Traccia di mezzogiorno.
1. Perché?
Commento al racconto.
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Quella voce
«Perché?» Una domanda semplice che non sento più nella testa da tanto.
«Perché?» Esce ora, prepotente, sopita nell'angolo dove s'impolverano i sogni.
Nel rovistare sul portatile, mi sono imbattuto per caso in una delle tante "nuova cartella"; in questa, la scansione di una foto di papà, reperto storico di una realtà in cui la lira non era solo uno strumento musicale. Me lo ricordo, a inizio anno ho pensato di cambiare il portafoto e l'ho presa tra le mani, nuda nella propria carta lucida, dopo anni di trappola nella cornice da quattro soldi dell'ipermercato. Non potevo lasciarmi sfuggire l'occasione di digitalizzarla ad alta definizione, soprattutto nel vedere piccoli rivoli di colore dovuti al tempo o all'umidità: più semplice che rovistare casa alla ricerca dei negativi.
Me lo ritrovo davanti, sorridente mentre si volta verso l'obiettivo. Sandali aperti, jeans da lavoro e camicia sbiadita a righe verticali - l'abituale tenuta da artigiano - inginocchiato a terra, intento a cambiare la batteria del trattore: un vecchio SAME che a girare il volante faceva invidia ai pesi in palestra. Preso alla sprovvista si è voltato e ho fatto in tempo a scattare quella foto con la pinza per le mani, prima che il sorriso si mutasse in un'espressione a metà tra la sorpresa e il successivo richiamo, per dirmi di «non sprecare il rullino».
Picchietto il touch pad del portatile e la foto si ingrandisce, fino alle dimensioni reali; quel volto così simile e diverso dai fratelli, così lontano da qualsiasi vago ricordo posso avere dopo più di vent'anni. Inginocchiato, con le pinze in mano, sembra voler prendere la parola.
«Perché?» Continuo, mentre gli occhi si inumidiscono. «Perché non mi dici niente?»
Non mi illudo che possa cambiare qualcosa; resto a fissarlo qualche altro istante, asciugo gli occhi con la manica della maglia e chiudo quelle immagini inutili.
«Non ricordo nemmeno la tua voce...»
Mi lascio sfuggire questo prima di ricevere la notifica di una nuova email in ingresso: la solita bolletta, niente di emozionante. Ancora meno lo è l'ennesimo banner pubblicitario su chissà quale straordinario archibugio elettronico basato sull'intelligenza artificiale. Deve essere una costante, alcuni elementi intasano il mondo per un periodo e ci piovono addosso, deiezioni di piccioni cibernetici. Ricordo ancora "l'olio di palma", per un anno ogni pubblicità commestibile terminava con un inutile "senza olio di palma" o il "ok boomer" a dimostrazione che, quando non si hanno argomenti di conversazione, una rapida offesa è il miglior modo per arrogarsi consensi.
"L'intelligenza artificiale".
Non impiego molto per aprire uno di questi siti e interrogare l'assistente virtuale; chiedo di qualsiasi cosa e ricevo risposte organiche che si sforzano di apparire umane. Il tutto per aprire la strada a una domanda: «sei in grado di ricreare la voce di una persona?»
La risposta, affermativa e deferente, è seguita dall'istruzione di caricare almeno un breve video in cui questa persona parla. Ho qualche vecchio frammento di papà, convertito in dvd da vhs: voglio farmi illudere.
Pochi minuti; all'ennesima domanda, la risposta arriva con la voce di mio padre.
Uno stupido bot mi sta parlando con la voce di papà, lo sento discorrere di universo, attualità, problemi di matematica... di ogni argomento a seguito di un mio input. Una sensazione piacevole, lo schiaffo forte di un'illusione che mi intontisce a dispetto di una consolidata realtà. Rimarrei ore a sentire quella voce parlare di qualsiasi cosa che, di certo, papà non conosceva o che non esisteva negli anni novanta.
Per molti minuti sto lì a sentire la voce di mio padre dirmi frasi fatte sui conflitti mondiali o su quale regalo potrei fare a un mio amico per un compleanno. Alla fine digito queste parole: «dimmi con sentimento "ti voglio bene", come un padre direbbe a un figlio.»
La voce artificiale mi dice un «ti voglio bene», abbastanza scialbo a dire il vero, ma pizzica le corde dell'illusione e della nostalgia. Non ricordo se lui mi abbia mai detto così, ma forse erano parole celate nei richiami o quando mi portava al parco o a fare un giro.
«A farci una vasca» diceva, questo me lo ricordo bene.
Spengo quel dispensatore di falsi sogni, ne ho provati abbastanza.
Non credo di dare una risposta ai perché, forse dovrei telefonare a mia madre e chiederle qualcosa di lui, invece di limitarmi al solito «non c'è niente di nuovo e non ho voglia di parlare di lavoro», prima di trascinarci per qualche minuto con frasi fatte riguardo alle giornate che si accorciano o allungano o a un'attualità di cui, in fondo, siamo solo spettatori impotenti. Almeno prima di perdere anche lei, prima di pensare di farmi dire qualche parola da un plagio digitale della sua voce.
Ringrazio l'intelligenza artificiale per avermi regalato qualcosa; i racconti di fantascienza mi lasciano sempre questo sapore di anima delle cose, soprattutto per quelle più elaborate.
Mi sconnetto dalla rete e vedo che fuori è quasi notte, a quest'ora mio padre tornava a casa dal lavoro.
Lui che a cena raccontava sempre di quante tasse c'erano da pagare.
Lui che mi sembrava un pilota di formula uno quando andava a centoventi in autostrada con la Uno Fire.
Lui che aveva fatto un piccolo canale con l'aratro, nei campi - ormai invaso dalle sterpaglie e in gran parte coperto -, per far scorrere l'acqua piovana.
Voglio telefonare a mia madre; voglio sentirla lamentarsi dei suoi acciacchi, dei nipoti o del freddo che all'improvviso ha spazzato via l'estate.
L'ennesima estate, prima di un ennesimo inverno e di un'estate ancora. Il tutto mentre camminiamo verso il nulla, anno dopo anno. Da parte mia, passerò il tempo della chiamata a lamentarmi con lei del lavoro o di qualsiasi altra cosa mi ronzi in testa.
A ogni modo, cercherò un posto dentro di me per conservare le sue risposte; per non interrogare una stupida intelligenza artificiale solo per sentirla rispondere con la sua voce.
[MI188] Quella voce
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