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Traccia di Mezzogiorno di @Almissima. Storie di traslochi.
Un Pasqua a metà degli anni ‘50 i miei genitori andarono con amici a fare un viaggio e mi lasciarono con i nonni materni, che abitavano in una casa popolare. C’ero già stato, naturalmente, ma solo vivendoci scoprii il fascino e la bellezza di questo genere di abitazioni, tutte costruite in modo simile a Milano.
Entrando dal portone, superata la guardiola e l’appartamento del portiere dal quale all'ora dei pasti si sprigionavano importanti effluvi mangerecci, si accedeva alla grande corte intorno alla quale erano disposti i vari edifici. Il cortile conteneva al suo interno giardinetti con panchine e altri spazi comuni, disposti in modo da lasciare sempre all’esterno dei vialetti di ghiaia, percorribili per raggiungere le differenti scale di ingresso distinte da lettere.
In queste case si viveva una vita realmente in comune, scandita durante il giorno dalle note del "Gazzettino Padano" che uscivano da tutti gli appartamenti alle ore di trasmissione. Una convivenza quasi forzata, ma piacevole, una pacchia per noi bambini che giocavamo a calcio, nascondino, guardie e ladri, bandiera, biglie, lancio di tappi di bibite e di figurine per arrivare più vicino al muro e - per finire - campana, ovvero serie di abili saltelli su un piede per recuperare un sasso dopo avere disegnato per terra, con un gesso bianco o un pezzetto di mattone, "T" e quadrati distinti da numeri.
Nel cortile, a secondo delle stagioni e dei loro programmi, si alternavano personaggi vari come arrotini, riparatori di ombrelli e cappelli, intrecciatori di sedie di vimini, materassai che spiumavano sul posto i cuscini e cardavano la lana dei materassi, suonatori di pianole trasportate a mano su carretti con stanghe. Queste pianole suonavano in modo automatico girando una manovella che faceva ruotare un grande cilindro chiodato posto sul fondo, il quale a sua volta agiva su martelletti simili a quelli di un piano. Veniva così emesso un caratteristico suono tremolante che, quando il movimento impresso non era costante o "sforzava", si arrotolava in un piacevole groviglio di note. Era meraviglioso svegliarsi la mattina sentendo in sottofondo questa musica, e chiedevo al nonno il permesso di vestirmi in fretta per portare una monetina al figlio del padrone che girava per il cortile con un cappello in mano. Noi bambini della casa lo invidiavamo moltissimo perché non studiava e percorreva tutta la città lavorando ed aiutando la sua famiglia. Tanto quanto lui guardava noi "signorini" con malcelato disprezzo.
Ero stranamente attratto da questo bambino. Di sicuro mi sarebbe piaciuto che lui mi stimasse, piuttosto che guardarmi con aria di superiorità, ma c'era anche qualcos’altro. Poi un giorno capii perché me lo fece notare una mia piccola amica. A parte i vestiti, i suoi capelli trascurati e la sporcizia sul suo volto, eravamo praticamente identici.
Piano piano diventammo amici. Gli feci ammirare tutti i miei giocattoli, che lui non aveva mai visto prima e che lo lasciarono a bocca aperta, ma soprattutto gli piaceva il mio autobus radiocomandato, una novità per quell'epoca. Cominciammo a raccontarci la nostra vita.
«Non che mi vada così male!» gli confidai «Però i miei genitori sono molto severi e per loro esiste solo lo studio, posso giocare solo le poche volte che mi lasciano dai nonni, e questa mi sa che me la ricorderò a lungo. Quest’anno ho cominciato ad andare a scuola ed è peggio che essere in prigione. Mio papà lavora sempre e mia mamma è sempre fuori con le amiche a giocare a carte o a fare compere. Io sto con una signorina straniera che non capisco neanche cosa dice. Siamo ricchi e abbiamo una casa grandissima, due cameriere e una macchina che tutti ci ammirano, ma mi manca la libertà che hai tu che non devi neppure andare a scuola.»
«Capisco quel che dici, e ti do ragione, non ti invidio di certo. Mia mamma è morta e io sto solo con mio padre, che è la persona più buona e gentile del mondo e mi lascia fare tutto quello che voglio. Mi chiede solo di fare il giro nei cortili e per strada per raccogliere i soldi, ma poi me ne lascia sempre un bel po’ per comprarmi dolci, gelati e quello che voglio. Conosco tanta gente e un mucchio di altri bambini. Abitiamo in una bella casetta dove ci stiamo solo noi, e intorno ci sono solo prati verdi per giocare e correre. Credo di essere molto fortunato!»
Poi, proprio il giorno di Pasqua, mi propose qualcosa.
«Per un po' torniamo qui ogni due giorni, poi cambiamo zona della città. Non ti va di provare com’è la vita che faccio, e io proverò la tua? La prima volta che tornerai, ci scambieremo ancora e ci racconteremo tutto. Però devi decidere subito, che abbiamo poco tempo!»
Restai perplesso per qualche attimo, non me l’aspettavo. Ma quella vita libera e felice mi tentava troppo, volevo proprio assaggiarla.
Così, con l'aiuto di una bambina mia amica che sognava di fare da grande la parrucchiera e la truccatrice, lui si pettinò i capelli come i miei, si lavò ben bene la faccia mentre io me la sporcai, infine ci scambiammo i vestiti. Il risultato fu incredibile!
Lui mi diede la calza con dentro i soldi raccolti, e io corsi dal suo papà aiutandolo a portare la pianola pesantissima sino a casa. Che però era una specie di rudere di roulotte in mezzo a quello che sembrava un campo di zingari, sporco e schifoso come non avrei potuto mai immaginarlo. Entrammo nella “casa” che, se possibile, era ancora peggio che fuori, e lui mi prese la calza con i soldi, che però risultarono essere bottoni. Mi arrivò uno sganassone che mi lasciò a lungo rintronato e dolorante con le orecchie ronzanti.
«Brutto stronzo, che fine hanno fatto le mie monete? Fallo un’altra volta che ti spezzo le braccia e le gambe! E adesso vai a raccogliere i tuoi quattro stracci e sbattili dentro qualcosa. Come ti ho già detto domani alle sei un amico con il camion passa a prenderci, noi e la pianola, e ci riporta a Termoli. Quella puttana buona a nulla di tua madre ha bisogno del tuo aiuto, quando non lavori con me, per badare ai miei genitori che non si muovono più dal letto e non riescono a trattenere i loro bisogni.»
«Ma io veramente non sono…»
Mi arrivò, dall’altro lato della faccia, una sberla il doppio della prima che mi fece passare la voglia di aprire bocca. Mi toccai ed ero pieno di sangue.
«Stai zitto, che se no ti ammazzo. E domani, quando ce ne andiamo, guarda bene questa città di merda, perché penso proprio che non ci torneremo e non la rivedrai mai più.»
E, mi dispiace doverlo dire, ma fu proprio così.
[MI147] Uovo di Pasqua con sorpresa.
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Last edited by Macleobond on Sun Mar 28, 2021 9:01 pm, edited 1 time in total.
Se leggi bene questa riga non hai bisogno degli occhiali da vista