione dell’universo, a maggior concentrazione verso i pianeti più vicini o i corpi con qualche parvenza di ospitalità.
Il governo globale aveva bisogno di alternative. Dopo più di settant’anni, l’acqua aveva ricominciato a salire. Non velocemente come allora, un paio di metri all’anno, ma abbastanza per riaccendere il terrore di una seconda Big flood.
Questa volta non c’era stata apparente causa scatenante e le riserve ghiacciate superficiali si erano già esaurite da tempo. Perciò ci si era subito focalizzati sull’abbandonare la nave, piuttosto che sul tappare la falla nello scafo.
In tanti si erano avventurati su isole che sino ad allora non erano neppure state considerate vivibili, ma con catene montuose più alte. Altri avevano prodotto navi e piattaforme galleggianti, vere e proprie arche bibliche . Tutti gli astronauti disponibili erano stati convocati, a quelli idonei avevano affidato una delle capsule disponibili, e li avevano inviati alla ricerca di un’alternativa fuori dall’atmosfera.
Le speranze per quel centinaio di migranti erano minime, dato che , gli ultimi programmi spaziali risalivano al secolo precedente.
Ma dopo la Tempesta zero, dal 22 aprile dell’anno prima, quelle speranze erano diventate nulle. Per questo, la gran parte di loro aveva convenuto che tutti rientrassero all’Avamposto .
Dal centinaio che erano, dopo sei mesi di isolamento completo, di nessun segnale dalla superficie dalla Terra, erano rimasti solo i tredici. Gli altri avevano mollato. La assenza di speranza è roba per pochi, per pazzi e aspiranti tali. Alcuni si erano tolti la vita nella convinzione di poter allungare la vita degli altri, cedendo la loro fetta di risorse per prolungare l’agonia di chi restava. Era una lucidità perversa, di chi preferiva tenere l’umanità attaccata ad un tubo, pur di non dichiararla estinta per sempre.
Karlson era diverso, la sua vita era già estinta prima di partire, prima della Tempesta zero. Ma questo non lo esimeva dalla sua responsabilità di esule e superstite.
Ponte d’atterraggio dell’Avamposto lunare, 25 aprile 2132
Karlson l’aveva vista con i suoi occhi, tramite il telescopio in dotazione alla capsula. Si era messo in osservazione, appena il suo operatore dal centro di comando aveva lanciato l’allarme.
Il 22 aprile, nelle prime ore del mattino, era arrivata. Nessuna proiezione l’aveva mai presa in considerazione, ne c’erano state avvisaglie che la facessero presagire.
La Tempesta zero, un solo giorno di cataclisma inarrivabile. Dal nord al sud del pianeta, venti travolgenti e onde come mai se n’erano viste. Muri d’acqua di mille metri, che si schiantavano con l’energia di meteoriti. Nessuna imbarcazione, nessuna struttura, nessun baluardo dell’umanità poteva resistere a tale potenza, una spugna che spazzava via ogni forma di vita terrestre dalla faccia del pianeta.
In poche ore, le piante e gli animali marini erano tornate le uniche forme viventi complesse sul pianeta, come lo erano milioni di anni prima.
Come era arrivata, la Tempesta zero se n’era andata, la mattina del 23 aprile.
Ed ora, tre giorni più tardi, aveva del tutto metabolizzato quello che avrebbe significato per la sua razza e per il proprio futuro. Nessun sopravvissuto, non sulla Terra. Solo loro, i migranti climatici della seconda ondata. Non c’era più nulla a cui far ritorno.
Erano dispersi, ognuno nella propria capsula come frammenti dell’esplosione che era stata la Tempesta zero.
Dopo due giorni, vi furono le prime proposte, con sempre più adesioni, di abbandonare la loro missione e unire le forze e le anime in un unico luogo.
Per questo ora era atterrato sulla Luna. Tutti gli altri esuli spaziali erano già arrivati, lui era uno degli ultimi. Un centinaio di capsule si erano già posate sul ponte d’atterraggio.
Poco dopo il placarsi della Tempesta, le osservazioni spaziali erano state subito chiare : sulla Terra era rimasta un’unica terra emersa, la catena himalayana.
Potevano dunque rientrare, dalla base lunare all’Himalaya, e ripopolare quel che restava della Terra? Vicolo cieco: tutti gli esuli lunari erano sterili, come tutti gli utilizzatori abituali di capsule spaziali. Era un prezzo a cui nessuno si era sottratto, una conseguenza naturale del giocare a fare Icaro.
Capsula FR525, atmosfera terrestre inferiore, 25 aprile 2133
Aspettò di aver bucato l’atmosfera, di essere in un quadrante plausibile per l’atterraggio, di trasmettere la sua ultima posizione all’Avamposto, poi deviò bruscamente dalla traiettoria prestabilita. Lo fece perché aveva omesso un dettaglio nel suo rapporto di due giorni addietro, una stranezza cui solo lui aveva fatto caso.
Non lo aveva condiviso neppure con Leila, l’unica dei tredici con cui Karlson avesse un minimo di confidenza. Lei gli piaceva, perché era autentica, con tanti aspetti vivi della sfera animale dell’umano, che tanti ritenevano una debolezza. Ma anche con Leila, da un paio di mesi, Karlson aveva tagliato i ponti, dopo alcune intime ore passate insieme e una breve discussione finita in broncio.
Il dettaglio celato era insignificante, ma, se lo avesse condiviso, avrebbe di certo acceso discussioni inutili nell’Avamposto, ritardando la sua partenza : il segnale radio non era stato emesso dall’area Himalayana, da dove tutti se lo aspettavano, ma da una zona a migliaia di chilometri più ad est, dove era stato un tempo il Pacifico. Una zona in cui, dalla prospettiva lunare, si vedeva solo profondo blu in varie gradazioni.
Ma non era quello che aveva intravisto attraverso le telecamere perimetrali, mentre tangeva la superfice acquatica. C’era dell’altro, qualcosa di altrettanto sterminato, che oceano non era. Lo schianto fu brusco, qualcosa era andato storto, dannazione.
Oceano tropicale, 26 aprile 2133
Che diavolo era quella puzza?
Non era morto.
Karlson si sollevò, scrollò via il torpore e si controllò le membra. Tutto intero . Quando mise piede all’aria aperta, constatò che si stava muovendo a velocità costante sulla superficie del mare. La tenda e tutto ciò che le stava attorno stavano poggiati su una superficie rugosa, pallida e palpitante, un oggetto allungato dotato di propulsione. “Che marchingegno…” si stava chiedendo, ma uno sbuffo di acqua marina dallo sfiatatoio rispose al dubbio. Era un cavallo marino, una sorta di capodoglio dal carattere affabile, con le pinne più lunghe del corpo e il capo ricurvo, come un saxofono enorme. Era una delle specie emerse, l’unica che avesse intrapreso da subito un sodalizio con gli uomini. Tante creature come queste, sino ad allora sconosciute, erano venute in superficie durante il Big flood.
“Finalmente dormiglione!” lo ridestò completamente una voce alle sue spalle. Era un ragazzo, nervoso sino all’osso, fasciato in una tuta da lavoro e con un bastone di legno sagomato a dargli equilibrio, sopra il dorso del cavallo marino.
“Piacere, Tyler. Sono stato io a convocarti qui, tramite radio. Poi ho visto la capsula che si schiantava in mare” allungò una mano verso di lui. Karlson l’afferrò, più in segno di ringraziamento che di cortesia. “La capsula è affondata, ma tu sei illeso” constatò Tyler.
davanti a lui , nella direzione di marcia, vedeva qualcosa di impossibile. Non era una terra emersa, ma neppure una piattaforma o una barca. Eppure, sopra vi poggiava un villaggio di uomini, con tanto di porto, faro e tutto il resto.
Non era il villaggio ad impressionarlo, piuttosto ciò che lo sosteneva sopra il livello del mare. Era uno strato di sostanza semitrasparente, si estendeva a perdita d’cchio da entrambi i lati del paese. “Cosa è?” chiese senza distogliere lo sguardo.
“Quello è il PTV. E dalla tua reazione, presumo che non fosse visibile da lassù”.
PTV. Karlson aveva subito dedotto il resto.
Quando la Tempesta zero era arrivata, con le sue onde chilometriche, sulla Terra esisteva un solo corpo galleggiante talmente grande da non esserne disintegrato. Un’immensa prateria di rifiuti plastici, in diversi gradi di decomposizione, che a inizio millennio era stata chiamata Pacific Trash Vortex.
Il più grande dei monumenti al miope comportamento umano era sopravvissuto al cataclisma, a memoria di quanto Homo Sapiens fosse ottuso. Ed ecco che, per ironia della sorte, era diventato l’unico ammasso solido su cui un manipolo di umani fosse riuscito a rifugiarsi.
Mentre dalla base lunare gli esuli si ostinavano a osservare l’Himalaya, , la speranza dell’umanità stava appesa ad un ammasso galleggiante e semitrasparente. E loro non la vedevano.
“Quanti siete?” chiese Karlson.
“Un migliaio, contando anche i nuovi nati” disse Tyler, mentre si preparava all’attracco. “Eravamo qui, come migranti climatici, da quasi un anno prima del…”
“Della Tempesta zero! Come riuscite a sopravvivere?” si informò Karlson, ancora incredulo.
“Lo vedrai coi tuoi occhi” sorrise Tyler “Nel kit base del buon colono c’è il desalinatore e una buona scorta di semi d’ogni genere. Delle zolle di terra impigliate qua e là si trovano sempre, ma naturalmente l’impollinazione tocca a noi. Tra i rifiuti di un’altra epoca troviamo tutto la materia inorganica che ci serve. È facile da plasmare, per quelli come noi, coloni, tuttofare. Alcuni possono forse definirsi tecnici specializzati, ma non certo scienziati. Gli scienziati erano stati mandati ad esplorare luoghi più altolocati”.
Karlson sapeva che si riferiva a quelli come lui, i migranti mandati nello spazio. Ogni astronauta aveva una formazione ed una esperienza scientifica specialistica.
“Ce la caviamo, ma ora non possiamo più proseguire, senza l’aiuto degli scienziati, siamo a un punto morto” continuò Tyler. “Per questo motivo c’era sollecitudine nella tua voce, quando mi ha raggiunto nel messaggio radio ” dedusse Karlson. Tyler annuì.
Misero piede sul PTV pochi minuti dopo. La nuova terraferma, fatta di plastica inaffondabile.
Addentrandosi nel villaggio, costatò quanti pullulasse di umanità, come non era più abituato da tempo. Quella gente si era adattata, viveva di stenti e in condizioni ancora estreme.
Eppure, anche con una vita senza le comodità del passato, tutti o quasi sorridevano. Vecchi, bambini, malati o storditi dal duro lavoro, ma tutti col sorriso in faccia per buona parte del tempo.
Non lo aveva capito subito, ma era diventato evidente parlando con loro: si sentivano gli eletti, non i maledetti. A loro non era stata data un’ultima possibilità, ma l’Ultima opportunità.
Era merito del caos, della fortuna o dell’unica divinità non vendicativa che restava, non aveva importanza. Loro erano grati di essere gli ultimi Homo Sapiens, ma anche i primi a cui fosse concesso di non vivere da parassitiI primi a tornare esploratori di una nuova realtà, come lo erano stati agli albori della loro specie, prima della rivoluzione agricola neolitica. Addio Antropocene, si riparte dal via.
“La capsula è andata, portami al vostro trasmettitore. Dobbiamo avvisare gli altri, sulla Luna devono sapere”.
“In realtà” ammise il Tyler “non è un trasmettitore, ma un emettitore”. Quando lo vide, si rese conto di cosa parlasse. Era un rudere recuperato dagli scarti, in grado solo di lanciare segnali, senza riceverne. Ed era irrimediabilmente bruciato.
Tutti gli sforzi di contattarlo dalla Luna, si sarebbero senza dubbio concentrati sull’Himalaya. Nessun messaggio indirizzato a un punto in mezzo all’oceano, lui l’aveva ritenuto ininfluente. Quanto la sopravvivenza umana.