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Lo scatto metallico dell’ascensore lo riportò alla realtà. Strinse forte le narici coi polpastrelli deciso a non respirare fino all’arrivo al proprio piano: l’odore di stantio frammisto a sudore, fumo e dopobarba che aleggiava nella cabina gli aveva sempre dato il voltastomaco e quel giorno sembrava anche peggio di come lo ricordava.
Premette con decisione il pulsante numero tre e iniziò il conto alla rovescia mentale. Quanto avrebbe potuto resistere senza respirare? Coi suoi polmoni non allenati, al massimo un minuto e mezzo. Novanta secondi, giusto il tempo di arrivare al piano. Giulia, invece, aveva un’altra tempra e poi adorava il mare ed era abituata: lei poteva resistere almeno tre minuti. Lui lo sapeva bene.
In quel momento, un alito di vento gli accarezzò la nuca soffermandosi per qualche istante all’altezza della gola. Gli parve di sentire una leggera pressione. Si voltò di scatto. Lo specchio gli restituì l’immagine di un uomo di mezza età, solo, con le occhiaie profonde e violacee, infagottato in un vecchio loden color verde bottiglia coi bottoni di cuoio scoloriti al centro.
“In realtà, vediamo solo una piccolissima percentuale di ciò che ci circonda”.
Le parole del professor Liguori continuavano a rimbalzargli nella scatola cranica con la cadenza lenta e inesorabile di una campana a lutto.
Era stato in dubbio se partecipare o meno alla conferenza, ma il collega aveva insistito tanto e, da un angolo del cuore, Giulia gli aveva sorriso. In fin dei conti era una buona occasione per tornare in città e dare un po’ d’aria a casa… dopo la sua morte non ci era più entrato; prima o poi, avrebbe dovuto decidersi a venderla. Sospirò.
Una piccola scossa lo fece sobbalzare. Le porte della cabina si aprirono; uscì e si avviò verso l’appartamento che non abitava da tre anni.
Estrasse il pesante mazzo di chiavi dalla tasca del cappotto e inserì quella più grande nella serratura.
L’investì un sentore di chiuso. Dagli scuri filtrava una luce tenue che lasciava intravedere la danza di granuli di polvere attivata dall’apertura della porta. Guardò in basso, decine di buste di corrispondenza erano sparse sul pavimento. Tra le tante, ne notò una piccola, rosa, simile a quelle che i fiorai consegnano insieme ai bouquet.
Troppo allegra per contenere un messaggio di condoglianze, si disse.
Si chinò per raccoglierla e, prima di aprirla, l’annusò. Emanava ancora un’intensa fragranza fiorita che Giulia, ne era sicuro, non avrebbe apprezzato. All’interno, il biglietto recava solo una scritta con una grafia femminile: 11 novembre 20.. L’anno non era completo.
D’istinto sollevò lo sguardo verso il calendario perpetuo appeso alla parete. Un’ombra parve staccarsi dal muro e i fogli iniziarono a svolazzare sospinti da uno spiffero gelido che sembrava provenire dal bagno in fondo al corridoio. Si fermarono solo quando apparve la data 10 novembre. Un’occhiata all’orologio da polso gli confermò che la data proprio quella del giorno stesso. Rabbrividì.
Si recò a chiudere la finestra, ma non ce ne fu bisogno: era serrata a dovere come ricordava di averla lasciata.Deglutì a vuoto. Lo sguardo gli scivolò sulla vasca: il volto di Giulia affamato d’aria sembrò emergere all’improvviso da uno spesso strato di vapore.
“Possiamo vedere solo il quattro per cento dell’Universo, quello costituito da materia che riflette la luce, il resto è costituito da materia oscura ed energia oscura.”
Giulia, la sua energia… una suggestione, si disse.
Con le mani tremanti, estrasse la chiave dalla serratura, chiuse la porta dall’esterno e tornò a esaminare la posta cercando di riacquistare la calma, ma, ogni volta che tentava di raccogliere una busta, questa gli cadeva di mano.
Il biglietto rosa continuava ad attrarre la sua attenzione. Il profumo di gelsomino che sprigionava, gli penetrò nel cervello come una lama affilata nel burro, aprendo un varco da cui iniziarono a defluire i ricordi.
Era sempre stato un marito fedele, ma c’era stata una ragazza, sì, una del primo anno, che lo aveva fatto vacillare: capelli neri lucidi come il manto di un corvo, lo sguardo un invito al peccato, e le gambe… oh, quelle le accavallava con sadica lentezza tanto da permettergli di assaporare con la coda dell’occhio l’assenza dell’abbigliamento intimo. La vedeva effimera e bellissima come un desiderio inappagabile.
L’immagine si materializzò all’istante premendo con vigore sulla patta dei pantaloni.
Appese il cappotto all’attaccapanni e slacciò la cravatta col cuore che galoppava e il respiro affannato. Si accasciò sul divano cercando di riprendere fiato.
Maledetto profumo…
Giulia non avrebbe mai dovuto accorgersene: quella studentessa era solo un ombra che alimentava le sue pulsioni più intime. Era sempre lì, tra loro due… solo lei sapeva come accendere i suoi istinti, gli faceva scorrere nelle vene una voglia potente, segreta, vermiglia. Almeno finché Giulia non l’aveva vista “coi propri occhi” tessere la ragnatela del tradimento.
Livio ancora si chiedeva come ci fosse riuscita: la poverina si era suicidata qualche settimana prima e non era apparso nemmeno un trafiletto nella cronaca locale… aveva controllato ogni maledetto giorno. Ne era sicuro.
Eppure, lei l’aveva vista e qualcosa tra loro due si era spezzato.
“Possiamo vedere solo il quattro per cento dell’Universo”.
Possibile che Giulia avesse un dono speciale? Che potesse vedere qualcosa in più delle altre persone, una percentuale del tutto insignificante dell’insieme…
Lo avrebbero di sicuro cacciato via e nessun ateneo lo avrebbe assunto. Divorziato e disoccupato. Situazione del tutto imprevista e inaccettabile.
Cos’altro avrebbe dovuto fare?
“11 novembre 20..” Rilesse il biglietto decine di volte a voce bassa come se stesse recitando un mantra, finché le palpebre divennero pesanti.
L’oscurità avvolse l’ambiente facendo cessare, col suo ingresso, la macabra danza della polvere.
Livio si risentì che era passata mezzanotte. Avrebbe voluto alzarsi, ma le gambe sembravano di piombo. Avrebbe voluto gridare, ma le labbra sembravano saldate in unico ammasso di carne.
Il turbinare dei pensieri gli dava la nausea. La stanza sembrava sottosopra: il pavimento al posto del soffitto, il lampadario si ergeva dal pavimento oscillando come un metronomo che batteva i bpm del suo cuore impazzito. Dovette chiudere gli occhi per non vomitare.
Restò immobile, il respiro sospeso. Contò centoventi secondi prima di riaprirli. Fu in quel momento che la vide: una creatura tentacolare stava sospesa a mezz’aria. Una quantità innumerevole di fibre sottili si dipartivano dal suo ventre sferico avviluppando ogni oggetto che incontravano. Quelle spire sottili, gli costringevano la gola obbligandolo a contorcersi per cercare il ristoro di un filo d’aria, mentre con le mani annaspava nel vuoto come per ripulire lo spazio circostante da nuvole di ragnatele.
Un freddo intenso gli penetrò le ossa, mentre tutto intorno a lui assumeva la forma e la consistenza di un groviglio vischioso come bava di lumaca. Sembrava che ogni cosa, persino le pareti dell’appartamento, fossero costituite dalla spessa trama dei filamenti emessi dallo strano essere.
La sfera ruotava su sé stessa seguendo traiettorie imprevedibili. Arretrava e avanzava in ogni direzione sostando solo di tanto in tanto prima di riprendere a vorticare. La creatura non aveva né occhi né bocca. Rotolava e vibrava, sbavava e filava… ogni cosa al suo passaggio pareva perdere i contorni e sfumare lasciando solo buio, vuoto e silenzio.
Livio avvertì una forte fitta alla testa e l’essere sparì come un’ombra inghiottita dal buio. Frammenti d’immagini affiorarono dal nulla come legni deposti dalla furia delle onde sulla riva: il corpo aggraziato di una donna senza volto abbigliata con un abito di chiffon rosa pallido vaporoso e leggero; un calendario perpetuo; una siepe fiorita e aulente di gelsomino. Tutto sembrava solo un inganno dei sensi, una vibrazione dissonante della realtà: la rottura di un qualche equilibrio che dava accesso a un’altra dimensione.
Distinse, con insolita chiarezza, una mano affusolata stringere una piuma nera che terminava in un pennino dorato. La donna lo intingeva con estrema delicatezza nell’inchiostro color sangue prima di vergare, con tratto sicuro, le parole in un bigliettino rosa. Riuscì a leggere il contenuto. Diceva: non dimenticare: ci hai uccise tu. Noi non lo scorderemo.
Lo smartphone prese a vibrare, ma Livio non rispose. Lo trovarono ancora lì seduto qualche giorno dopo. Ai suoi piedi, giaceva un bigliettino rosa spiegazzato. Illeggibile.
Il medico legale non ebbe dubbi, il decesso era avvenuto l’11 novembre.