Mi guardo intorno spaesata. Sono davanti alla vetrina di... Eldo, dichiara l'insegna, un parrucchiere: elegante, tre porte di vetro decorate.
Non so in quale città mi trovo e neppure chi sono. Amnesia? Ho preso una botta in testa? Me la esploro, sembra tutto a posto, non fosse per i capelli pieni di lacca, che detesto e non metto mai.
Un alzheimer fulminante? Possibile? Di solito ci sono delle avvisaglie, qualche segno premonitore. Forse non li ho notati, mi sono imposta di rimuoverli... Ha fatto così anche mio marito? E i figli? Oddio, non ricordo i nomi. Neppure il mio.
Sono stata da Eldo, penso tastandomi l'acconciatura, potrei entrare a chiedere informazioni. “Senta, può dirmi come mi chiamo?”
«Mi scusi, signora, c'è molto traffico.» L'autista della grossa Audi nera ce l'ha proprio con me. Completa il mezzo giro intorno alla macchina e spalanca la portiera posteriore. Lo guardo sgomenta; non ho memoria di lui, né del macchinone, né altro, vuoto assoluto. Stiro le labbra in un sorriso incerto, prendo posto, partiamo.
E mi accorgo, nel sistemarmi, di indossare un di visone. Com'è possibile? Sono un'animalista convinta, questo l'ho ben presente, non ho mai comprato una pelliccia! Mi esamino. Sotto c'è un abito di buon taglio, grigio, calzo stivali di vernice, ho al polso un bracciale dall'aria costosa e la fede al dito, più un grosso brillante. Chi sono? Ma certo: la borsetta! Devo averlo detto a voce alta, perché l'autista si gira a rassicurarmi.
«E' qui, signora, lei ha preso solo il borsellino.» Infatti lo trovo in tasca, con un po' di soldi.
Taccio, dedicandomi a osservare strade e palazzi, in cerca di qualche indizio. Niente.
Siamo arrivati. L'uomo mi fa scendere davanti a un condominio ricercato, mi mette in mano una borsa di coccodrillo e riparte. Salgo la breve scala che porta all'atrio; il portiere in divisa esce dalla guardiola per precedermi agli ascensori, allunga la mano nella cabina, preme il bottone. Attico, manco a dirlo. Sono dunque una ricca signora, peccato non saperne nulla.
L'ascensore inizia la salita mentre fisso lo specchio. E trasecolo. Non posso essere io, quella!
Una bionda tinta, caschetto pretenzioso, l'aria fasulla: una giovane vecchia. Si vede subito che si è tirata la faccia e usa il botulino; inoltre, verifico tastandomi, ha le tette di silicone, ovvio. Per il resto è pure troppo magra, starà sempre a dieta e si ammazzerà di fatica in palestra. Cosa mi è successo? Un incubo: sono sicura di avere tutt'altro aspetto e non lo rammento, buio totale!
Presa dallo sgomento, non ho cercato i documenti nella borsa, come mi proponevo di fare. Né ci riesco sul pianerottolo. La porta si apre immediatamente, compare un uomo. È senza dubbio il maggiordomo. Prende visone e borsa, annuncia che il senatore mi attende nello studio.
E per fortuna mi precede, non saprei dove dirigermi. L'attico occupa tutto il piano, dev'essere enorme.
«Sei in ritardo, Beatrice» il tono è duro, l'espressione arcigna.
«C'era... c'era traffico» mi trovo a balbettare. Lo guardo: mio marito, suppongo. Avrà una sessantina d'anni: capelli di un bruno sospetto, tratti marcati e occhi scuri. Non doveva essere male da giovane, però non mi piace. E ne ho paura, realizzo, sorpresa di me stessa.
«Non manca molto all'arrivo degli ospiti, controlla se è tutto a posto e vai a vestirti. Ti raggiungo tra poco.»
Richiudo la porta e cerco di orientarmi nell'attico. I saloni li trovo in breve, arredati con un lusso un po' pacchiano e predisposti per accogliere molte persone. Visto l'orario, deve trattarsi di un cocktail. Una donna in nero mi si accosta per riferire di tramezzini e piatti freddi; approvo senza capire.
Dovrei imboccare la porta e andarmene. Sì, al più vicino ospedale: ho l'alzheimer, oppure un'inspiegabile amnesia, mi cureranno. Ma sono convinta di avere marito e figli, dovrei almeno avvertirli. E come, se non rammento nulla?
L’occhio mi va a un grande ritratto a olio. E' lei, Beatrice, a meno di trent'anni. Carina, l'espressione lieta. E quella nello specchio di fronte, cioè io, mi sembra la sua grottesca e triste caricatura. Tra le due immagini, il vuoto.
Mi viene da piangere. Riprendo il giro della casa, passo nella zona notte. La camera da letto più grande dev'essere sua, il contenuto della cabina armadio lo conferma. Vado in bagno, mi lavo, su una mensola c’è un telefono, ma non so chi chiamare.
Torno nella camera, obbedisco al senatore: esamino gli abiti e ne scelgo uno da pomeriggio, rosso. Lo indosso e mi guardo, cercando invano di sentirmi Beatrice.
Lui entra, osserva e fa un cenno di diniego. Provo un senso di angoscia. Tolgo l'abito rosso, ne indosso uno nero. Non va bene e ne cambio altri due. L'uomo appare sempre più nervoso, io brancolo spaurita tra le grucce. Ecco una bella camicia di seta bianca, la abbino a dei pantaloni blu notte ricamati, davvero eleganti, e mi ripresento.
Furioso, me la strappa di dosso, tira con forza il tessuto, lo riduce a brandelli.
«Quando l'hai comprata?» urla strattonandomi «Sai che non devi andare da sola a scegliere i vestiti!»
Fuggo nel bagno, chiudo a chiave la porta, prendo il telefono. “Centododici, sì, il numero è questo, me lo ricordo...”
L’apparecchio squilla prima che lo componga.
«Pronto, sono Giovanna, in cosa posso esserle utile?» La formula esce da sola, meno male, mi sento ancora stordita. Mentre ascolto riacquisto più o meno il controllo
«Certo, noi assicuriamo massima riservatezza. Come preferisce, basta il nome. Può dirmi in che municipio abita?»
«Come ha conosciuto la nostra onlus?»
«E si è rivolta a noi per denunciare una violenza?»
Prendo nota nel formulario dedicato, fisso l’appuntamento. E mi rendo conto di essere arrivata al capolinea, o quasi; parlerò con le psicologhe e intanto rifiuterò il turno serale.
Ne ho ascoltate tante, troppe, di donne maltrattate. E alla lunga il carico della loro sofferenza diventa un macigno. Spesso mi addormento e sogno di essere una di loro, o di impersonarle mio malgrado. Orribile, ne esco angosciata.
Questa volta ero nei panni di Beatrice. Le parlai che ero volontaria da poco, fui molto colpita da quella che mi parve una violenza davvero sui generis.
Suo marito non l'aveva mai picchiata, ma negli anni si era via via impadronito della sua vita: rapporti con la parentela, scelta delle amiche, frequentazioni, viaggi. Ormai sovrintendeva in toto anche al suo aspetto, infuriandosi a ogni minima trasgressione. Lei, come molte, era da tempo chiusa nel “cerchio” e lo riteneva quasi normale.
Si decise a telefonarci dopo l'episodio della camicetta. Seguì il suo percorso di assistenza psicologica e chiese il divorzio.
Vado in bagno e mi guardo allo specchio. Ravvio con le mani i riccioli brizzolati e sorrido alle rughe e rughette che mi decorano la faccia. Le trovo simpatiche.
Nota. Lo spunto è tratto da una storia vera.
[Lab2] Amnesia?
1" ...con mano ferma ma lenta sollevò la celata. L'elmo era vuoto." (Calvino)
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