Nardo Tabone era nato e morto alla stessa maniera, senza niente. Giaceva freddo nel letto dove aveva dormito per tutta la vita, indossando per la seconda volta l’abito nuziale; lo stesso che aveva indossato a vent’anni per giurare amore eterno a Marietta.
Tra i contadini di Camastra era usanza conservare l’abito del matrimonio per indossarlo nelle grandi occasioni. Per Nardo Tabone, in ottant’anni di vita, di grandi occasioni non se ne presentarono molte.
Attorno alla salma, verso le tre del pomeriggio, si era levata un’aria scherzosa e rilassata tra i convenuti. Marietta era stanca, piangeva da due giorni senza sosta, e voleva darsi uno svago giusto per riprendere fiato: assaggiando così i primi sapori della vedovanza. Al capezzale tra gli altri c’era Giacinto, il becca morto del paese, che tra il serio e il faceto esternava pensieri filosofici mescolando scientemente il mistico all’utile: questi pensieri erano quasi sempre indirizzati a l’uomo più anziano che incrociava.
— Don Carmelo, vedete, se voi lo lasciate detto ora, i figli non avranno dubbi a tempo debito. E per questa certezza, io oggi lo sconto ve lo garantisco: da vivo! Ma se questo impegno oggi non c’è: qui e ora, i prezzi poi saranno quelli correnti, e io non faccio sconti ai morti!
— Giacinto, io vi ringrazio per questa disponibilità, ho sempre risparmiato tutta la vita, su ogni cosa, e ti dico che mi hai convinto. Resto vivo, che morire non mi conviene!
Il primo sorriso di Marietta è smagliante, una luce d’agosto dentro la stanza. Le labbra stirano una pelle morbida e accartocciata che ritrova per un istante il colore di un tempo. Una gioventù mai del tutto sparita che si intravede negli occhi azzurri che paiono ancora quella bambina, dipinti apposta per quel pomeriggio d’estate. Il ricordo svanisce soltanto alla vista dei denti: sono appena tre, gialli e lunghissimi.
La porta nelle case dei morti è aperta, un uomo con le gambe a pezzi a fatica sale l’unico scalino tra la pubblica strada e la stanza del commiato.
— Grandissimo lavoratore!
Esclamò Pippo Palminteri rivolgendosi alla salma, e stringendo le labbra in una smorfia, come chi sta per ingoiare una medicina troppo amara. Amico e compagno di lavoro di una vita, quanto fieno hanno girato quelle quattro mani insieme … . Tutti i campieri di Camastra li conoscevano, non c’era una chiusa, un campo aperto, un orto, che non li aveva visti piegati con le mani sulla terra, a ridere e bestemmiare all’occorrenza.
— Si metta a sedere don Pippo.
— Turidduzzo, mi dispiaci per tuo padre. Sei venuto dalla Germania per il funerale?
— No, ero in ferie, papà nella disgrazia mi ha fatto un regalo … chi li poteva pigliare un’altra volta i biglietti tra un mese.
— Conoscendolo lo ha fatto di proposito: era uno che metteva apposto le cose come poteva.
Giacinto, osserva incuriosito la discussione.
— Ben detto don Pippo, un uomo che per la famiglia faceva l’impossibile: uno di quelli che mi venne a parlare da vivo, quando era ancora lucido nei pensieri. Uno che si merita tutto lo sconto della mia ditta, e a cui o voluto far avere anche un loculo basso, dove donna Marietta può andare a piangere e straziarsi serenamente, senza dover salire sulla scala rischiando il ricongiungimento innaturale.
Turiddu sembra seccato dai discorsi di Giacinto.
— Caro Giacinto, il prezzo con tutto il rispetto non mi sembra così economico. A Grevenbroich per gli stessi soldi ti fanno un funerale da gran signore, con la cassa in legno brillante e con i dettagli cromati, e poi mettono vicino al morto dei candelabri in neon, che il morto guadagna in presenza che manco da vivo. Il legno della cassa che passate voi pare quello delle casse di pomodoro, e sta statuetta della madonna è la stessa di quando fu di nonno Totò.
— L’immagine della vergine non la cambio, ormai è tradizione! Tutti i capezzali di Camastra la vogliono, e io poi sono anche devoto. Il legno mio è più leggero, ci si sforza di meno a sollevarlo: debbo pensare anche ai vivi che se li portano in spalla per tutta la scalinata della grazia fino alla chiesa. Figlio mio e che ti devo dire, se vuoi i neon vai a morire a Grevenbroich.
Verso sera un vento fresco stemperava il caldo torrido di ferragosto, liberando la casa del morto dai saluti, dalle lacrime, dalle risate dolci e amare. Tutto il paese era passato a salutare Nardo Tabone, morto in un giorno che perfino per lui saprebbe stato di ferie. Anche questa volta non aveva perso la giornata, dando la possibilità a tutti di essere dignitosamente al posto giusto.
Giacinto saldata la cassa si mise fuori dalla porta, si arrotolò una sigaretta e allungò lo sguardo verso tutta la via. Case antiche piene sole, fiori sui balconi accanto ai panni stesi, e teste bianche a ogni angolo d’ombra. Da lontano un uomo di mezza età con un camion carico di meloni gialli si avvicina, Giacinto sorride e allunga una mano: Che meloni che vai regalando! Tuo padre come sta, è un po’ che non lo vedo.