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Ciò che resta dell’ultima neve dell’anno scricchiola allegramente sotto ai nostri piedi. Non si tratta di una neve farinosa e leggera, come quando è caduta da poco. È neve vecchia, a terra da due, massimo tre giorni, che ha formato una bella crosta ghiacciata: cric-crac, sembra cantare mentre la calpestiamo, provocando l'unico suono della foresta. La primavera ha appena fatto capolino, e scoiattoli e cince, che di solito animano questi sentieri, probabilmente sono ancora in letargo. Siamo solo noi tre, in silenzio.
Thomas fa da apripista. Cammina con foga, quasi avesse fretta di raggiungere una meta. Sembra non curarsi del fatto che, nelle zone più in ombra, la neve si sia indurita, diventando ghiaccio scivoloso, o che ai piedi indossi un paio di sneakers di tela e gomma, dalla suola piatta. Scegliere le scarpe adatte non è mai stato il suo forte.
Didda lo guarda con lieve apprensione, arrancando qualche metro dietro di lui. Thomas è un bambino alto e robusto, il ritratto della salute. Ha però quella goffaggine che è tipica dei preadolescenti, cresciuti all’improvviso di dieci centimetri, come funghi nella notte, e ancora incapaci di governarsi del tutto.
Tratteniamo entrambe il respiro mentre Thomas slitta in avanti, roteando vorticosamente le braccia e spalancando gli occhi, in un’espressione di incredulo stupore: «Fucking injury!» grida dopo essere rovinato a terra, premendosi entrambe le mani sul ginocchio dolorante. Didda accelera un po’ il passo per aiutarlo a rialzarsi.
Qualche pallido raggio di sole si infrange in un caleidoiscopio di luci bianche fra i fitti rami dei pini, curvi sotto al peso della neve. La foresta di Whitemud Creek sorge nella zona a Ovest della città di Edmonton. Al suo interno è stato tracciato un sentiero ad anello, che parte dalla cima di una collina e si snoda per circa tre kilometri fino al fiume, uno dei tanti serpentelli d’acqua che nascono dal più grande North Saskechua River. Le popolazioni indigene, un tempo padrone di quelle terre, lo chiamavano "kisiskâciwani-sîpiy”, il “fiume che scorre veloce” e lo consideravano una divinità, o qualcosa del genere. Secoli di oppressione ed egemonia culturale da parte degli invasori europei hanno via via incrinato quel sentire animista, fino a spezzarlo del tutto. Ormai, i discendenti dei nativi preferiscono comprare auto di grosse cilindrata, bere e criticare il governo.
Didda mi ha raccontato questo e tanti altri aneddoti sul Canada. Vive qui da vent’anni, ne conosce bene la cultura e la storia. È venuta a patti con la freddezza del clima e degli abitanti, o almeno così pare. La osservo mentre cammina poco più avanti, mano nella mano con suo figlio. Il loro legame mi ricorda quello fra Sully e sua madre: quando lei veniva a prenderlo all’uscita da scuola, le bastava uno sguardo per capire com’era stata la sua giornata. Del resto, Sully non le avrebbe potuto raccontare granché, perché utilizzava solo una dozzina di parole per esprimersi.
È lo stesso per Didda. Conosce suo figlio oltre le parole e ne prevede i cambi d’umore come un meteorologo prevede la pioggia. Non che l’autismo renda Thomas particolarmente volubile, ma fatica a dare una forma alle sue emozioni, specialmente quelle negative. Quando era piccolo, lo avevo visto più volte sbattere la testa contro il muro nei momenti di crisi. Ora non sbatte più la testa, ma Didda dice che quando si arrabbia sa essere ancora piuttosto esplosivo.
Nel resto del tempo, Thomas sembra vivere in un mondo tutto suo, fatto di sensazioni, odori e suoni invisibili a tutti, tranne che a mia sorella. Mi era capitato di pensare che Didda lo avesse concepito proiettando su di lui i suoi ricordi e le sue suggestioni di bambina, fatti di fiabe e regni magici, abitati da animali parlanti, gnomi e fate. E così, aveva avuto quel figlio speciale, i cui occhi grandi e profondi celavano una verità misteriosa e inaccessibile.
«Mom!», grida Thomas, interrompendo il flusso dei miei pensieri: «Cosa poso fae quando sono grande?» le chiede, arrotondando le r e perdendosi qualche doppia, con un marcato accento americano e un bilinguismo abbozzato.
«Tutto quello che vuoi, amore» risponde Didda con convinzione, sbuffando fuori una nuvola di condensa.
«Poso fae anything?»
«Non proprio, ma devi fare quello che ti piace»
«I want to be an artist, a designer.»
Penso cinicamente che sarà impossibile. Che nessun roseo futuro lo aspetti, una volta che sarà un adulto: la sua diversità sarà sempre un ostacolo.
Il sentiero si fa via via più ripido. Thomas ha già scordato la caduta di poco fa, e adesso ricerca le parti ghiacciate sul terreno, improvvisando una sorta di pattinaggio in discesa e ridacchiando fra sé e sé. Io mi aggrappo agli arbusti che crescono sul bordo del sentiero, atterrita dall’idea di cadere. La spina di un rovo mi si impiglia nel palmo della mano destra, lacerando la pelle proprio dove è più tenera. Osservo la ferita: un graffio di un paio di centimetri, nel punto in cui la linea della vita si incrocia a quella della testa. Perline di sangue, grandi come la capocchia di uno spillo, iniziano ad affiorare. Porto il palmo alla bocca per succhiare via il sangue e il sapore metallico mi ricorda l’odore dei tonnetti che pesca mio padre. Li posso vividamente immaginare, mentre si dimenano sulla barca, in un estremo tentativo di mettersi in salvo, boccheggiando disperati. Poi mio padre li colpisce in testa, e loro se ne stanno lì, immobili e rigidi, il fulgido colore delle squame che diventa sempre più pallido. Pallido e luminoso, proprio come la neve che mi circonda.
Un soffio d'aria tiepida mi riporta al presente. Per qualche curioso fenomeno atmosferico, ci sono punti della foresta che incanalano questo vento caldo, che è come una carezza.
«L’ultima volta, Lana ci ha mostrato una scorciatoia» ci dice Didda. Dopo pochi metri, sembra scorgere un’apertura fra gli alberi: «Ecco la strada! Venite, che facciamo prima.»
Risaliamo per un pendio ghiacciato e scivoloso, aggrappandoci ad arbusti e alberelli per reggerci in piedi. Camminiamo, zitti e concentrati, per dieci, quindici minuti, ma la foresta è sempre più fitta e il sentiero sempre meno tracciato. «Hey… ma ci siamo persi?» chiedo con una lieve nota di apprensione, accorgendomi che il segnale GPS del telefono non funziona più.
Didda si guarda intorno con aria smarrita. «No, ecco, al bivio forse dovevamo andare a destra invece che a sinistra…». Thomas scivola di nuovo e impreca
rumorosamente. Il sole sta tramontando. Non abbiamo ancora molta luce a disposizione e, una volta calata la notte, farà davvero freddo qui.
Tutto a un tratto, senza dire niente, Thomas si incammina veloce verso la direzione opposta nella quale ci stiamo muovendo. «Thomas dove stai andando? Dobbiamo andare di là!» gli grida dietro Didda.
«No mum, it’s this way!» le risponde Thomas senza voltarsi. Non si volta neanche e cammina deciso verso una zona ancora più fitta.
Lo seguiamo, più per non perderlo di vista che fidandoci del suo intuito. E infine vediamo un sentiero tracciato: la via d'uscita dal bosco. Didda lo riempie di complimenti per essersi ricordato la strada. Senza di lui, saremmo rimasti a vagare ancora chissà quanto. Forse, la diversità non è sempre un limite. A volte offre una prospettiva diversa sulle cose.
Finalmente arriviamo in cima, lasciandoci del tutto il bosco alle spalle. Il tramonto sembra abbracciare l’orizzonte come una calda coperta dorata, intarsiata dal profilo nero e aguzzo dei pini in lontananza.
Camminiamo verso la macchina, solo noi tre, in silenzio.
Re: Passeggiata a Whitemut Creek
2Ciao @MaiaMoon e benvenuta al forum
Questo racconto, ambientato nei boschi innevati di Whitemud Creek, nei pressi di Edmonton, Canada (sono andato a cercare…) riesce a trasportare il lettore in un luogo fisico e interiore allo stesso tempo.
Il sentiero che descrivi non è solo reale, ma anche emotivo: un percorso fatto di silenzi, legami familiari, piccoli pericoli e grandi riflessioni.
Lo stile mi ha colpito per la sua delicatezza: è pacato, attento all’osservazione dei dettagli, ma capace di una profondità autentica. Le descrizioni della neve, della foresta, della luce che filtra tra i rami creano immagini nitide, quasi tattili, ma è soprattutto il tono sommesso e intimo a rendere il racconto così coinvolgente.
Il rapporto tra Didda e Thomas è raccontato con tenerezza e rispetto, senza retorica né pietismo. Il ritratto di Thomas è delicato, affettuoso, e lontano da ogni stereotipo. Anche le riflessioni più amare — sulla diversità, sul futuro incerto, sulla perdita del legame spirituale con la natura, la cultura nativa soffocata da quella europea — sono ben dosate e inserite con misura, senza mai spezzare l’equilibrio narrativo.
Commovente quando Thomas chiede cosa potrà fare da grande.
Qualsiasi cosa, certo. Ma purtroppo, in questa attuale società, non sarà possibile del tutto.
Mi ha ricordato, per atmosfera e profondità, alcune pagine di Alice Munro, anche lei canadese; quella scrittura che guarda il mondo con occhi gentili, ma lucidi. Come la neve che si scioglie ma lascia impronte, questo racconto continua a farsi sentire anche dopo la fine.
Complimenti sinceri.
Questo racconto, ambientato nei boschi innevati di Whitemud Creek, nei pressi di Edmonton, Canada (sono andato a cercare…) riesce a trasportare il lettore in un luogo fisico e interiore allo stesso tempo.
Il sentiero che descrivi non è solo reale, ma anche emotivo: un percorso fatto di silenzi, legami familiari, piccoli pericoli e grandi riflessioni.
Lo stile mi ha colpito per la sua delicatezza: è pacato, attento all’osservazione dei dettagli, ma capace di una profondità autentica. Le descrizioni della neve, della foresta, della luce che filtra tra i rami creano immagini nitide, quasi tattili, ma è soprattutto il tono sommesso e intimo a rendere il racconto così coinvolgente.
Il rapporto tra Didda e Thomas è raccontato con tenerezza e rispetto, senza retorica né pietismo. Il ritratto di Thomas è delicato, affettuoso, e lontano da ogni stereotipo. Anche le riflessioni più amare — sulla diversità, sul futuro incerto, sulla perdita del legame spirituale con la natura, la cultura nativa soffocata da quella europea — sono ben dosate e inserite con misura, senza mai spezzare l’equilibrio narrativo.
Commovente quando Thomas chiede cosa potrà fare da grande.
Qualsiasi cosa, certo. Ma purtroppo, in questa attuale società, non sarà possibile del tutto.
Mi ha ricordato, per atmosfera e profondità, alcune pagine di Alice Munro, anche lei canadese; quella scrittura che guarda il mondo con occhi gentili, ma lucidi. Come la neve che si scioglie ma lascia impronte, questo racconto continua a farsi sentire anche dopo la fine.
Complimenti sinceri.
Si salveranno solo coloro che resisteranno e disobbediranno a oltranza, il resto perirà.
(Apocalisse di S. Giovanni)
(Apocalisse di S. Giovanni)