Da queste parti diciamo “Chiedi a Nyambe”. Chiedile pioggia, chiedile aria, chiedile sangue. Che tu peschi alla fonda, che tu cacci con la luna, che tu estirpi malerba dal raccolto buono, chiedi a Nyambe protettrice di Vita. Che non ha protetto la mia Luyia.
«Non buono.»
«Come sarebbe a dire “Non buono”? Ti abbiamo portato quello che ci hai chiesto, vecchio.»
«Non buono, Kamunu.»
«Lascia stare, Kam. Lo venderemo a qualcun’altro.» Guardo Ma’ e guardo il vecchio. Sfinita, indifferente. Scalza, scalzo. Polvere, polvere.
Allungo la mano e mi riprendo la bisaccia spelacchiata.
Io e Ma’ siamo arrivati dal villaggio, tre ore e un po’ di cammino col sole che ti sputa in testa e la sabbia che ti mangia i piedi. Siamo arrivati perché il mercato di Koko è il più grande, perché si vende meglio e la gente paga meglio. Ma qui nessuno compra.
«Senti. Abbiamo fatto tanta strada, per favore. Almeno guardali!»
«Non bisogno di guardare.»
«Ma a chi altro la vendiamo se non a te?» Ha in mano una statuina d’ebano, le fa il contorno col filo di un rasoio. Sorride.
«Vendi a discarica.»
«Lascia stare, Kam.» Guardo Ma’ che non mi guarda, si guarda intorno come se cercasse qualcuno in particolare, ma qui non conosciamo nessuno. Ormai è mesi che fa così; a volte c’è, a volte no. Da quando Pa’ se n’è andato e forse si è portato Luyia, forse no.
Sospiro, le prendo la mano e ce ne andiamo.
«Ma’. Ma’. Com’è che il vecchio sapeva come mi chiamo?»
«Kamunu è figlio di Nyambe. Tutti gli uomini sono.»
«Ma’. Questa roba non se la compra nessuno.»
Luyia giocava col filo, di questo ne sono sicuro. Ci ho pensato tante volte poi, e so che giocava col filo giù al delta. Forse anche con Nabi e Zeba, ma se loro due c’erano non avevano visto niente o avevano detto di non aver visto niente, che non c’erano. Avevano detto che con Luyia non ci giocavano più da quando le era entrato in testa il brutto-brutto. Da allora la evitavano, se potevano. Lo facevano tutti giù al villaggio, anche se Pa’ era il più bravo con l’arco, il più veloce ad arrampicarsi, il più furbo a cacciare e nessuno gli voleva male. Era successo un giorno che andava al guado con il Pa’ di Kemba e il Pa’ di Zeba, io dovevo badare a Luyia che Ma’ andava a trebbiare. Era il giorno prima del mio Solco, il giorno che diventavo uomo e se ero bravo poi diventavo Pa’. Mi ci ero preparato tutto l’anno: la mattina mi svegliavo prima per andare a nuotare, mi immergevo a più riprese e nuotavo lungo tutto il delta, tenevo il fiato fino a che potevo e se non ingoiavo acqua non ero contento, perché non ero stato sotto abbastanza. Mi ero fatto la lancia da me e mi ci allenavo la sera al buio dopo che avevo portato l’acqua per lavarci. Non avevo tempo di badare a Luyia, e pensavo che anche se ce l’avevo non spettava a me. Che non era compito da Pa’ tenere d’occhio le bambine. Così Luyia se n’era andata al delta a giocare e io non avevo detto niente che potevo fare i miei esercizi con la lancia, tanto non era la prima volta che ci andava. Finisco questi e vado a controllarla.
«Che succede?» Zeba corre e piange e grida. «Che hai fatto? Dov’è Luyia?» Dice che Luyia è al delta, dice che giocavano a chi sta più tempo sotto dice che Luyia è stata sotto un bel mucchio dice che poi è uscita che non parlava e respirava forte e guardava Nabi dice che s’è messa a urlare che Nabi non era Nabi che le ha rubato la faccia che era Non-Nabi che Non-Nabi ha rubato la faccia a Nabi e Nabi è morta e quella chi era? e le ha tirato un sasso in faccia, in faccia a Non-Nabi o Nabi insomma che le si è spaccata e ha perso un mucchio di sangue e Luyia non si fermava e lanciava sassi.
L’Uomo-Juju dice che Luyia c’ha il brutto-brutto, che la testa gli scivola via ogni giorno di più e non vede più le facce. Che le vede ma non sa quello che vede.
«Che si può fare?» chiede Pa’.
«Chiediamo aiuto a Nyambe.» Allora Ma’ gli dà un pezzo di stoffa che ci fasciava Luyia da piccola e lui chiede altre cose di Luyia: unghie, capelli, peli pubici. E sangue di Pa’.
Pesta nella ciotola. Moringa, zenzero e tabernanthe. Parla strano e io guardo Ma’ un po’ così. Il mio Solco è stato rimandato. La ciotola inizia a fumare e presto nella capanna non si vede niente se non fumo verde che fa tossire e piangere. Mi accorgo che sono l’unico con le lacrime, che in tutto quel fumo Pa’ e Ma’ e l’Uomo-Juju stanno immobili come respirassero aria limpida.
Non so se piangevo per il fumo o per il Solco, ce l’avevo con Luyia che aveva deciso di diventare scema il giorno prima del giorno più importante della mia vita. Era cominciata la stagione di semina e tutti, Pa’ e Ma’ del villaggio, erano nei campi da che il sole li svegliava a che la luna li rimetteva a letto, e io senza Solco, né uomo né Pa’, a badare alla Luyia rincretinita.
Mi guardava allenarmi con la lancia. Aspettavo che i vecchi del villaggio stabilissero qual era il giorno del mio nuovo Solco, il nuovo giorno più importante della mia vita, ma non volevo aspettare con le mani in mano e magari perdere il fiato, deconcentrarmi e arrivare impreparato. Non so perché quando stava con me era sempre Luyia. Voglio dire che era come se fosse di nuovo la mia Luyia normale, senza il brutto-brutto. Non faceva casino, non mi scambiava per qualcun’altro e non mi tirava sassi. Se ne stava semplicemente lì seduta a guardarmi che tiravo colpi all’aria.
Ilozumba venne a chiamarmi nell’ultima antimeridiana per allenarci assieme. Mi stavo asciugando via il sudore e Luyia seduta accanto a me che mi guardava silenziosa. Appena lo vide scattò come morsa da qualcosa. Gridava, batteva i piedi, tirava calci e gli sputava addosso. Ilo tentava di tenerla ferma senza farle male, con una mano a premerle sulla fronte, ma Luyia scivola via e gli arriva al petto. Serra i denti attorno al capezzolo di Ilo, che inizia a sanguinare. Le tiro i capelli, le tiro un pugno ma non si stacca. Viene via con la bocca piena di sangue, un lembo di carne tra i dentri. Ilo che piange a terra e la sabbia gli scava la ferita. Le dico Va via! Via! Va al delta, affogatici. Fa come ti pare ma sparisci.
Lo fa.
Anche oggi sono andato dall’Uomo-Juju. Non credo a queste cose da tempo, ma è diventata una tradizione. Ho lasciato Zeba al villaggio e ho preso due uomini con me, altri ne ho lasciati ai campi. Faccio questa cosa perché va fatta, perché sento di doverlo fare e poi me ne torno al villaggio a organizzare la caccia. Entro scostando la tenda che tintinna e sento già le lacrime corrermi agli occhi. E ancora non c’è fumo.
«Seduto, Kamunu.»
«Parla con rispetto, vecchio.»
«Non è il rispetto che cerco» dico per quietare i miei uomini. «Aspettate fuori.»
Un capello.
Un’unghia.
Un pelo.
Sangue di fratello.
«Chiediamo a Nyambe.»
Parole strane.
Fumo verde.
Tosse e lacrime.
«Kam! Oh Kam!» una voce alle mie spalle, la cerco con gli occhi.
Finalmente.
La trovo.
«È… è Zeba. Ha partorito adesso. Una bambina.»
L’abbiamo chiamata Luyia.
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