[Lab18] Storia di una stufa

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Storia di una stufa

Sono una vecchia stufa economica a legna. Ormai in pensione.
Il mio lavoro, per tanti anni, è stato scaldare la casa e cucinare.
Ricordo ancora quando uscii dalla fabbrica, allineata con le altre mie compagne, tutte splendenti nel nostro smalto bianco porcellanato.
Mi portarono in un paese sulle colline, in un castello che ospitava molti  appartamenti. In uno di questi viveva un giovane carabiniere con sottili baffetti neri. Aveva già comprato la legna adatta alla mia piccola camera di combustione, rivestita di mattoni refrattari. Mi accese subito: sento ancora l’ebbrezza di quella prima volta. Sapeva come si accendeva un fuoco. Sorrise, scaldandosi le mani sulle mie piastre di ghisa. Era contento, e lo ero anch’io.
Poco dopo il mio arrivo giunsero anche i mobili: una massiccia camera da letto di castagno in stile Chippendale, un tinello per la cucina con cassetti, cassettoni e una vetrina celeste incisa con uccelli in un giardino fiorito; un robusto tavolo dal ripiano di marmo; un delizioso sofà dai cuscini verdi con braccioli di legno.
Il mio padrone stava per sposarsi. Lo ricordò ad alcuni colleghi che invitò a casa prima di partire in licenza.
─ Mi raccomando: vi telefonerò in caserma quando tornerò con mia moglie. Fatemi trovare la stufa accesa.
Gli amici lo rassicurarono sorridendo.
Arrostirono castagne sulle mie piastre, accompagnandole con un bicchiere di vino.

Sua moglie era una ragazza alta e snella. Mi apprezzò subito, sedendosi accanto a me per scaldarsi: soffriva il freddo. 
Lei e il mio padrone venivano da una terra calda, e qui, al nord, l’inverno era rigido.
Dopo un paio d’anni nacque un bambino. Sua madre gli faceva il bagno in un mastello di ferro usando l’acqua calda che scaldavo nella mia vaschetta laterale, mescolandola con quella fredda e controllando la temperatura col gomito.
Il bambino batteva le manine e riempiva la stanza con la sua risata argentina. A volte il mio padrone rientrava e li osservava sorridendo, lasciandosi stringere il dito dal piccolo. Era uno spettacolo vederli così felici.
Passarono anni di vita tranquilla. Io partecipavo a tutto. Lavoravo molto, ma ero contenta: mi sentivo parte della famiglia. Sulle mie piastre bollivano pentole di zuppe e lessi con verdure che profumavano la casa fino alla strada. Sul mio tubo si aprivano delle aste per stendere la biancheria: le goccioline d’acqua che cadevano sulle piastre calde  sfrigolavano in modo delizioso.
In quella cucina si mangiava allegri, si ricevevano visite, si festeggiavano i compleanni del bambino, si leggevano le lettere da casa. Ma, dopo tanta serenità, avvertii un’ombra. Una tristezza leggera. La moglie del mio padrone, a volte, piangeva. Forse era nostalgia. Li sentivo discutere.

Un giorno avvertii un grande movimento. Degli uomini vennero a prendermi, insieme a tutti i mobili. Mi caricarono su un camion. Durante il lungo viaggio cercai invano di sapere qualcosa dai miei compagni: anche loro erano sbalorditi e scossi. Poi, dopo ore, salimmo su una nave. Il viaggio fu un incubo. Scricchiolai nelle mie giunture per tutta la notte, sballottata dalle onde.
E il mio padrone? Perché non era con noi? Mi aveva abbandonata? 
Sbarcammo in una terra dal sole accecante. Il camion ci portò in un paesino circondato da colline diverse da quelle che conoscevo, e da filari di piante strane. Mi dissero che si chiamavano fichi d’India.

Nella nuova casa tutto era diverso. C’era un piccolo cortile circondato da alti muri, un giardino con piante da  frutto. Mi sistemarono in cucina, e ripresi il mio lavoro. Al mio padrone nacquero altri due bambini, una femminuccia e un maschietto.
Cambiammo casa altre tre volte in quegli anni e, infine, anche paese. Mi ero un po’ abituata a questi spostamenti: dipendevano dal lavoro del mio padrone.
Alla fine arrivammo all’ultima destinazione: il piano superiore di una caserma dei carabinieri. Quel posto, con i suoi muri spessi e il cortile interno, mi ricordava un po’ il mio primo castello al nord. Qui vidi tutti e tre i figli crescere, andare a scuola, fare i compiti in cucina, riscaldandosi al mio fuoco nelle sere d’inverno.
Continuavo a scaldare e cucinare. Mi ero specializzata in teglie di pesce e anguille, spezzatini, stufati, bolliti. Avevano anche una cucina a gas, che spesso mi sostituiva, ma ai primi freddi tornavano sempre da me. Amavano il mio calore mentre guardavano la televisione, quel piccolo teatro in cui le persone si muovevano come in una stanza lontana.
Il mio padrone e sua moglie mi erano sempre affezionati. Anche il loro primogenito, quello che mi aveva conosciuta da bambino al nord, mi voleva bene: lo sentivo. Spesso, da ragazzo, accendeva il fuoco lui stesso e cambiava l’acqua nella vaschetta quando bolliva.  Era un po’ maldestro, ma gentile. Lo seguivo con un’attenzione particolare: non che gli altri figli mi volessero meno bene, ma il primo figlio, si sa, è sempre un po’ speciale.
Dopo qualche anno si fecero dei lavori in casa. Degli operai montarono alle pareti dei pesanti radiatori in ghisa, che scaldavano le stanze con l’acqua calda che scorreva dentro di loro.
Ma in cucina non li misero, non c’era posto. E così continuarono a usare me.
Gli anni scorrevano tranquilli. Il più grande dei figli spesso faceva i compiti sul tavolo con il piano di marmo, posto proprio accanto a me. A tavola il suo posto era sempre il più vicino al mio calore.
Poi, ancora una volta, sentii che l’aria stava cambiando. Col tempo si diventa esperti in certe sensazioni: aria di trasferimento.
Ma questa volta capii che sarebbe stato l’ultimo per la famiglia. Il mio padrone era invecchiato: i suoi sottili baffetti neri erano diventati due baffoni grigi e bianchi. Il suo lavoro era finito. Era il momento della pensione.
Vennero amici a salutare. L’atmosfera era un po’ triste. Capivo che ancora una volta ci sarebbe stato un cambiamento.
Mi caricarono su un camion assieme ai mobili, e percorremmo una lunga strada che dalle pianure saliva verso le  montagne. Poi scendeva su altre colline. Il grosso tavolo della cucina lamentò una sottile fenditura sul piano del suo marmo, dovuta agli scossoni. Dopo ore arrivammo a una nuova casa, appena finita di costruire, affacciata sul mare.
Pensai che, in fondo, non era un brutto posto. Ma nella nuova casa non c’era più spazio per me. Mi sistemarono nell’angolo di un grande stanzone, senza più collegamenti per i miei tubi. Nel corridoio venne messa una grande stufa che bruciava kerosene, non più legna. Aveva anche lei un tubo, e purtroppo in casa c’era un solo foro disponibile.
Mi chiesi spesso perché non avessero messo me al suo posto: mi sentivo efficiente, avrei saputo scaldare e cucinare ancora bene. Ma non me la presi. Un po’ di riposo, pensai, forse mi avrebbe fatto bene. O cercavo di convincermene. 
Il mio padrone mi passava davanti ogni giorno, sfiorandomi con un tocco lieve. Un saluto, un ricordo. E io ero felice di questo: non si era dimenticato di me. Anche sua moglie, con lo stesso affetto, mi guardava con dolcezza.
Li sentivo parlare dei tempi passati, della loro giovinezza, quando  scaldavo e cucinavo per loro. Sorridevano. La vita, pensai, dopotutto è fatta anche così.

Vidi il figlio primogenito lasciare la casa un giorno. Tutti lo salutarono piangendo mentre saliva sulla corriera che si fermava davanti a casa. Lo rividi molto tempo dopo: indossava una divisa come suo padre e aveva dei baffetti anche lui. Venne a salutarmi e, per un attimo, vidi i suoi occhi luccicare.
Andò via anche l’altro figlio. Poi la figlia.
Il mio padrone rimase solo con sua moglie. Diventavano vecchi. Poi, col tempo, due figli tornarono nelle vicinanze: lavoravano poco lontano e si vedevano spesso. Sembrava che la vita potesse riprendere, almeno in parte, quella di un tempo. Ma qualcosa, sotto la superficie, era cambiata: i vecchi tempi non volevano tornare davvero.
Alla casa fu aggiunto un piano, ci furono trasformazioni dov’ero io.
Questa volta mi portarono fuori, sotto la tettoia del garage. Prendevo vento e, quando pioveva, talvolta qualche goccia arrivava fino a me. Ma il mio smalto porcellanato bianco resisteva. Da quel punto dominavo l’ingresso della casa, la scalinata che portava al primo piano, dove il mio padrone e sua moglie si erano trasferiti. Il piano di sotto, diviso in due appartamenti, era passato ai figli.
Da sotto la tettoia vedevo il mio padrone salire le scale, sempre più piano. I capelli  e i baffoni ormai bianchi, lo sguardo stanco. Ma non mancava mai di rivolgermi un cenno, una carezza.
Un giorno vidi salire da lui un uomo con una valigetta. Il giorno dopo vidi il mio padrone uscire in compagnia del figlio maggiore e della figlia. Avevano con sé un borsone.
Se ne andarono in macchina. Quando tornarono, lui non c’era.
Erano tutti tristi, anche sua moglie, che scese loro incontro con un passo incerto. Aveva gli occhi lucidi. Cosa era successo? Perché non era tornato con loro? Passarono alcuni mesi.
Poi, un giorno, il mio padrone tornò.
Ma era cambiato. Pallido, dimagrito, i capelli lunghi a ciuffi, camminava a stento, sorretto dal figlio maggiore. Ci mise un’eternità a salire le due rampe di scale, e così potei osservarlo bene. Penso che se ne accorse, perché si voltò e lanciò uno sguardo verso di me. Un brivido mi attraversò.
Passò un altro mese. Il mio vecchio padrone usciva raramente e sempre ben coperto. Vedevo più spesso i figli e sua moglie. Il figlio più piccolo sapevo che viveva all’estero: tornava una o due volte l’anno.
Un giorno la moglie del mio padrone scese lentamente le scale, sorreggendolo. Ogni gradino era un’impresa. Li guardai avvicinarsi.
Il mio padrone accelerò faticosamente il passo e, arrivato a me, posò le mani sui miei braccioli laterali, accarezzò gli sportelli. Sentii tutto il suo peso, la sua debolezza.
Aprì lo sportello della legna, come una volta: il gesto era lo stesso. Guardò dentro, annuì. Era come se dicesse che per lui ero ancora la stessa, che ero pronta da accendere. Anche sua moglie  annuiva, con un sorriso triste.
Poi si staccò da me, facendo  scorrere le mani sui miei fianchi, come una carezza lunga e lenta.

Il giorno dopo, mentre il figlio maggiore stava  sistemando qualcosa vicino al garage, udì un urlo della madre. Lasciò tutto e salì di corsa le scale. Sentii altre grida. Poco dopo arrivò  l’uomo con la valigetta. Uscì poco dopo, scuotendo il capo. Poi venne altra gente. Tanta.
Ero in allerta.
Quella notte, in casa, rimasero accese  tutte le luci.
Il giorno dopo arrivarono uomini vestiti di nero, che portarono una cassa di legno lucido. Venne moltissima gente; non c’era più posto in casa, nel cortile, in strada. Dalla via laterale arrivavano molte macchine, parcheggiate in fila lungo la strada che  scendeva al mare. Venne un uomo vestito di un abito lungo e viola; al suo passaggio tutti si facevano un segno sulla fronte.
Vidi la cassa uscire, portata dagli uomini in nero. Dietro c’era la moglie del mio padrone e i loro figli, tutti vestiti di nero. Piangevano.
Non vidi il mio padrone. Ma capii: era dentro quella cassa. Non poteva essere altrove.
Davanti al cancello c’erano diversi carabinieri. Accanto a loro dei vecchi con bandiere: alcuni portavano baffoni bianchi. Erano tristi. Al passaggio della cassa si levò un urlo, le bandiere si abbassarono, i carabinieri portarono la mano alla visiera del berretto con un gesto secco, solenne.
La cassa fu caricata su una lunga macchina che partì piano, seguita a piedi dalla famiglia e dalla folla.
Rimasi sola e in silenzio a lungo.
Il mio padrone se ne era andato.
Qualcosa in me si staccò, ma non ci feci caso.  Soffiò un  vento  caldo e leggero. Alcune foglie si posarono su di me, poi scivolarono lungo i miei fianchi.
In quel momento capii che cosa fosse davvero un pianto. L’avevo visto tante volte, soprattutto nei bambini, e sapevo che nasceva dal dolore.
Io non potevo piangere.
Ma quelle foglie che scivolavano su di me erano il pianto che non potevo fare.
Il mio padrone se ne era andato per sempre.
Si salveranno solo coloro che resisteranno e disobbediranno a oltranza, il resto perirà.
(Apocalisse di S. Giovanni)

Re: [Lab18] Storia di una stufa

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@Alberto Tosciri Mi devi dire come fai!
Alberto Toscirin quella cucina si mangiava allegri, si ricevevano visite, si festeggiavano i compleanni del bambino, si leggevano le lettere da casa. Ma, dopo tanta serenità, avvertii un’ombra. Una tristezza leggera. La moglie del mio padrone, a volte, piangeva. Forse era nostalgia. Li sentivo discutere.
 
Già a questo punto ho i lucciconi agli occhi.
Puoi revisionarlo, togliere qualche sbavatura ma il racconto è perfetto, piacevole, emozionante…
Se li avessi scritti io, farei una bella raccolta di tutti questi tuoi racconti con carabinieri protagonisti e ne farei una raccolta a tema. Proverei a proporla per la pubblicazione. Meritano il grande pubblico! Che Aspetti?

Re: [Lab18] Storia di una stufa

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Alberto Tosciri wrote: Alla casa fu aggiunto un piano, ci furono trasformazioni dov’ero io.
Questa volta mi portarono fuori, sotto la tettoia del garage. Prendevo vento e, quando pioveva, talvolta qualche goccia arrivava fino a me. Ma il mio smalto porcellanato bianco resisteva. Da quel punto dominavo l’ingresso della casa, la scalinata che portava al primo piano, dove il mio padrone e sua moglie si erano trasferiti. Il piano di sotto, diviso in due appartamenti, era passato ai figli.
Questa mi sembra l'unica nota stonata del tuo bellissimo racconto. 
Perché fare sistemare gli anziani genitori al primo piano, con la scalinata, e il pianterreno ai figli? Non sarebbe stato più
agevole per loro, anche in prospettiva, non servirsi delle scale?
Alberto Tosciri wrote: Qualcosa in me si staccò, ma non ci feci caso.  Soffiò un  vento  caldo e leggero. Alcune foglie si posarono su di me, poi scivolarono lungo i miei fianchi.
In quel momento capii che cosa fosse davvero un pianto. L’avevo visto tante volte, soprattutto nei bambini, e sapevo che nasceva dal dolore.
Io non potevo piangere.
Ma quelle foglie che scivolavano su di me erano il pianto che non potevo fare.
Il mio padrone se ne era andato per sempre.
Perché non far accompagnare le foglie dalla pioggia?

Comunque grazie, @Alberto Tosciri , per questo racconto narrato da una stufa: una calda, amorevole stufa a legna dei bei tempi andati. Grazie.  :love:
Di sabbia e catrame è la vita:
o scorre o si lega alle dita.


Poeta con te - Tre spunti di versi

Re: [Lab18] Storia di una stufa

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Grazie @Albascura, lusingato.
Albascura wrote: Se li avessi scritti io, farei una bella raccolta di tutti questi tuoi racconti con carabinieri protagonisti e ne farei una raccolta a tema. Proverei a proporla per la pubblicazione. Meritano il grande pubblico! Che Aspetti?
Ne ho scritti alcuni, anche nel WD.  Ma non andrebbero. Quel mondo è finito. Quello di oggi non è la stessa cosa.
Sai perché non andrebbero? Ho letto ieri su alcuni giornali, ma è solo l'ennesimo fendente, che una famosa università italiana, una delle più antiche, ha respinto l'iscrizione ai suoi corsi di filosofia, dico filosofofia, di giovani ufficiali dell'Esercito. Il motivo? Per non "militarizzare" la scuola.
https://www.today.it/politica/bocciato- ... logna.html
In una società così, che la pensa così, ha un senso pubblicare storie di uomini che vestono un'uniforme, uomini normali, che vogliono vivere in una società normale, sana, apportando magari il contributo, i ragionamenti della filosofia?
Penso che sarebbe problematico. Ma ti ringrazio, davvero tanto, per la considerazione.
Poeta Zaza wrote: Perché fare sistemare gli anziani genitori al primo piano, con la scalinata, e il pianterreno ai figli? Non sarebbe stato più agevole per loro, anche in prospettiva, non servirsi delle scale?
Hai pienamente ragione. Magari all'epoca, pur essendo anziani i genitori potevano ancora salire le scale, seppure non a tre gradini alla volta... In ogni caso, ti assicuro, che il figlio maggiore avrebbe fatto volentieri il cambio con il suo appartamento a piano terra. Non ne ha avuto il tempo.
Poeta Zaza wrote: Perché non far accompagnare le foglie dalla pioggia?
Era giugno, anche se non l'ho scritto. E poi, se avesse piovuto, avrebbe potuto disturbare il corteo a piedi che seguiva il carro funebre per andare alla chiesetta, distante circa cinquecento metri scarsi.
Quel giorno non ci fu pioggia dal cielo. Solo dagli occhi.  Lo so perché io ero in prima fila.
Grazie per aver letto @Poeta Zaza  
Si salveranno solo coloro che resisteranno e disobbediranno a oltranza, il resto perirà.
(Apocalisse di S. Giovanni)

Re: [Lab18] Storia di una stufa

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Alberto Tosciri wrote: Solo dagli occhi.  Lo so perché io ero in prima fila.
Lo avevo capito! avevo riconosciuto quel cortile, non ho detto nulla nel mio commento, ma dalla partenza dal nord era chiaro. Un racconto tenerissimo.
Alberto Tosciri wrote: In una società così, che la pensa così, ha un senso pubblicare storie di uomini che vestono un'uniforme, uomini normali, che vogliono vivere in una società normale, sana, apportando magari il contributo, i ragionamenti della filosofia?
No, non sono d'accordo. C'è chi apprezza la letteratura della memoria. Il premio Neri Pozza è quello che fa per i tuoi racconti. È un concorso letterario serio. Premia gli esordienti e le storie come le tue. Devi provarci!

https://neripozza.it/blog/431/bando-vii ... del-premio
leggi il bando, guarda cosa pubblicano, chi sono e chi era Neri Pozza, Vedrai che ci ripensi.

Non sono ammesse raccolte di racconti al concorso, ma puoi mandare un manoscritto come proposta editoriale, o mettere in fila i racconti come episodi della stessa storia.

Re: [Lab18] Storia di una stufa

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@Alberto Tosciri 
l'ho letto in fretta, dopo lo leggo meglio.
OT
E tu daresti attenzione a quello che fanno le università? Naaa sbagli, l'università non è la società.
E comunque se il livello percettivo e di comprensione è basso là fuori questo non vuol dire che ciascuno di noi non debba fare qualcosa, nel suo piccolo, per contrastare il fenomeno.
Anni fa non avrei saputo come spiegartelo, ma oggi, con la testa un po' inficiata da filosofie orientali te lo potrei più o meno spiegare in questo modo: noi come individui abbiamo delle sorte di software che ci fanno funzionare, uno di questi software è l'espressione verso l'esterno. Se tu la blocchi questa è una forza che in qualche modo deve uscire. Se la soffochi non solo la danneggi, ma anche porti dei danni al tuo organismo, danni a livello di salute. Quindi perché trattenere quello (di valore) che si ha dentro? Perché non si riscontra l'approvazione altrui (di chi tra l'altro non ci conosce e non sa il nostro vissuto)? E' un errore.

Re: [Lab18] Storia di una stufa

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@Strikeiron

In effetti, per vivere, ho dovuto scoprire molto presto nella mia vita, inizialmente da solo e poi addentrandomi nella patristica, in S. Paolo e in S. Agostino, che dovevo cercare solo dentro me stesso qualcosa di più grande degli avvenimenti che accadevano all'infuori di me.
Si salveranno solo coloro che resisteranno e disobbediranno a oltranza, il resto perirà.
(Apocalisse di S. Giovanni)

Re: [Lab18] Storia di una stufa

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@Alberto Tosciri ciao. In noi esti faendi unu friusu de si morri! Sarei felice di avere la tua stufa economica in casa  :D
A parte gli scherzi, qui al nord la stufa per cucinare e scaldare la chiamano putagé. Molte case ce l'hanno e le donne di una certa età non se ne liberano neanche se gliela paghi oro. Figurati la polenta fatta scaldare su di un fornello a gas: sarebbe un sacrilegio! :D

La storia ha la sua originalità nella sua voce narrante, la stufa smaltata. Noto il tono colloquiale che essa riesce a imprimere sulla narrazione della famiglia che la adottò. Certo, è il punto di vista della stufa che attira e la sua capacità a comprendere la vita. Insomma, gli oggetti di casa se potessero parlare chissà quanto avrebbero da dire...  Sono sincero però, mi aspettavo da te qualcosa di originale dal punto di vista sociale. Qualcosa secondo l'ottima intimistica che spesso sai tirare fuori. Credo che questa stufa sia esistita veramente e che faccia parte dei tuoi ricordi belli e brutti..
Ciao a si biri
Viaggio sconsolato tra i ricordi dello Stato.
Tratti di pioggia sopra Auschwitz. Tra oblio e orgoglio.
Io malata in fuga.

Re: [Lab18] Storia di una stufa

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Ciao @bestseller2020 grazie del commento.
So che al nord quel tipo di stufa economica si chiama putagè, preso dal francese e adottato nel vecchio Piemonte. È tipico di quei luoghi, i miei lo sapevano, ma la chiamavano solo stufa. Erano rimasti molti anni in Piemonte, mio padre tantissimo, anche prima di sposarsi e parlava il dialetto di Cuneo e dintorni, tanto che d'estate, in spiaggia, si metteva a parlare con i turisti piemontesi, che pensavano fosse un turista anche lui.
bestseller2020 wrote: Sono sincero però, mi aspettavo da te qualcosa di originale dal punto di vista sociale.
Penso che solleverei una Little House (una piccola casa, un casino insomma...). Questo presente, gli uomini che ci vivono e che ci rappresentano, mi hanno profondamente deluso. Non che il passato fosse rose e fiori, ma almeno avevi una speranza in un domani. Oggi neanche quella. Perciò mi rifugio a raccontare il passato.
Qua da me il degrado non è ancora totale, ma si stanno dando da fare tutti per accelerarlo, con grande determinazione. 
Si salveranno solo coloro che resisteranno e disobbediranno a oltranza, il resto perirà.
(Apocalisse di S. Giovanni)

Re: [Lab18] Storia di una stufa

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Ciao, @Alberto Tosciri ho molto apprezzato questo tuo racconto. Anch’io ho avuto una cucina economica: ci cuocevo di tutto, perfino il pane nel suo piccolo forno. Ma con il pentolone di fagioli o il ragù era il top. Forse per questo ho sentito subito la delicatezza e la verità di questo racconto, che ha il sapore caldo delle cose semplici e il tono lieve delle fiabe ben raccontate.
La scelta di dare voce a una stufa economica è sorprendente e riuscitissima. La narratrice non è mai caricaturale né eccessivamente umanizzata: conserva la concretezza della sua natura di metallo, smalto, ghisa, eppure diventa uno sguardo capace di cogliere la parte più intima della vita familiare. È una testimone di calore, fisico ed emotivo, e questo le permette di esprimere sensazioni compatibili con la sua esistenza non umana: vibrazioni, scricchiolii, variazioni di peso e temperatura.
Attorno a questa stufa si accende, letteralmente, l’intera vita domestica: i pasti, i bagni dei bambini, le feste improvvisate, i ritorni serali, gli addii. Con il passare degli anni, la sua presenza silenziosa accompagna traslochi, cambiamenti, nostalgie, trasformazioni sociali. E proprio attraverso questi spostamenti geografici e affettivi, dal sud al nord e viceversa, dalle caserme ai paesi, dalle cucine povere alle abitazioni più moderne, si compone un mosaico di radici, identità e migrazioni interne che richiama, senza mai dichiararlo, un tratto tipico della storia italiana del dopoguerra. 
Il ritmo narrativo è lento e disteso, come il respiro stesso della stufa, un respiro che attraversa stagioni, generazioni, case diverse. 
Il racconto si apre con la pensione della stufa e si chiude con un’altra forma di pensione, quella definitiva, del suo padrone. Questa simmetria conferisce al racconto un equilibrio sottile. Nella parte finale il tono cambia con grande sensibilità. La malattia e la morte del padrone non vengono mai rappresentate in modo diretto o melodrammatico: la stufa non alza la voce, non grida, non si concede lacrime, non le può avere. La sofferenza passa attraverso i particolari: i passi lenti sulle scale, la mano che indugia sul metallo, il silenzio della notte con tutte le luci accese. E quando il padrone non c’è più, sono le foglie portate dal vento a scivolare sullo smalto della stufa: sono il pianto che lei non può fare. Un’immagine semplice, poetica. Lo stile complessivo è limpido, lineare, privo di artifici. È una narrazione che non ha bisogno di alzare la voce per colpire: lascia parlare gli oggetti, le stanze, i gesti ripetuti negli anni.
In definitiva, un racconto asciutto e struggente, capace di trasformare una stufa economica in un archivio di memorie, in un oggetto che custodisce e restituisce ciò che spesso gli esseri umani dimenticano.
Bello.
A presto

Re: [Lab18] Storia di una stufa

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Un racconto caldo e rassicurante @Alberto Tosciri . La mia famiglia aveva una stufa simile che ora, in disuso, si trova in un garage e, nonostante occupi un bello spazio inutilmente, ti assicuro che non riesco a liberarmene: è parte viva dei miei ricordi. Grazie alle tue descrizioni ho rivissuto una parte delle mia infanzia. L’acqua calda della vaschetta (nella quale per le feste si mettevano scorze di arancia e chiodi di garofano che sprigionavano l’odore delle feste) Le stecche del tubo aperte coi panni umidi ad asciugare. Su quelle stecche, i miei attaccavano le calze della Befana (non avendo il camino, mi dicevano che era scesa dal tubo!). Senza contare che anche mio padre era un poliziotto. 
Tutto questo per dirti che, come sempre, i tuoi racconti mi portano proprio lì, dove tu descrivi con tanta sapienza e garbo. E la tua voce d’autore si sente forte e chiara anche se, in questo caso, viene veicolata in modo originale da un oggetto. Grazie!

Re: [Lab18] Storia di una stufa

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@Alberto Tosciri 
Mi sono commossa, tanto.
Ho pensato alla mia cucina economica che utilizzavo fino a dieci anni fa. Al calore diverso da quello dei radiatori. Alle sudate fatte mentre preparavo la polenta o un arrosto, ma le cose cotte sopra ad un fuoco di legna sono tutta un'altra cosa. Sogno appena possibile di rimetterla in funzione, perché è ineguagliabile.
Per quanto riguarda il tuo racconto non posso farti altro che complimenti. L'arco di una vita descritta dal punto di vista di una stufa che occupa il posto centrale nel cuore della casa: la cucina.
I personaggi sono accennati, ma ciò nonostante ben delineati. È una famiglia semplice e serena, con i suoi alti e bassi. Mi piace la sensazione di orgoglio della stufa che si sente partecipe della crescita e dello sviluppo dei ragazzi, della compagnia che fa alla famiglia, consapevole che il suo calore è diverso: assomiglia un po' a quello degli abbracci. Hai descritto in modo struggente, ma non appiccicoso la relazione fra il padre e la stufa, quel modo di accarezzarla che in realtà è il modo di chi ripensa al proprio passato con piacere e forse un pizzico di nostalgia, non perché nel presente stia male, ma perché il tempo passa per tutti e alle volte vorremmo fermarlo in un preciso istante per assaporare meglio quei momenti.
E che tenerezza l'ultimo saluto nella consapevolezza di essere un oggetto e nonostante questo sentire un dolore che non trova sfogo.
Sono d'accordo con chi ti dice di pubblicare una raccolta di racconti, non importa che le cose non siano più come una volta, che sia difficile sognare il futuro, quello che conta è lanciare un seme che permetterà ad altri forse di immaginarsi un futuro migliore, magari meno spettacolare, ma pieno di affetto e di amore.
Grazie Alberto

Re: [Lab18] Storia di una stufa

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@Alberto Tosciri il tuo è uno di quei racconti che "scaldano" il cuore, perché è vero, ci sono oggetti che accompagnano la nostra esistenza, ci affiancano nel nostro percorso di vita, rimangono importanti e indimenticabili; ci ricorderanno per sempre i te nostri tempi migliori.
Alberto Tosciri wrote: Un giorno avvertii un grande movimento. Degli uomini vennero a prendermi, insieme a tutti i mobili. Mi caricarono su un camion. Durante il lungo viaggio cercai invano di sapere qualcosa dai miei compagni: anche loro erano sbalorditi e scossi. Poi, dopo ore, salimmo su una nave. Il viaggio fu un incubo. Scricchiolai nelle mie giunture per tutta la notte, sballottata dalle onde.
E il mio padrone? Perché non era con noi? Mi aveva abbandonata
Qui avevo avuto l'impressione che l'uomo fosse già morto e, non essendo così, non ho capito bene il perché di questa scelta. 
Il racconto descrive bene la nascita e la vita della famiglia fino all'epilogo, mentre la stufa è il fulcro intorno al quale accade. 
Bravo, piaciuto.

Re: [Lab18] Storia di una stufa

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Hai una prosa asciutta ed elegante. La storia è semplice, semplicissima, quasi banale. Ti è bastato cambiare il punto di vista per rivoltare il modo di vedere le cose di chi legge. Il limite (insito nella trasformazione della stufa in un essere vivente) mi pare quello di aver trasformato il racconto in una sorta di fiaba triste. Triste perché si conclude con la morte del carabiniere che per primo ha acquistato la stufa/cucina economica. Fiaba perché il racconto presenta quasi tutti gli elementi strutturali di una fiaba. 
E comunque, i miei complimenti.  

Re: [Lab18] Storia di una stufa

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@Alberto Tosciri

Come promesso. Il tuo racconto mi ha ricordato moltissimo quel libro di Garcia Marquez, Cent'anni di solitudine. Ovvero una storia di generazioni, vista però attraverso la stufa (e quindi il realismo magico).
A parte questo non è che si possa dire molto: è un ottimo racconto. Se proprio volessi fare la punta al..la matita potrei scriverti che andrebbe tagliato un po', ma la sua bellezza sta nell'atmosfera e quindi devi vedertela tu con il tuo testo. Auguri! (Almeno per me il rapporto con i testi che scrivo è parecchio problematico, non so per altri!)
A rileggersi.

Re: [Lab18] Storia di una stufa

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@Kasimiro
Kasimiro wrote: È una narrazione che non ha bisogno di alzare la voce per colpire: lascia parlare gli oggetti, le stanze, i gesti ripetuti negli anni.
In definitiva, un racconto asciutto e struggente, capace di trasformare una stufa economica in un archivio di memorie, in un oggetto che custodisce e restituisce ciò che spesso gli esseri umani dimenticano.
Ti ringrazio del commento e dell’apprezzamento. Ho pensato che poteva essere interessante raccontare la semplice storia di una famiglia vista con gli occhi della loro stufa economica che li ha seguiti per tutta la vita. Penso che si possa fare anche, in una sorta di dialogo immaginifico, con un’infinità di altri oggetti.



@Monica
@Monica wrote: i tuoi racconti mi portano proprio lì, dove tu descrivi con tanta sapienza e garbo. E la tua voce d’autore si sente forte e chiara anche se, in questo caso, viene veicolata in modo originale da un oggetto. Grazie!
Ti ringrazio davvero tanto per il tuo bellissimo apprezzamento.



@Almissima
Almissima wrote: Mi sono commossa, tanto.
Anche io mentre lo scrivevo, perché è autobiografico.
Avrei voluto scrivere di più, approfondire, ognuno di noi ha un’infinità di ricordi della sua infanzia, della sua vita, ma certo non avevo tutto quello spazio a disposizione.
Storie semplici, senza avventure eclatanti, ma per me questo genere di vite, trasposte sulla carta, vite comuni, hanno un grandissimo fascino, unite alla nostalgia.
Grazie per il tuo apprezzamento.



@Adel J. Pellitteri
Grazie per il tuo apprezzamento. Penso che le storie comuni, i piccoli oggetti abbiano un enorme fascino, una loro linea di “avventura” del tutto particolare. Proust era un maestro in cose del genere.
Non si dovrebbe tralasciare niente di una vita comune. Alla fine si conterebbero migliaia di pagine e non basterebbero ancora. Fantastiche odissee.

Adel J. Pellitteri wrote:
Qui avevo avuto l'impressione che l'uomo fosse già morto e, non essendo così, non ho capito bene il perché di questa scelta. 
Il racconto descrive bene la nascita e la vita della famiglia fino all'epilogo, mentre la stufa è il fulcro intorno al quale accade. 
Bravo, piaciuto.
La stufa ragiona quasi come un animale domestico, un cagnolino, che anche quando il padrone lo lascia per un attimo fuori da un negozio, rimane in apprensione in attesa del suo ritorno e talvolta piange, pensando di essere stato abbandonato.

@Arturo Ligotti
Ti ringrazio tanto per il tuo commento e per l’apprezzamento. Come ho sempre detto, spesso le cose più semplici della vita sono le più belle da vivere e da raccontare. La quotidianità, tempi felici che permangono per sempre nel ricordo, con grande nostalgia. Penso che molte persone darebbero qualsiasi cosa per tornare indietro nel tempo e rivivere quei momenti.
Non è detto che non si possa fare.

@Strikeiron
Ti ringrazio. Hai citato Marquez, uno scrittore che amo moltissimo, predo spunto e cerco di immergermi nel suo realismo magico, adattandolo però nella mia chiave mediterranea, assieme a quello di Borges e di Buzzati.
Ti do ragione sull’opportunità del tagliare, volevo farlo ancora di più, ultimamente tendo ad “accorciare”, per quanto sia sempre restio a farlo, ma occorre giocoforza in molti casi.
Si salveranno solo coloro che resisteranno e disobbediranno a oltranza, il resto perirà.
(Apocalisse di S. Giovanni)

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