Rose rosse (Maria Messina)
Vedeva, lontano, confuso, un gran chiarore verde. Sempre così le si presentavano alla mente i pochi slegati ricordi dei luoghi non più riveduti: la pergola di Licata, coll’uva immatura, la mamma vestita di nero, lei che ricamava mazzi di rose rosse, dagli steli rigidi come ceri, su una coperta color canarino. La coperta, interminabile, era destinata al suo corredo.
Concetto veniva a trovar la mamma. Sedeva anche lui sotto la pergola e accettava il caffè coi savoiardi fatti in casa. Chiacchierava come un mulino a vento. Ma se per caso la mamma si allontanava, un momentino, lui non parlava più, e lei diventava più rossa delle rose rosse e abbassava gli occhi, un po’ lieta, un po’ spaurita, di esser sola…
E poi, morta la mamma, chiusa la casa di Licata, era venuta in casa del fratello.
Paese nuovo, gente nuova.
Finito il lutto, dopo un anno di clausura, in mezzo a gente che non conosceva, in mezzo a parenti che non amava, aveva riveduto Concetto. La prima volta fu di mattina (le restava nitido il ricordo), ed era in chiesa. L’aveva scorto, levando gli occhi dal libro, appoggiato a un pilastro, col cappello in mano, dentro un raggio di sole ricolmo di polvere d’oro e d’argento.
Di poi la cognata non la condusse più alla messa delle undici. Non la condusse più a fare la passeggiata sulla via della Niviera, dove lui la seguiva lentamente, in distanza.
— Bobò, tu baderai alle donne che lavano nel cortile.
— Deve venire il fattore: l’aspetterà Bobò.
La chiamavano ancora Bobò. Il tempo passava, e le restava il nomignolo che le avevan dato a Licata, come una breve tiepida carezza. Michelina, la nipotina, la chiamava zia Bobò; ma crescendo la chiamò soltanto zia. E Angela, quando la doveva nominare, diceva: «mia cognata», o pure, se si rivolgeva alla serva, diceva: «la signorina», o pure, «tua sorella», se parlava col marito.
Si seccavano tutti di quel nomignolo da bambina. Una volta Angela disse: — È ridicolo chiamarti ancora Bobò!
Pure nessuno seppe dirle Liboria. Era l’abitudine.
Lei si vergognò di chiamarsi Bobò, col tempo. Ma il nomignolo era attaccato alla sua persona, come la fresca giovinezza che non voleva morire. Sì, aveva capelli troppo morbidi e lunghi, il petto troppo colmo benché lo soffocasse (per pudore), nei corpetti scuri rigidamente abbottonati.
Concetto era venuto a stabilirsi nel paese che lei abitava. Faceva il farmacista. Domandò la mano di lei al fratello, che rifiutò senza interrogarla.
Lei lo seppe dopo. Glie lo disse una serva licenziata.
— Signorina, apra gli occhi! Lei dormirà sempre sola, e la sua dote se la gode donna Michelina!
Ebbene, che fare? Direi: Mi voglio maritare?
Una vampata di sangue le saliva sino alla fronte all’audace, impudico pensiero. Come dire così alla cognata, al fratello?
Però non disse niente. E Concetto passò ogni sera nel vicolo ed Angela chiuse le finestre del vicolo; Concetto andò alla messa delle otto, e passeggiò sullo stradale di Santo Stefano, ed Angela andò alla messa delle cinque e non fece più uscire la cognata; Concetto scrisse tre volte, ed Angela si impossessò dei tre biglietti, pieni di umili ardenti parole, e li lacerò. Fu una lotta sorda, accanita, tra Angela e Concetto.
Una sera il fratello, dopo aver sentito la moglie che non ne poteva più della sua sorveglianza, fece una strapazzata a Bobò: le disse che le femmine si somigliano tutte e basta che vedano un uomo (un vizioso morto di fame qualunque!) per perdere ogni ritegno. Credendo di farle bene, le disse parole brutali. Bobò ascoltò senza fiatare, con la gola stretta: aveva la sensazione di esser messa nuda davanti a tutti, davanti al fratello che la disprezzava, davanti a Michelina che sorrideva…
Così il compito di Angela fu più facile. Ché Bobò non osò più affacciarsi, non osò più uscire. Sperava, sperava sempre, in un prodigio dell’amore, come ne succede nei romanzi e nelle fiabe.
Al farmacista fu detto che Bobò non si voleva maritare, che Bobò si voleva fare monaca di casa.
Vedeva, lontano, confuso, un gran chiarore verde. Sempre così le si presentavano alla mente i pochi slegati ricordi dei luoghi non più riveduti: la pergola di Licata, coll’uva immatura, la mamma vestita di nero, lei che ricamava mazzi di rose rosse, dagli steli rigidi come ceri, su una coperta color canarino. La coperta, interminabile, era destinata al suo corredo.
Concetto veniva a trovar la mamma. Sedeva anche lui sotto la pergola e accettava il caffè coi savoiardi fatti in casa. Chiacchierava come un mulino a vento. Ma se per caso la mamma si allontanava, un momentino, lui non parlava più, e lei diventava più rossa delle rose rosse e abbassava gli occhi, un po’ lieta, un po’ spaurita, di esser sola…
E poi, morta la mamma, chiusa la casa di Licata, era venuta in casa del fratello.
Paese nuovo, gente nuova.
Finito il lutto, dopo un anno di clausura, in mezzo a gente che non conosceva, in mezzo a parenti che non amava, aveva riveduto Concetto. La prima volta fu di mattina (le restava nitido il ricordo), ed era in chiesa. L’aveva scorto, levando gli occhi dal libro, appoggiato a un pilastro, col cappello in mano, dentro un raggio di sole ricolmo di polvere d’oro e d’argento.
Di poi la cognata non la condusse più alla messa delle undici. Non la condusse più a fare la passeggiata sulla via della Niviera, dove lui la seguiva lentamente, in distanza.
— Bobò, tu baderai alle donne che lavano nel cortile.
— Deve venire il fattore: l’aspetterà Bobò.
La chiamavano ancora Bobò. Il tempo passava, e le restava il nomignolo che le avevan dato a Licata, come una breve tiepida carezza. Michelina, la nipotina, la chiamava zia Bobò; ma crescendo la chiamò soltanto zia. E Angela, quando la doveva nominare, diceva: «mia cognata», o pure, se si rivolgeva alla serva, diceva: «la signorina», o pure, «tua sorella», se parlava col marito.
Si seccavano tutti di quel nomignolo da bambina. Una volta Angela disse: — È ridicolo chiamarti ancora Bobò!
Pure nessuno seppe dirle Liboria. Era l’abitudine.
Lei si vergognò di chiamarsi Bobò, col tempo. Ma il nomignolo era attaccato alla sua persona, come la fresca giovinezza che non voleva morire. Sì, aveva capelli troppo morbidi e lunghi, il petto troppo colmo benché lo soffocasse (per pudore), nei corpetti scuri rigidamente abbottonati.
Concetto era venuto a stabilirsi nel paese che lei abitava. Faceva il farmacista. Domandò la mano di lei al fratello, che rifiutò senza interrogarla.
Lei lo seppe dopo. Glie lo disse una serva licenziata.
— Signorina, apra gli occhi! Lei dormirà sempre sola, e la sua dote se la gode donna Michelina!
Ebbene, che fare? Direi: Mi voglio maritare?
Una vampata di sangue le saliva sino alla fronte all’audace, impudico pensiero. Come dire così alla cognata, al fratello?
Però non disse niente. E Concetto passò ogni sera nel vicolo ed Angela chiuse le finestre del vicolo; Concetto andò alla messa delle otto, e passeggiò sullo stradale di Santo Stefano, ed Angela andò alla messa delle cinque e non fece più uscire la cognata; Concetto scrisse tre volte, ed Angela si impossessò dei tre biglietti, pieni di umili ardenti parole, e li lacerò. Fu una lotta sorda, accanita, tra Angela e Concetto.
Una sera il fratello, dopo aver sentito la moglie che non ne poteva più della sua sorveglianza, fece una strapazzata a Bobò: le disse che le femmine si somigliano tutte e basta che vedano un uomo (un vizioso morto di fame qualunque!) per perdere ogni ritegno. Credendo di farle bene, le disse parole brutali. Bobò ascoltò senza fiatare, con la gola stretta: aveva la sensazione di esser messa nuda davanti a tutti, davanti al fratello che la disprezzava, davanti a Michelina che sorrideva…
Così il compito di Angela fu più facile. Ché Bobò non osò più affacciarsi, non osò più uscire. Sperava, sperava sempre, in un prodigio dell’amore, come ne succede nei romanzi e nelle fiabe.
Al farmacista fu detto che Bobò non si voleva maritare, che Bobò si voleva fare monaca di casa.
Vestita di nero
interminabile vento di lutto
in mezzo a un raggio di sole
lentamente il tempo passava
tiepida, serva abitudine
che non voleva morire
Lei sempre sola
sangue su per la gola
nuda davanti a tutti
sorrideva...