Capelli bianchi di bimbo

1
https://www.writersdream.org/forum/foru ... -di-bimbo/ La traccia scelta era sul silenzio.

I ciuffetti di capelli bianchi che Ester aveva appena tagliato con le forbici dalla nuca del padre li aveva tenuti ben stretti tra pollice e indice, e poi delicatamente poggiati su un tovagliolo di carta disteso sul tavolo tondo della sala da pranzo.
«Non voglio un lavoro di fino» le aveva detto il vecchio, «ma solo che mi togli questi mucchietti che mi fanno il solletico». La figlia lì per lì si era rifiutata («non faccio la parrucchiera; e se te li taglio male?»), ma il vecchio aveva insistito: «Ti dico che mi fanno il solletico. Non m'importa niente se li tagli male. Mica mi guardo la nuca». E le aveva messo in mano un paio di forbicioni da cucina. Ester allora gli aveva avvicinato una sedia e chiesto con delicatezza di reclinare un poco la testa sul petto. Una piccola testa tonda, con qualche macchiolina sparsa sulla zona superiore, ormai calva, e tanti capelli fini e bianchi ai lati. Non lunghi, ma abbastanza per vellicare le orecchie e farle prudere.
Era andata in bagno a prendere un pettine, ma il padre insisteva affinché, per fare in fretta, usasse solo le dita. Ester aveva voluto comunque fare la prova e, mentre col pettine in una mano sollevava i capelli, con l'altra, che impugnava le forbici, cercava di tagliarli: niente da fare. Essi sfuggivano dai denti del pettine e le lame non li sfioravano neppure. «Com'è difficile il lavoro del parrucchiere» aveva pensato Ester lasciando cadere le forbici sul tavolo.
Finito il lavoro, il padre si era detto soddisfatto perché non avvertiva più quel fastidioso pizzicore; si era alzato dalla sedia e a piccoli passi lenti aveva raggiunto la poltrona accanto alla finestra; qui aveva chiuso gli occhi e si era appisolato.
Era quasi mezzogiorno e faceva caldo. Dalla strada non salivano suoni perché i negozi lì sotto avevano da tempo cessato le attività. Ester accostò le imposte e le tende e si diresse verso la cucina per apprestare al padre un pranzo leggero. Passò davanti al tavolo e si accorse che il tovagliolo con al centro i mucchietti di capelli tagliati era ancora lì, accanto alle forbici. Mosse delicatamente con le dita quei morbidi fili sottili e pensò che essi, poco prima, erano attaccati alla testa di suo padre. Li sistemò per bene al centro del fazzoletto; chiuse i lembi fino a formare un pacchettino di poco ingombro, che sistemò con cura nel borsellino tra due carte da venti euro. Poi prese il pettine per riportarlo in bagno, nella piccola cesta di vimini da cui lo aveva preso.

Ester non andava volentieri da suo padre perché suo padre abitava ancora nella casa che l'aveva vista bambina. Preferiva che vi fosse qualcuno quando si recava da lui: la signora che lo aiutava nelle faccende domestiche, o uno dei fratelli; una cognata o la vicina di casa. Ma quel giorno aveva voluto vederlo perché gli aveva sentito al mattino una voce triste e quindi aveva fatto in modo di fare un salto da lui. Il padre era triste perché il barbiere da cui era andato per quarant'anni a farsi tagliare i capelli era morto.
Ester giunse alla fine del lungo corridoio, entrò in bagno e depose il pettine nel cestino. Si guardò allo specchio posto sul lavabo e cercò intorno a sé, come sempre, qualche rumore. Non necessariamente quelli dei suoi sedici anni: non pretendeva certo di sentire la voce allegra della madre che gridava «tutti a tavola!», o quelle dei fratelli o la musica o le grida del portiere contro la signora del quarto piano che scuoteva dalla finestra il piumino per la polvere. No di certo. Ma era mezzogiorno, diamine: possibile che non vi fosse alcun suono? Uscì dal bagno ed entrò nella stanza dei genitori, piena d'ombra e frescura e dei profumi dei cassetti. Non guardò la parte del letto dove aveva per così tanto tempo dormito sua madre e dove lei da piccola si infilava per avere le sue carezze mattutine.
Passò nella camera che divideva con la sorella e poi in quella dei fratelli: solo silenzio. Non quel silenzio che le raccomandava la madre quando i piccoli dormivano: quello era un silenzio turgido e pacificatore, mai pieno di malinconia. Un silenzio ricolmo di vita, che non solo la conteneva ma da cui essa traboccava come da una cornucopia. Quello che era penetrato da tempo nella casa in cui il padre ormai viveva da solo era un silenzio opaco, che si poggiava sugli oggetti noti e ne deformava la struttura e il senso e che aveva il potere di annebbiarle la vista.
Ester attraversò a passi veloci il corridoio e si fermò sulla soglia della camera da pranzo. Con una mano poggiata sullo stipite della porta e l'altra sul petto, per cercare di attutire l'unico rumore che le sue orecchie riuscivano a percepire, fissò suo padre che dormiva in poltrona. Lo immaginò camminare da solo tutto il giorno in quelle camere nere di silenzio, e si chiese quale tremenda voragine avesse ingoiato tutto quanto il rumore. La vita e la morte sono la stessa cosa, disse a sé stessa, e rifletté che quei sottili, deliziosi capelli bianchi di bimbo erano allo stesso tempo attaccati alla testa del padre e ben custoditi nel tovagliolo dentro il borsellino. Li avrebbe protetti per sempre con grande cura, non come triste reliquia, ma come atto di ossequio al mistero impenetrabile dell'esistenza.
https://www.amazon.it/rosa-spinoZa-gust ... B09HP1S45C

Return to “Racconti”