Da quando sono qui, non è mai trascorso un mese senza che qualcuno si sentisse male, e venisse portato via. Noi siamo i rottami della RSA: non c’è molto da stupirsi. A sorprendere, piuttosto, è il ritorno.
Il momento peggiore l’ho vissuto il giorno in cui a sentirsi male è stata la signora Beatrice.
Era l’inizio di settembre. Stavamo in giardino, con il tramonto davanti e una brezza leggera alle spalle. Eravamo soli: la direttrice era andata via, le infermiere avevano messo a letto i non autosufficienti, e ora sistemavano qualcosa fra gli scaffali delle medicine.
Noi parlavamo. O meglio: lei parlava, io scrivevo sulla mia lavagnetta. Da sette anni era l’unico modo per farmi sentire, l’eredità sbilenca del mio maledetto tumore alle corde vocali.
All’improvviso la signora Beatrice è sbiancata, ha farfugliato qualcosa e poi si è accasciata su di me. Un attacco di cuore.
Ho alzato il braccio e l’ho agitato come una bandiera, nella testa ripetevo aiuto, aiuto, aiuto. Ho persino scagliato la lavagnetta verso la vetrata del salone, ma – mi vergogno a dirlo – non ci è nemmeno arrivata.
Nessuno del personale in vista.
In quel momento è arrivato Pinelli.
Fra tutti quelli che potevano capitare, proprio lui. Lo chiamavano il Folletto Artista: maglietta a righe bianche e rosse, sorriso largo come una fetta d’anguria, e quell’aria da abitante di un altro pianeta. Appena ci ha visti si è illuminato e ci ha offerto una manciata di pezzi di puzzle blu: “Tenete! Sono piccoli frammenti di universo!“
A vederci da fuori dovevamo sembrare matti da legare: io che cercavo di non cadere dalla sedia a rotelle, lei riversa su di me, e Pinelli che lanciava brandelli di cielo come se volesse ricreare il firmamento. Dal panico sono scivolato a terra, trascinando con me la signora Beatrice. Pinelli continuava a saltellare e a rovistare nelle tasche.
Un’infermiera è uscita a fumare, ci ha visto e ci ha raggiunti di corsa. Hanno portato via la signora Beatrice in barella e solo dopo si sono occupati di me e infine di Pinelli, che nel frattempo era passato a soffiare palloncini e a gettarli per aria.
Sono stati giorni al rallentatore, quelli. La signora Beatrice aveva avuto un forte attacco cardiaco; l’hanno operata d’urgenza e le hanno sostituito la valvola mitralica. Ci vollero tre giorni perché la dichiarassero fuori pericolo; due settimane perché annunciassero il suo rientro in struttura.
La gioia per il suo ritorno non la so spiegare. Il giorno dell’arrivo sono rimasto incollato alle porte dell’ascensore.
Quando finalmente è uscita, l’ho vista cercarmi con gli occhi. È venuta verso di me e mi ha abbracciato forte.
Subito dopo è arrivato il mondo intero a mettersi in mezzo. Tutti volevano parlarle, tutti volevano abbracciarla. I pazienti, le infermiere, la cuoca. Anche il mio compagno di stanza, quello che ogni volta che andava in bagno ci restava per secoli e che mi aveva costretto a farmela addosso in un paio di occasioni.
Tutti a ronzarle attorno come insetti su un fiore. Lei era dolce: minimizzava, lasciava che le accarezzassero i capelli, dispensava sorrisi. Pensate alla vostra salute, borbottavo dentro di me, che avete già un piede nella fossa.
Finalmente, quando è arrivata la sera, siamo usciti in giardino, io e lei soli. Faceva più freddo di un mese fa, ma un buon maglione bastava.
Siamo rimasti in silenzio, gli occhi piantati uno nell’altra.
Poi lei ha preso la mia lavagnetta, sfiorandomi la mano.
“Allora” ha detto. “Di cosa stavamo parlando?”