[Lab18] (Erostrato) Novantasei ore di luce

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(Erostrato) Novantasei ore di luce


Le feste di compleanno che organizzava mia madre erano isole di cartone: scherzi maligni che duravano il necessario per mettersi in mostra.
— Si festeggia insieme. Sarà una bellissima festa. Se la ricorderanno tutti i nostri amici. 
Le candeline tossivano luce, e quella volta il nome sulla torta non era il mio.
Nessuno mi aveva chiesto se volessi essere festeggiato insieme a mio cugino. 
E il suo nome, non il mio, tremolava sulla panna: “Buon compleanno Andrea”, io ero il margine, un dettaglio sfocato.
Avevo sei anni.
Il pavimento del salone era una mappa di briciole, il divano era un continente in ombra. Sul bracciolo c’era un odore sottile di polvere calda, di fibre consumate. E poi lo vidi: un buchino nella trama.
Piccolo, solo un gioco di luce. Accarezzai la stoffa con il polpastrello e fu come toccare il pelo di un animale che dorme. Il disegno era una città di strade parallele, e in mezzo, la fuga. Spinsi il dito nel buco.

Le voci arrivavano lontane e felici. Io ero rifugiato in un posto inclinato dove la luce si sposta e ti nasconde. Il dito scivolò dentro, fece strada al secondo dito e la struttura cambiò verso, si fece gola. Avvertii un lieve schiocco. L’ordito si aprì. C'era un bagliore di polvere volante. Il buco cresceva, non troppo, ma tanto bastò: Il terzo dito esplorò l'imbottitura.
Lo strappo definitivo esplose nella stanza e tutti si accorsero di me. 
La mano di mia madre arrivò, rapida e calda, e si posò sul mio polso.
 — Matteo! Che stai facendo?— La domanda era un faro puntato sul mio viso. Ero illuminato. Colpevole, sì, ma per la prima volta, presente.
L’intreccio cedette ancora, un millimetro, un niente. Ma quel niente fu determinante. Il rimprovero mi scivolò addosso: uno scroscio di pioggia prevista. 
—Non si fa, non si tocca, guarda cosa hai combinato. 
Mi morsi l’interno della guancia. Gli adulti, allarmati, parlavano di punizioni. Io, dentro, parlavo a modo mio. 
Oggi parlo di peso specifico: quanto pesa un bambino quando lo si guarda davvero? E quanto il fastidio degli adulti? E i miei pochi grammi di notorietà? Avevano una consistenza o solo leggerezza?
Non piansi. Qualcosa dentro di me registrò: il pianto è inutile. La colpa è un microfono acceso e un nome non esiste finché non ferisce.
La festa continuò. Le foto, i regali, i saluti. Tutto scivolò via, dimenticato.
Tranne quel gesto che nel tempo diventò un regno. Il mio nome si guadagnò la sua definizione: “quello che ha rovinato il divano della zia.” Non era elegante, ma era il mio profilo. Lo tenni stretto, come un seme.
Poi fu un germoglio di consapevolezza piena fino ad oggi.


E non mi stupisco quando Il giornalaio non mi saluta. Le mani gli scorrono sui quotidiani, tutti quei nomi stampati. E non si ricorda il mio.
Ho all’attivo sessant'anni di invisibilità trascorsi a limare gli sguardi e a vedere gli occhi degli altri scivolare via, cercare qualcun altro oltre la mia spalla.
Una vita spesa negli uffici comunali: pratiche, conflitti sedati, firme. Mai una promozione. Non perché non la meritassi, ma perché ero già fuori dalla mappa. Collocato nell'angolo sbagliato, tra scrivanie e intenzioni, ero già trasparente.
Cammino per la città. Non saluto, non cerco nessuno.
Ma a volte basta poco per riaccendere quel filamento, lo stesso che si accese quando il bracciolo si aprì. Un commento fuori luogo alla fermata del bus. Un silenzio troppo lungo al bancone del bar. Un qualsiasi gesto minimo che inceppa la routine e qualcuno si volta.
La quiescenza è arrivata a tradimento, non ero pronto. La pensione è una stanza vuota che chiamano tempo libero. Il tempo se ne va. Io resto e penso.

Studio le abitudini della città, passeggio per le strade, mi fermo volentieri a Piazza Maggiore, osservo le persone vive gioire del sole, della compagnia dei propri simili. Mi rallegro per loro perché ancora non sanno.
Scelgo il giorno. Lo giro in bocca, ne assaggio il peso. Alcuni giorni sono troppo morbidi. Altri hanno la consistenza giusta. Una data, un’ora precisa e un luogo, prima di tutto di questo ho bisogno. 
Poi il metodo. Il metodo è basilare, ci vuole disciplina. 
Torno a casa, preparo il caffè.
Esco sul terrazzo, osservo il panorama che si gode dal terzo piano. Costruisco un ponte mentre sorseggio la bevanda calda. C’è un vuoto nel punto esatto dove sarò. Ci tengo che il ricordo resti. 
Entro in casa. Provo la scena davanti allo specchio. Il mio volto è calmo. Gli occhi sono quelli di un uomo che ha aspettato tutta la vita. 
— Piazza Maggiore, domenica 9, ore dodici. Lo dico ad alta voce. La vibrazione del tono è perfetta. Penso a come sarà dopo, solo un momento, poi lascio cadere la visione, non è il momento di pensarci. Non devo rischiare, la clemenza non fa parte della strategia. 
Sono passati tre giorni dalla decisione definitiva, oggi è un giorno speciale, domani si compirà il gesto. Voglio festeggiare. Mi verso un dito di cognac e esco diretto verso la pasticceria, un piccolo sgarro alla dieta in un giorno come questo ci sta.
Stamattina piazza Maggiore è gremita. Una decina di turisti siede sul bordo della monumentale fontana, allineati come spettatori in platea. 
Davanti a loro il palazzo comunale si alza come un fondale scenico, con le finestre che paiono logge e i balconi palchi laterali. 
Io resto fermo al centro della piazza: il lastricato sarà il mio palcoscenico. Osservo le telecamere di sorveglianza con approvazione. 
L’avessi fatto oggi! 
Durante il ritorno a casa mi sorprende una tristezza improvvisa: vivo qui da sempre e ogni via di questa città mi ha visto crescere, i ricordi si accavallano. Ricordi di gente, mio padre, mia madre…poteva essere diverso da così? Ci penso con discernimento. Sulle scale, prima di aprire il portone, ho la risposta: no, non è esistito nulla che non portasse all’epilogo di domani.
Spunto le faccende fatte sulla lista strategica, sistemo con cura ogni dettaglio, vado avanti fino a quando non mi coglie il buio, chiudo le finestre, e mi preparo per una lunga notte. La mia disciplina mi impone alcuni rituali che stasera mi sembrano inutili, ma non transigo e svolgo ogni compito con certosina precisione. A letto il sonno non arriva, un dormiveglia tormentato dura per un tempo infinito. Poi l’incubo che non ricordo e che mi sveglia di soprassalto. È l’alba 

Prima di uscire, mi siedo in cucina. Immagino di essere in chiesa, immagino di essere come tutti gli altri che si svuotano dei peccati in un solo colpo succhiando l’ostia. 
Sorrido al mio pensiero di redenzione. Non mi serve.
Non tremo.
La mattina è chiara. L'aria ha quella qualità di vetro che hanno certi giorni di primavera.
Cammino verso la piazza con la borsa a tracolla. 
Piazza Maggiore. Undici e quaranta.
La piazza è un formicaio. Un gruppo di turisti giapponesi fotografa il palazzo comunale. Una classe di bambini attraversa in fila indiana, le maestre li contano. Tavolini dei bar tutti occupati. Piccioni che beccano briciole. Un venditore di palloncini. Una coppia che si bacia vicino agli schizzi d’acqua.
Mi siedo su una panchina. La borsa tra i piedi. Respiro lentamente.
Undici e quarantacinque.
Una bambina con un gelato corre verso il centro della piazza. La crema le cola sulla mano. Ride. Ha un viso dolce, capelli mori e ricci le inondano le spalle e la maglietta rosa. Scarpe con le lucine che si accendono a ogni passo. Dietro di lei, il padre con la macchina fotografica al collo.

— Emma, aspetta. Fermati, voglio farti una foto.

Ha sei anni, forse sette. La guardo mentre si avvicina al bordo della vasca e si china a guardare l'acqua. Il padre si ferma tre metri dietro di lei. Inquadra. Sorride. Anche sua figlia ride. Il gelato continua a colare lungo l’avambraccio.
Mi alzo. Cammino verso di loro.
Prima di arrivare, alzo lo sguardo. La telecamera è lì, sul palo della luce, angolo nord-ovest della piazza. L'ho studiata per settimane. So esattamente dove punta.
Mi fermo. Guardo dritto verso l'obiettivo. Tre secondi. Voglio che il mio volto sia ben inquadrato. Voglio che non ci siano dubbi che sono io.
Poi cammino lentamente e mi posiziono davanti alla seconda telecamera, quella sul palazzo comunale. Di nuovo mi fermo. Guardo l'obiettivo. Altri tre secondi.
Appoggio la borsa alla base marmorea, sul lato est, la spingo col piede più in fondo che posso. Mi volto un'ultima volta verso la piazza. Verso tutta quella vita.
Mi inginocchio. Faccio finta di allacciare le scarpe. In realtà controllo e guardo la terza telecamera, quella della banca. Le do il mio profilo. Voglio che mi vedano da ogni angolazione.
Mi rialzo. Guardo un'ultima volta la telecamera del palazzo comunale. Sorrido. Un piccolo sorriso, quasi impercettibile. Ma so che lo vedranno. Quando rivedranno i filmati, lo vedranno.
Mi allontano. Venti passi. Trenta. Cinquanta.
Mi volto.
Emma è ancora lì, intorno ai giochi d’acqua. Il gelato è quasi finito. Il padre le dice qualcosa. Lei annuisce. Si asciuga le mani sulla maglietta. 
Un piccione si posa sul porfido scuro, lo osservo beccare vicino alla borsa. Poi vola via.
Undici e cinquantacinque.
La classe di bambini si è fermata davanti al palazzo comunale. La maestra spiega qualcosa. Indica le finestre. Loro guardano in alto, annoiati. Uno si gratta il naso. Una bambina con le trecce si china ad allacciare le scarpe.
I turisti giapponesi si sono spostati vicino agli zampilli che fuoriescono dalle bocche dei delfini. Fanno foto di gruppo. Sorridono. Dicono:
— Cheese
La coppia si è seduta sul bordo del bacile. Lui le tiene la mano. Lei appoggia la testa sulla sua spalla.
Il mondo è pieno. Denso. Vivo.
Io sono l'unica cosa ferma.
Undici e cinquantotto.
Emma si è allontanata. Corre verso il padre. Le lucine delle scarpe lampeggiano rosso, blu, rosso, blu. Il padre la prende in braccio, la bacia sulla guancia.
— Facciamo ancora una foto?
Si girano. Iniziano a camminare verso il lato opposto.
Si avvicinano alla borsa.
Guardo l'orologio.
Trenta secondi.
Venti secondi.
La maestra chiama i bambini.
— Forza, ricomponiamo la fila. Adesso andiamo a vedere la biblioteca.
I bambini si raggruppano. La bambina con le trecce è ancora china sulle scarpe.
Dieci secondi.
Emma e il padre sono fermi. Lui sta inquadrando e lei ride. Sono a pochi centimetri dall’epicentro.
Cinque secondi.
Chiudo gli occhi.
Tre.
Due.
Uno.

Il suono è sbagliato. Non è un'esplosione come nei film. È più secco. 
Poi il silenzio. Un secondo intero di silenzio dove la piazza trattiene il respiro. I piccioni volano via, uno stormo impazzito. L'allarme di un'auto inizia a suonare. Poi un secondo, un terzo.

Poi le grida.

Il fumo sale denso, nero. Bellissimo il contrasto con gli schizzi d’argento illuminati dal sole.
I turisti giapponesi non ci sono più. Dove erano, adesso c'è solo fumo e forme che non voglio distinguere.
La coppia è a terra. Lui sopra di lei, non si muovono.
Il venditore di palloncini è in ginocchio. Urla, i palloncini sono macchie colorate nel cielo azzurro.
La bambina con le trecce è seduta. Guarda le sue mani. Sono rosse, non capisce. Continua a guardare le sue mani.
La maestra urla nomi.
— Marco! Sofia! Luca! 
alcuni bambini rispondono, altri no.
Il fumo continua a salire.
Io sono fermo. A cinquanta passi. Osservo.
Sirene in lontananza.
Un bambino piange. È uno della classe, è illeso ma piange forte, con la bocca spalancata.
Guardo tutto questo e penso: è successo. l'ho fatto succedere.
Io ho creato questo momento. Prima non esisteva. Ora esiste. Ed esisterà per sempre.
Un uomo mi passa accanto correndo, ha il volto coperto di lacrime e polvere, mi spinge senza vedermi.
Mi allontano, lentamente. Vado contro il flusso delle persone che corrono verso la piazza. Nessuno mi ferma, nessuno mi guarda.

Torno a casa. Mi tolgo le scarpe, vado a farmi un caffè.
Accendo la televisione.
Ci vogliono trentacinque minuti prima che arrivi la notizia sulla rete locale. Le immagini aeree della piazza. L'elicottero che riprende dall'alto. Il fumo, le ambulanze, i corpi coperti da teli.
—Strage in Piazza Maggiore,— La voce della giornalista trema.
 —Un ordigno esplosivo. Si parla di almeno quattordici vittime. Decine di feriti.
Cambiano inquadratura. La piazza vista da terra, parte della fontana distrutta. L'acqua, che continua a scorrere oltre i bordi spezzati, si tinge di rosso
—Atto terroristico. 
—Attacco premeditato. La polizia sta esaminando i filmati delle telecamere di sorveglianza.
Mi verso un altro caffè, esco sul terrazzo. Si vede e si sente il trambusto in città; Sirene, elicotteri, voci amplificate. È più di quanto immaginassi. Ora devo solo aspettare.
Passano ore. Continuano a trasmettere le stesse immagini. Le stesse frasi. 
—Tragedia.
— Orrore.
— Strage.
Non ho dormito, ma stamattina, finalmente, sulle sulle reti nazionali ascolto la notizia che volevo sentirei:
— La polizia ha diffuso l'immagine dell'uomo ripreso dalle telecamere mentre posizionava l'ordigno. Se qualcuno lo riconosce è pregato di contattare immediatamente le autorità.
Sullo schermo appare la mia faccia. Il momento in cui guardavo la telecamera del palazzo comunale.
Il mio volto riempie lo schermo, un brivido di calore mi attraversa, è piacere puro. 
— L'uomo,— continua la giornalista,
—si è fermato più volte davanti alle telecamere. Sembra che volesse essere ripreso.
Un moto di approvazione mi pervade.
Lo schermo cambia. Adesso trasmettono la sequenza: io che cammino verso la fontana. Io che mi fermo. Io che guardo la telecamera. Io che appoggio la borsa. Io che sorrido, Emma che corre sullo sfondo. 
— Un comportamento agghiacciante,— dice l'esperto. — L'attentatore voleva essere riconosciuto.

Le manette arrivano cinque ore dopo la diffusione delle immagini.
Sfondano la porta. Mi trovano seduto al tavolo della cucina. Mi portano via in silenzio, in macchina nessuno parla.
In centrale mi fanno sedere in una stanza bianca. Un tavolo. Due sedie. Una telecamera nell'angolo. Perdo la cognizione del tempo, le ore passano. Nessuno mi da mie notizie. Mi rinchiudono in una cella, il tempo si è fermato.  
Aspetto. 


Non so che giorno sia, mi portano in una stanza senza finestre, sopra un tavolo c’è una bottiglia d’acqua e un bicchiere, mi ricordo che ho sete. Entra un uomo. Quarant'anni, forse cinquanta. Capelli grigi, occhi stanchi: si siede davanti a me. Appoggia una cartellina sul tavolo. La apre, poi ci ripensa. 
Non parla subito. Mi guarda. Forse aspetta che sia io a dire qualcosa.
Non ho nulla da dire.
Lui è nervoso. Io resto calmo. Poi parla.
— So che tipo sei. Quindi non perdiamo tempo.
Appoggia le mani sulla cartellina.
— Parliamo di te. Di quello che volevi. Visibilità, giusto? Volevi che il mondo ti guardasse.
Non rispondo.
— Bene. Ti do una notizia. Dal momento in cui la tua faccia è apparsa in TV, il Governo ha emanato il decreto d'emergenza. Tutela della memoria delle vittime. Articolo 7: è vietato pubblicare nome, cognome, foto dell'attentatore. Tu sei già illegale.
Si sporge in avanti.
— Capisci? Il tuo nome diventa illegale. Per rispetto delle vittime.
Sento qualcosa stringersi nel petto.
— E sai cosa succede dopo? Diventi un numero Un codice negli archivi della polizia.
Mi guarda negli occhi. Io non abbasso lo sguardo, posso sostenere ben altro.
— Che giorno è oggi? lo chiedo a voce bassa, spero in una risposta fredda e breve.
— Giovedì. Tra poche ore torni ad essere quello che eri: nessuno.
Si alza. Prende la cartellina.
— Le vittime invece avranno targhe, borse di studio, panchine con i loro nomi. Ogni anno, il 9 maggio, qualcuno li dirà ad alta voce quei nomi. Marco, Lucia, Paolo. Tutti e quattordici. Tu?
Si ferma sulla porta.
—Tu non esisti più.
La porta si chiude.

Piango, non doveva andare così, non era per questo che ho ricostruito la mia identità.  
Sessant’anni di invisibilità. Novantasei ore di luce. Poi di nuovo l'ombra.
Sul muro della cella, incido il mio nome ogni giorno.
Qualcuno lo cancella ogni settimana.
Io lo riscrivo.

Re: [Lab18] (Erostrato) Novantasei ore di luce

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Ciao @Albascura, il tuo racconto mi è piaciuto davvero tanto, così tanto che è difficile trovare qualcosa da dirti.

Parto dal farti i complimenti per come fai crescere, rigo dopo rigo, parola dopo parola, l'empatia e l'immedesimazione con questo personaggio. All'inizio il lettore prova pena, tenerezza, si affeziona. Io inizialmente pensavo si volesse suicidare davanti a tutti, e sono rimasta scioccata quando ho capito che cosa voleva fare davvero. Immagino fosse l'effetto che volevi suscitare tu: spaesamento, quasi indignazione. 

Dopo la strage, il lettore è portato a pensare che il piano del protagonista riuscirà, che le cose andranno come dice lui. Ed è qui che tu sganci la bomba e dove risiede l'originalità del tuo racconto. Il protagonista scopre che non sarà mai più nominato. Che nessuno lo ricorderà. Questa è una sorte che (purtroppo) si discosta moltissimo dalla realtà attuale, dove i serial killer sono figure mistiche, di cui conosciamo tutti il nome, il cognome, la faccia, ma le loro vittime sono semplicemente numeri. Non ricordavo la vicenda di Erostrato, e dopo questo racconto l'ho googlato: molto indicativo metterlo nel titolo, quasi a "spoiler" della fine del nostro protagonista, ma sottile. 
Albascura wrote: Sullo schermo appare la mia faccia. Il momento in cui guardavo la telecamera del palazzo comunale.
Il mio volto riempie lo schermo, un brivido di calore mi attraversa, è piacere puro. 
Questa immagine mette i brividi anche a me (non di calore!) Potentissima.
Le sue motivazioni mi hanno ricordato molto quelle dei ragazzi americani che fanno le stragi nelle scuole. Non so se fosse voluto o meno.

Chiudo col dirti che capisco tu abbia inserito il nome di Matteo forse per creare un legame col lettore, visto che lo vediamo da bambino, però dato che è menzionato una sola volta io l'avrei tolto. Se neanche noi avessimo mai saputo come si chiamava, sarebbe stato ancora più d'impatto. Ma è una piccolezza di fronte a tutto il resto.

A rileggerti, grazie della lettura!  :libro:

Re: [Lab18] (Erostrato) Novantasei ore di luce

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Scrittura molto sorvegliata, climax crescente chiusa adeguata. Si sente che c’è studio dietro e molta accuratezza nella scelta delle parole e nella ricerca di similitudini non scontate. Ci sento un certo rigore e un taglio quasi cinematografico soprattutto le zoomate su alcuni dettagli. Studiata anche la paratassi per far salire il ritmo  e il pathos.
[font="Open Sans", "Segoe UI", Tahoma, sans-serif]Una sorta di thriller psicologico che a tratti mi ha ricordato, non so perché, “Un borghese piccolo piccolo”, ma solo per la tragicità dell’azione eseguita da una persona “invisibile”.  [/font]
[font="Open Sans", "Segoe UI", Tahoma, sans-serif][font="Open Sans", "Segoe UI", Tahoma, sans-serif]È di certo un ottimo lavoro che ho letto con gusto. Forse, nell’insieme, la sensazione è di una certa rigidità.  Se posso, forse meno precisione e adesione alle regole  e un po’ più di slancio emotivo e “sporco”  (non costruito) renderebbero questo lavoro già ottimo, davvero eccellente.  Complimenti @Albascura [/font][/font]

Re: [Lab18] (Erostrato) Novantasei ore di luce

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Ciao @Albascura

Questo racconto per me è stato un vero colpo.
Certamente rimane impresso. Nel passato ho avuto a che fare con personaggi del genere, per vari motivi, che pur senza giungere ad azioni distruttive, erano comunque disturbanti nei loro atteggiamenti. Mi rendevo conto del loro desiderio di rivalsa nei confronti del mondo, dei loro simili. Alcuni avevano problemi sin da piccoli, altri erano semplicemente indifferenti al genere umano e se avessero potuto avrebbero fatto come il tuo protagonista.
A proposito: non spieghi come abbia le competenze per preparare un ordigno esplosivo a tempo. Può farlo un artificiere militare o anche un civile addestrato. Da chi? Perché? Se sbagli con i collegamenti dei fili e regolazione timer salti in aria. Dove ha trovato e assemblato il materiale? Ha svolto una vita normale, da cittadino comune, ha lavorato in comune. Ma tutto è possibile.
Ci sono uomini che sanno preparare un esplosivo anche con le bottiglie di liquori esposte in un bar, ma non basta spargere il liquido e incendiarlo. Per farlo esplodere bisogna saperlo fare.
Hai scritto un racconto intenso e disturbante, che segue il percorso interiore di un uomo cresciuto nell’ombra e deciso a conquistare, con un gesto atroce, quella visibilità che sente di non aver mai avuto. Il crescendo narrativo è coerente e ben scritto, si legge tutto d’un fiato, capace di far percepire il peso dell’invisibilità sociale e la sua deformazione in un narcisismo patologico.
Una notevole forza simbolica delle immagini, dal buco nel divano, sul quale Proust avrebbe scritto capitoli interi, all’ossessione per le telecamere. La voce narrante risulta volutamente sgradevole: il protagonista è freddo, compiaciuto, e riduce la vita altrui a materiale scenico per il proprio riscatto personale. Non è un personaggio con cui si possa empatizzare, né uno che si voglia davvero comprendere; è costruito per restare respingente, e in questo il racconto riesce perfettamente. Sei stata bravissima.
La svolta finale, in cui il suo desiderio di celebrità viene annullato da un decreto che lo condanna all’anonimato, ribalta con efficacia l’intera tensione narrativa.  Purtroppo nella vita reale non accade così. I protagonisti di crimini efferati diventano dei personaggi e le loro storie imperversano in televisione, con ricostruzioni, analisi, filmati, film, per decenni. 
Nel tuo racconto prevale una storia cupa, ben orchestrata ma abitata da un protagonista che non piace — e non deve piacere — perché la sua stessa voce è l’eco deformata di un bisogno umano portato all’estremo.
Complimenti.
Si salveranno solo coloro che resisteranno e disobbediranno a oltranza, il resto perirà.
(Apocalisse di S. Giovanni)

Re: [Lab18] (Erostrato) Novantasei ore di luce

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Albascura wrote: Le feste di compleanno che organizzava mia madre erano isole di cartone: scherzi maligni che duravano il necessario per mettersi in mostra.
Mi colpisce la mancanza di attinenza tra le isole di cartone in sé e gli scherzi maligni... tra l'altro è una bella idea in quel tipo di feste.
Albascura wrote: Le voci arrivavano lontane e felici. Io ero rifugiato in un posto inclinato dove la luce si sposta e ti nasconde.
Non capisco, dopo l'imperfetto all'inizio, la scelta del presente per il gioco di luce. Io avrei scritto:... dove la luce si spostava e mi nascondeva.
Sì, anche il "mi nascondeva".
Albascura wrote: Colpevole sì, ma virgola per la prima volta, presente.
per aprire l'inciso.
Albascura wrote: Tue Nov 25, 2025 12:05 pmEsco sul terrazzo, osservo il panorama che si gode dal terzo piano. Costruisco un ponte mentre sorseggio la bevanda calda. C’è un vuoto nel punto esatto dove sarò. Ci tengo che il ricordo resti. 
L'omissione di "come" o "con cosa" lo costruisci è troppo evidente.
Albascura wrote: Tue Nov 25, 2025 12:05 pm— Piazza Maggiore, domenica 9, ore dodici. Lo dico ad alta voce. La vibrazione del tono è perfetta. Penso a come sarà dopo, solo un momento,
Ometti di dire se qualcuno ha sentito l'ora e la data.
Albascura wrote: Tue Nov 25, 2025 12:05 pm L’avessi fatto oggi! 
L'avessi previsto per oggi?
Albascura wrote: Tue Nov 25, 2025 12:05 pmmia madre…poteva essere div
dopo i tre puntini manca uno spazio
Albascura wrote: Tue Nov 25, 2025 12:05 pmdi soprassalto. È l’alba 
manca il punto finale
Albascura wrote: Tue Nov 25, 2025 12:05 pmPrima di uscire, mi siedo in cucina. Immagino di essere in chiesa, immagino di essere come tutti gli altri che si svuotano dei peccati in un solo colpo succhiando l’ostia. 
Che brutta frase! Tra l'altro, nessun vero cristiano si riconoscerebbe nelle azioni che descrivi. (E il sacramento della Confessione non c'entra con la Comunione, dove, tra l'altro, l'ostia si ingoia, non si succhia). Ci può stare che il protagonista pensi in quel modo, ma almeno potresti sostituire 
"tutti gli altri" con "tutti quelli che": te lo consiglio.
Albascura wrote: Tue Nov 25, 2025 12:05 pmSorrido al mio pensiero di redenzione. Non mi serve.
Certo che no, fare così non servirebbe a nessuno.
Albascura wrote: Tue Nov 25, 2025 12:05 pmascolto la notizia che volevo sentirei sentire:
una i di troppo
Albascura wrote: Tue Nov 25, 2025 12:05 pmNessuno mi da mie notizie. Mi rinchiudono in una cella, il tempo si è fermato.  
Il possessivo non serve. Metterei un punto anche dopo "cella": tre piccole frasi importanti.
Albascura wrote: Tue Nov 25, 2025 12:05 pmNon so che giorno sia, mi portano in una stanza senza finestre, sopra un tavolo c’è una bottiglia d’acqua e un bicchiere, mi ricordo che ho sete. 
Dopo "finestre" ti suggerisco il punto e virgola.
Albascura wrote: Tue Nov 25, 2025 12:05 pmil Governo ha emanato il un decreto d'emergenza.
Albascura wrote: Tue Nov 25, 2025 12:05 pmDiventi un numero Un codice negli archivi della polizia.
Manca il punto
Albascura wrote: Tue Nov 25, 2025 12:05 pmPiango, non doveva andare così, non era per questo che ho ricostruito la mia identità.  
Sessant’anni di invisibilità. Novantasei ore di luce. Poi di nuovo l'ombra.
Sul muro della cella, incido il mio nome ogni giorno.
Qualcuno lo cancella ogni settimana.
Io lo riscrivo.
Finale tristissimo ma in linea con la logica del racconto. Oserei dire: non certo originale dopo il percorso di vita compiuto per sessant'anni.
Una buona lettura, @Albascura , con tanti sprazzi di luce nelle immagini scelte per illuminare il bene e il male tra le righe del tuo racconto.
Complimenti per il lavoro di pregio che hai impostato.  (y)
Di sabbia e catrame è la vita:
o scorre o si lega alle dita.


Poeta con te - Tre spunti di versi

Re: [Lab18] (Erostrato) Novantasei ore di luce

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Poeta Zaza wrote: Che brutta frase! Tra l'altro, nessun vero cristiano si riconoscerebbe nelle azioni che descrivi. (E il sacramento della Confessione non c'entra con la Comunione, dove, tra l'altro, l'ostia si ingoia, non si succhia). Ci può stare che il protagonista pensi in quel modo, ma almeno potresti sostituire 
"tutti gli altri" con "tutti quelli che": te lo consiglio.
Il mio protagonista pensa con la sua testa, non con la mia. Sapevo mentre lo scrivevo che non sarebbe piaciuto per la crudezza delle azioni, delle parole.
A te pare brutta perché sai che non sono credente, ma  la voce dell'autore non esiste, è il protagonista che parla, tutto questo è intenzionale. Io non direi mai certe frasi!
Ti consiglio di leggere Erostrato di Sartre, è il racconto da cui sono partita per questa trama. Ho solo cercato di essere originale e senza pregiudizi.
 Grazie per le correzioni Mariangela <3
PS.
l'ostia si ingoia, non si succhia) vuoi che non lo sappia? io ho fatto cresima e comunione. E non mi pesa sai?

Re: [Lab18] (Erostrato) Novantasei ore di luce

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Alberto Tosciri wrote: non spieghi come abbia le competenze per preparare un ordigno esplosivo a tempo. Può farlo un artificiere militare o anche un civile addestrato. Da chi? Perché? Se sbagli con i collegamenti dei fili e regolazione timer salti in aria. Dove ha trovato e assemblato il materiale? Ha svolto una vita normale, da cittadino comune, ha lavorato in comune. Ma tutto è possibile.
Ero già quasi sedicimila quando ho tagliato questa parte che manca, e si, tutto è possibile. Il protagonista è capace di tutto, perfino spendere tutto il TFS per pagare qualcuno che gli consegna il pacchetto pronto. 
Ho fatto perfino i calcoli del trattamento di fine servizio. Uno preciso come lui potrebbe arrivare a percepire dagli 80 ai novantamila  euro.
Grazie del bel commento, Alberto.

Re: [Lab18] (Erostrato) Novantasei ore di luce

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Poeta Zaza wrote:
Mi colpisce la mancanza di attinenza tra le isole di cartone in sé e gli scherzi maligni... tra l'altro è una bella idea in quel tipo di feste.
Uh! mi sono dimenticata di chiederti. È un tipo di festa che esiste davvero? Le madri si organizzano con cartoni scotch e colla? io non sapevo.


Pensa che io l'ho scritte perché mi sembravano chiare e potenti queste metafore. E se scrivi qualcosa che non arriva, devi capire il perché non ha funzionato.
"Isole di cartone" evoca qualcosa di artificiale, fragile, costruito per apparire ma privo di sostanza. È un'immagine di isolamento temporaneo e di finzione, qualcosa che sembra solido ma in realtà è precario e destinato a sgretolarsi.
"Scherzi maligni" aggiunge il tono emotivo del bambino: non erano solo finte, erano anche crudeli, beffarde. C'era dell'ostilità mascherata da celebrazione.
Insieme, queste metafore descrivono feste che erano:

Artificiali e vuote (il cartone)
Temporanee e isolate dal resto della vita (isole)
Pervase da una crudeltà sottile permeata da indifferenza (maligni)
Funzionali solo all'esibizione della madre (mettersi in mostra)
E questo volevo arrivasse, senza descrivere scene che evocassero la perfidia della genitrice. 

Re: [Lab18] (Erostrato) Novantasei ore di luce

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@Albascura il tuo racconto mi ha fatto pensare a Unabomber, una storia che mi ha fatto riflettere molto. Tempo fa in televisione avevano fatto un documentario lungo e dettagliato che ho seguito con (morboso?) interesse. Forse perché si tratta di un episodio di cronaca delle mie zone.
Unabomber era tristemente famoso perché è sempre rimasto nell'assoluto anonimato (ha installato una bomba nei bagni della questura a Pordenone e nessuno lo ha visto entrare e uscire), mentre in almeno un caso è rimasto presente sulla scena del "delitto" a osservare gli effetti del suo atto (aveva lasciato un evidenziatore bomba vicino a dei bambini lungo il greto di un fiume ed è rimasto ad osservare, una bambina si ricorda di lui ma è rimasta talmente shockata da non riuscire mai a riconoscerlo esattamente). Come il tuo personaggio dopotutto. Non solo lo rendi molto bene, ma il tuo racconto è in realtà la concatenazione di due racconti diversi: una premessa e un epilogo. E la premessa in sé è un circolo che inizia con un nome sulla torta (la cui assenza pesa su una psicologia da bambino come un'umiliazione) e finisce con il "soprannome" affibbiato (e quindi il nome, l'identità viene sempre negata). E lo stesso circolo è presente alla fine del racconto "epilogo" dove è sempre il nome a venire negato.
Il crescendo dell'atto è ben reso e nella lettura mi ha fatto correre in avanti per vedere come andasse a finire. Unico appunto: ti sei concentrata sull'atto, sulle emozioni degli inconsapevoli, mentre forse avresti potuto aggiungere un personaggio in più, magari spostando il POV tra l'attentatore e un astante che notasse il fare sospetto. Rimbalzando la scena tra due soggetti avresti incrementato ancora di più la suspence (che già così è alta comunque). Di sicuro avresti reso le azioni (viste non attraverso gli occhi dell'attentatore) come più efferate, più crude. 
Siamo assuefatti alla violenza perché la vediamo in continuazione  ma, da lettori, è la psicologia che ci frega e che ci colpisce maggiormente più della descrizione dell'atto. O forse così la penso io e sbaglio.
Comunque veramente un bel racconto, brava.

Re: [Lab18] (Erostrato) Novantasei ore di luce

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Albascura wrote: Le candeline tossivano luce
Che bella metafora!
Dovrei citare tutto il racconto per il superbo susseguirsi di immagini originali!
Bellissimo, bravissima!
Leggere è stato un vero "triste" piacere. Amo i testi che si sviluppano tra realtà e psicologia. Fare entrare nella testa del protagostista un lettore e far sì che segua il suo evolversi è un crescendo di coinvolgimento che non tutti sanno gestire. 

Re: [Lab18] (Erostrato) Novantasei ore di luce

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Non avrei dovuto leggere il tuo racconto prima di iniziare a scrivere il mio.
La potenza di questa storia ha spazzato via le mie idee, ha lasciato una scia di malessere e tristezza.
Non posso che farti i complimenti per aver dato una voce così reale al tuo protagonista.
Mi è piaciuto moltissimo come hai costruito la trama. In un primo momento ho sospettato un suicidio, ma continuando a leggere con crescente orrore si delineava l'idea della strage.
Questa lettura mi ha coinvolto, mi sono emozionata, ho empatizzato con il protagonista, sono inorridita incredula, incapace di comprendere come una persona possa essere così priva di sentimenti e al contempo disperata.
Per me è un racconto meraviglioso, grazie

Re: [Lab18] (Erostrato) Novantasei ore di luce

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Albascura wrote: Uh! mi sono dimenticata di chiederti. È un tipo di festa che esiste davvero? Le madri si organizzano con cartoni scotch e colla? io non sapevo.


Pensa che io l'ho scritte perché mi sembravano chiare e potenti queste metafore. E se scrivi qualcosa che non arriva, devi capire il perché non ha funzionato.
"Isole di cartone" evoca qualcosa di artificiale, fragile, costruito per apparire ma privo di sostanza. È un'immagine di isolamento temporaneo e di finzione, qualcosa che sembra solido ma in realtà è precario e destinato a sgretolarsi.
"Scherzi maligni" aggiunge il tono emotivo del bambino: non erano solo finte, erano anche crudeli, beffarde. C'era dell'ostilità mascherata da celebrazione.
Insieme, queste metafore descrivono feste che erano:

Artificiali e vuote (il cartone)
Temporanee e isolate dal resto della vita (isole)
Pervase da una crudeltà sottile permeata da indifferenza (maligni)
Funzionali solo all'esibizione della madre (mettersi in mostra)
E questo volevo arrivasse, senza descrivere scene che evocassero la perfidia della genitrice. 
Bella la tua spiegazione, ma a me non è arrivata.
Cominciamo dall'uso dei due punti. Introducono, quasi sempre, una spiegazione o un raffronto.
Ora io, da subito, mi sono chiesta: "Perché le isole di cartone (finte sì ma giocose se siamo in un contesto di festa di compleanno) accostate agli scherzi maligni?"
Tutto qui. Non so di giochi infantili se non in via generica con le scatole di cartone in giardino, magari.
Comunque, ora capisco quello che vuoi dire. Non l'hai trasmesso, secondo me, al lettore medio, e peccato perché si tratta dell'incipit.
Era un po' troppo difficile da capire.
Ma il resto, tanta roba @Albascura   :)
Di sabbia e catrame è la vita:
o scorre o si lega alle dita.


Poeta con te - Tre spunti di versi

Re: [Lab18] (Erostrato) Novantasei ore di luce

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Almissima wrote: La potenza di questa storia ha spazzato via le mie idee, ha lasciato una scia di malessere e tristezza.
Grazie di cuore per le tue parole, Almissima. Mi fa piacere che il racconto ti abbia coinvolta così intensamente, anche se ha lasciato dietro di sé un’ombra di tristezza. In fondo, credo che la forza della scrittura stia proprio nel riuscire a smuovere emozioni contrastanti. 
Spero che tu possa scrollarti di dosso il malessere e trattenere solo la parte buona: la consapevolezza che anche dalle storie più dure può nascere un un'idea nuova, un confronto e, perché no, un po’ di luce.  <3

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