Commento: premio Labocontest n. 2
Carta n. 8: Rosso: Il sangue, la ferita, il patto
Gli affiliati
Sprazzi di luce rapidi bucano il buio. Vedo qualcosa. La manica di una maglia o di una giacca. Un cono giallo che mi abbaglia un istante e sparisce. Movimenti neri sullo sfondo.
E rumori di cui non indovino l'origine. Passi strascicati, direi, come di pantofole sul pavimento, respiri affannati e un suono strano, indecifrabile. Se non fosse assurdo direi un frullio di ali.
Dopo sento altri rumori inequivocabili: una porta che si chiude e un giro di chiavi nella toppa. A questo punto sprofondo in un buio denso, viscoso. La porta, anche se c'è, pare sigillata e non filtra alcuna luce. Finestre non ce ne sono. Altrimenti anche un minimo barlume entrerebbe.
Le persone che mi hanno presa hanno lasciato accanto a me una coperta. Una forma di gentilezza, mi viene da pensare, nonostante tutto. La uso per stendermi su qualcosa di più morbido delle mattonelle del suolo. Se mi verrà freddo, vedrò che fare. Oltre alla coperta c'è anche un catino vuoto, per i miei bisogni, intuisco. Per ora non ho intenzione di esplorare la stanza, sento il corpo pesante, che si adagia a terra senza interpellarmi. Ho sonno, ho solo sonno e chiudo gli occhi.
Mi sveglio senza alcuna ragione. Di solito c'è un suono o una luce che ci distoglie dal sonno, ma qui mi ritrovo esattamente nella stessa situazione in cui mi sono addormentata: silenzio e buio. Ricordo solo due persone, un uomo e una donna, che si sono avvicinate a me nel vicolo in cui dormivo. Poi ricordo il sonno pesante, una calamita da cui era impossibile staccarsi. Devono avermi drogata con qualcosa. Infine questa stanza dal buio impassibile.
Quello che più mi dà fastidio è non sapere come scorre il tempo. Se è giorno o notte, se ho dormito per minuti o ore.
Sono avvolta nella coperta, devo aver sentito freddo mentre dormivo. Me la tolgo di dosso e inizio a tastare il suolo accanto a me con le mani. Non c'è niente, tranne le mattonelle fredde del pavimento, ne seguo i solchi squadrati con le dita. Dopo aver esaurito lo spazio immediatamente vicino a me, mi metto carponi e proseguo nella ricerca. Trovo una parete. Mi metto in piedi per toccarla meglio. È un muro liscio, polveroso. Decido di continuare a esplorare il perimetro della stanza. Le mie mani sfiorano la parete, ne studiano le irregolarità e i rilievi, ma ciò che capisco è che si tratta di un muro spoglio, probabilmente di una stanza vuota.
Proseguo fino a toccare una superficie diversa: il legno dello stipite di una porta. Tasto il telaio, poi la porta vera e propria, sento il freddo della maniglia, il disegno della toppa, infine lo stipite del lato opposto. La supero e tocco di nuovo il muro. Poi proseguo fino all'angolo.
Rallento. Un sudore freddo mi cola dalla fronte, sul collo, sulla schiena, man mano che procedo e mi rendo conto che la stanza è davvero vuota. Che io non abbia appigli e non trovi qualcosa, un mobile, un oggetto, mi getta nello sgomento, in un inizio di panico. Dove sono? Perché quelle due persone mi hanno portata qui? Tocco il muro e davanti agli occhi, aperti o chiusi che siano, mi ballano davanti quelle macchie informi dai colori cangianti che ingannano i sensi in mancanza di luce, residui di fotogrammi impressi nella retina, prodotti inconsulti del nervo ottico. Il mio intero corpo è un fascio di nervi pronto a captare un suono o un odore. Mi pare di sentire ancora i passi strascicati di prima, il frullio d'ali. L'odore che sento è quello dell'intonaco, lo stesso che mi impregna i palmi delle mani. In sottofondo sento anche un odore pungente, di guano e piume.
Ho completato il giro della stanza: sto toccando di nuovo la porta. Mi inginocchio e striscio verso la coperta. Mi ci avvolgo, come in un bozzolo, a proteggermi dalla domanda che finora non ho usato formulare nemmeno a me stessa: quei due, quella coppia dall'età indefinita, sono due affiliati?
La porta si socchiude. Un trapezio di luce artificiale mi assale. Sono costretta a chiudere gli occhi ormai abituati al buio, anche se non voglio. Li riapro e vedo una sagoma nera di donna che si staglia in controluce; sullo sfondo, a pochi passi, un'altra figura la segue.
La donna si avvicina. Non oso parlare, la lingua ricacciata in gola. Lei appoggia qualcosa accanto a me. Poi indietreggia e, senza dire nulla, richiude la porta.
Ripiombo nel buio a cui mi pare di essermi abituata. Con le mani vado a cercare accanto a me. Sento la superficie liscia di una tazza e quella più ruvida di un tovagliolo di carta. Porto la tazza vicino al viso. L'odore è quello del latte. Ne bevo un sorso. Il liquido fresco che mi scende in gola è come una potente pozione magica. Mi fa bene, mi sento rinascere, e vuoto la tazza. Scarto quindi il tovagliolo: dentro c'è del pane raffermo. Lo mangio.
Gli affiliati nutrono le loro prede?
Non ne ho idea. Non si sa molto su di loro.
La porta si apre di nuovo, possono essere passate ore come giorni. Questa volta le parti sono invertite; la figura che si staglia nel cono di luce è quella dell'uomo e più indietro c'è lei.
Si avvicinano senza fretta. Ho il tempo di abituarmi alla luce e riesco a osservarne l'aspetto. Lui è sulla quarantina, non tanto alto e dal fisico appesantito. Anche lei.
— Spogliati — mi ordina l'uomo.
Rimango impietrita, riesco solo a scrutargli il viso, a cercare tra le pieghe del volto un qualche indizio sulle sue intenzioni.
— Spogliati! — ripete più forte.
— No! — la voce esce indipendente da me.
Arretro verso il buio. Adesso mi sono entrambi vicini. Lei mi illumina con una torcia.
Lui mi toglie la coperta di dosso. Mi dimeno. Nella concitazione vedo che lei ha in mano un coltello e che dentro la stanza c'è una gabbia appesa a un trespolo che ondeggia. Un uccello sbatte le ali in un tentativo scomposto di volo.
Non mi ero accorta di avere un compagno di stanza.
— Stai tranquilla, — mi dicono, a turno — non vogliamo farti del male. Però devi spogliarti.
Sento le loro parole ma non le ascolto. Mi dimeno finché lei non mi punta il coltello in faccia. L'uccello continua a sbattere contro le grate della gabbia, impaurito quanto me.
Mi rassegno a spogliarmi. Sfilo la maglia, i pantaloni, le calze. Man mano mi illuminano la pelle nuda, mi scrutano le gambe e le braccia, rigirandomele in cerca di qualcosa.
— Togliti tutto — dice lui.
Mi tolgo il reggiseno. I miei seni penzolano penosamente davanti ai due sconosciuti. Un brivido di freddo mi fa rizzare i peli sulle braccia. Per un momento la vergogna è più forte della paura.
— Anche le mutande — aggiunge lei.
Me le sfilo.
— Allarga le gambe.
Un singhiozzo, forte e rauco, mi esce dalla gola, sento il naso che cola.
I due continuano a osservarmi, dappertutto. So cosa cercano. Una ferita.
— Sembra a posto — dice allora lei.
In un attimo sono fuori dalla stanza. E io di nuovo al buio.
Raccatto i miei vestiti e mi rivesto con la stessa pena con cui mi sono spogliata.
Anche loro credevano che io fossi un'affiliata. Ecco perché mi hanno catturata. Pensavano di usarmi come ostaggio? Come merce di scambio?
Sono in piedi accanto alla gabbia. Ho imparato a muovermi nella stanza, ora so orientarmi al buio. Con le mani cerco lo sportellino e lo apro. Introduco un braccio. La mano tocca un piumaggio morbido e caldo. L'uccello al buio dorme ed è il mio tocco a svegliarlo. Non ho ancora capito che tipo di volatile sia, dai versi che fa potrebbe essere un pappagallo. È grigio, mi pare, e di taglia media, per quel che posso aver visto nei rapidi sprazzi di luce che la coppia mi concede quando viene a darci da mangiare.
Vorrei fare amicizia con lui, prenderlo in mano, accarezzarlo. È la mia unica compagnia qua dentro. Quei due mi rivolgono la parola di rado, solo quando serve.
Ho trovato il modo per capire come scorre il tempo. Secondo i miei calcoli, o meglio, i miei ritmi corporei, la coppia apre la porta una volta al giorno, quando porta dentro il latte e il pane per me e il mangime per l'uccello e ritira il catino pieno.
La puzza, qui dentro, deve essere insopportabile perché lo scambio avviene molto rapidamente. Io devo esserci abituata.
Per fortuna il corpo ha un suo orologio biologico, un ciclo che faccio coincidere con le 24 ore del movimento terrestre. Mi chiedo se esista ancora il giorno e la notte o tutto quanto, anche il mondo al di fuori di questa stanza e di questa casa, sia immerso in un buio perenne, in un tempo che si srotola solo in virtù di un cibo essenziale e sempre uguale che si ingoia, si digerisce, si assimila e infine si espelle sotto forma di urina ed escrementi.
Lascio aperto lo sportellino della gabbia, sorta di stanza dentro la stanza, matrioska o specchio della mia situazione, nella speranza che il volatile esca fuori, che si faccia un giro, che si venga a posare su di me.
Penso al genere umano. La coppia dei miei carcerieri non vi appartiene. Affiliati o no che siano. O affiliata o no che sia io. Cosa importa esserlo? Non so nemmeno più se esistano altri esseri umani al di fuori di qui o se l'unico barlume di vita in Terra sia un pappagallo grigio, muto e addormentato in una gabbia.
La donna appoggia un coltello accanto alla tazza e al pane. Prima di uscire dalla stanza cerca il mio sguardo. Non dice niente ma indugia nel contatto visivo con me. La porta resta socchiusa più a lungo del solito e la luce ci ravviva. Il pappagallo, ora sono certa che lo sia, si alza in volo e percorre in ampi cerchi lo spazio a disposizione. Poi torna a posarsi sulla mia spalla. Lei ci guarda. Apre la bocca, come per dire qualcosa, ma non parla. Getta uno sguardo sul coltello, quasi a sottolinearne l'esistenza. Quindi esce.
Un fascio di luce mi fa aprire gli occhi. È una luce diversa dal solito, è morbida, avvolgente. Se non l'avessi dimenticata, direi che è la luce naturale del giorno a entrare nella stanza. Mi metto a sedere e prendo la tazza con il latte. Questa volta non ho sentito nessuno entrare. Il coltello giace lì dove è stato messo, inerte. Il pappagallo si sveglia e inizia a becchettare la graniglia dalle mie mani. Lo accarezzo sulla testa, sul dorso. Intanto vedo la donna avvicinarsi. Per la prima volta, da quando sono qui, si siede accanto a me. Il coltello tra noi a segnare un confine.
— Non l'hai usato? — mi domanda.
— Per cosa? — le rispondo.
La donna tocca la lama con le dita. La mano ha un tremito.
— Affiliarsi è forse l'unico modo per uscire di qui. Puoi incidere la tua carne e stringere il patto di sangue.
La sua mano si allunga ad accarezzare il pappagallo, ma lui non si lascia toccare e vola verso la gabbia.
— Per strada ormai non c'è più nessuno, — continua la donna — probabilmente gli unici che non si sono ancora affiliati siamo noi. Ma non possiamo rimanere nascosti al buio per sempre. Le scorte di cibo stanno finendo.
La guardo con sospetto: perché devo affiliarmi io per prima? Chi mi garantisce che loro non siano già affiliati e non sia una trappola?
— E il pappagallo? — chiedo, senza alcuna logica.
— Il pappagallo cosa? — risponde lei a sua volta.
— Perché tenete quel pappagallo rinchiuso qui?
— È abituato così, alla cattività. Se lo liberassimo morirebbe.
— Già. Proprio come me.
La donna mi mette il coltello in mano.
— Coraggio, — dice — e poi sarai libera di andartene.
— E voi cosa farete?
— Ci affilieremo.
Sulla mano destra ho il coltello. Lo soppeso. Poi lo appoggio a terra. Pochi grammi di metallo affilato hanno il potere di recidere il confine tra chi è affiliato e chi no. Tra ciò che è dentro e ciò che è fuori. Tra vita e morte. Il potere di liberare il sangue che scorre nascosto nel buio di vene, arterie, capillari. Se il sangue travalica il confine, il legame con il tempo si spezza, straborda. La porta si apre e si può uscire fuori, liberi, svincolati dalla prigione del corpo. Dalla schiavitù della cattività: la gabbia per il pappagallo, la stanza per me, la casa per la coppia, la Terra per il genere umano. Gli affiliati l'hanno capito prima di me.
Ora comprendo: una ferita, un'arteria recisa, in cambio della libertà.
Sul mio polso sinistro è appollaiato il pappagallo. Il prigioniero si fida della sua carceriera.
— Se ci fosse una finestra, ti farei volare via. Se solo ci fosse una speranza... — dico mentre lo blocco con la mano e il volatile sbatte le ali inutili e gracchia. Una vita misera, muta e oscura sembra anche a lui meglio di niente. Ma ora so che è un'illusione.
— Non preoccuparti, amico mio, ora ti libero lo stesso.
Con il coltello gli incido il ventre. Il sangue cola copioso sulle mie mani. Il dentro è fuori.
Poi tocca a me.